MITI E MISTERI DI ATLANTIDE (quinta parte)

Nella rappresentazione delle condizioni di vita e di sviluppo dell’umanità fatte dai teosofi possiamo trovare delle coincidenze, dei punti di contatto, delle affinità anche con quanto aveva sostenuto G. B. Vico nella sua opera principale “La Scienza Nuova”. Il geniale filosofo italiano infatti aveva descritto gli umani nelle prime fasi del loro sviluppo -l'”età degli Dei”-, anteriori alla “storia” vera e propria, come degli “stupidi, insensati ed orribili bestioni” che vivevano vagando nelle foreste in stato di completa anarchia (il che peraltro non è del tutto vero poiché avevano delle rudimentali forme di organizzazione sociale), ma che avevano in qualche modo una intuitiva e istintiva percezione del mondo superiore. Spinti dall’ambiente naturale ostile entro il quale dovevano farsi largo e dai molti pericoli incombenti su di essi, cominciarono a scoprire e a intuire le divinità e a creare le leggi morali, adottando legami sociali improntati ad una certa complessità, e istituendo, come dice il Foscolo, “nozze, tribunali ed are”( Dei Sepolcri, v.91).

Notiamo per inciso che il Vico attribuisce agli Egizi, da lui considerati la popolazione più antica, la teoria storica delle “tre età” (degli Dei, degli eroi e degli uomini) da lui poi fatta propria attraverso l’esame dell’evoluzione delle antiche civiltà: “L’antichità degli Egizi in ciò [nel delineare la storia universale] grandemente ci gioverà, chè ne serbano due grandi rottami non meno maravigliosi delle loro piramidi, che sono come queste due grandi verità filologiche.

Immagine del frontespizio della prima edizione di "La Scienza Nuova".
Immagine del frontespizio della prima edizione di “La Scienza Nuova”.

Delle quali una è narrata da Erodoto: ch’essi tutto il tempo del mondo che era corso loro dinanzi riducevano a tre età: la prima degli dei, la seconda degli eroi e la terza degli uomini”. Tale suddivisione sarebbe stata ripresa dall’erudito latino M. Terenzio Varrone, il quale parlò di “tempo oscuro, ch’è l’età degli dei; quindi tempo favoloso, ch’è l’età degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch’è l’età degli uomini che dicevano gli Egizi”. Ed in effetti questa concezione sembra ben rispecchiare quella che vede nell’età della Lemuria, di Atlantide e delle civiltà successive le tappe dello sviluppo umano, e che sarebbe stata loro trasmessa da Atlantide, della quale erano gli eredi.

Ed in effetti l’esistenza di una razza umana di dimensioni gigantesche, quale dovette essere quella Lemuriana, almeno nelle prime fasi del suo sviluppo, sembra aver trovato conferma in alcune importanti scoperte archeologiche  e paleontologiche di indubbia serietà avvenute durante il XX secolo.

Un noto paleontologo cinese, Pei Wen-Chung (1904-1982) portò alla luce nei suoi scavi a Gargayan, nelle Filippine uno scheletro umano alto 5,18 m, con denti incisivi lunghi 7.5 cm larghi 5 cm, e poi altri nelle regioni sud-orientali della Cina della statura di 3,50 m., ipotizzando che tali reperti risalgano a circa 300.000 anni fa.

La stessa età viene attribuita ai reperti rivenuti in Marocco, dove un altro studioso, il capitano francese Lafenechère, mentre effettuava scavi nei pressi di Agadir, scoprì utensili ed armi di insolita grandezza, tra i quali ben 500 bipenni (scuri a due tagli) pesanti ciascuna 8 kg: per poterne impugnare l’enorme manico occorrerebbe la mano di un individuo alto almeno 4 metri. Altre reliquie, ossa o arnesi, sono state trovate in Siria, in Pakistan e nell’isola d Giava.

E non si può certo tralasciare il fatto che non esiste alcuna popolazione antica o primitiva nella quale non si tramandino miti che hanno come protagonisti dei giganti, sia singoli, sia come membri di stirpi umane o umanoidi o semidivine dalle smisurate dimensioni. Nella mitologia ellenica il termine “Giganti” indica una stirpe semidivina, nata da Gaia, la Terra, dopo che fu fecondata dal sangue di Urano evirato da suo figlio Cronos. Osserviamo peraltro che nella prima citazione che ci è rimasta dei “Giganti” nella letteratura greca, in Odissea, VII, 59 essi sono detti essere una tribù selvaggia, ormai estinta a causa delle lunghe guerre; dalla figlia del loro re Eurimendonte, di nome Peribea, e da Poseidone, era disceso Alcinoo, re dei Feaci, presso il quale era stato ospitato Ulisse avanti di tornare ad Itaca.

Con Esiodo, che ne accenna nella sua Theogonia (vv. 185-186) i Giganti (1) appaiono come una delle mostruose stirpi generate dal grembo della Terra, e tali rimarranno nella posteriore tradizione mitologica ellenica, dove furono i protagonisti del ciclo epico della “Gigantomachia” cioè dell’immane lotta che essi sostennero contro gli dei per scacciarli dal dominio dell’Universo.

Molti di questi esseri si incontrano nella Bibbia, dove peraltro essi non sono rappresentati come creature eccezionali, ma come appartenenti a razze diverse, la cui caratteristica saliente, -ma non unica-, rispetto alla comune umanità, è la grandezza fisica. Nel sesto capitolo della “Genesi”, (1-6) si afferma che quando “i figli di Dio [o più esattamente degli Dei -“bene Elohim”] videro che le figlie degli uomini [ovvero le donne derivate dalla stirpe di Adamo ed Eva, quali come viene detto nel capitolo precedente avevano procreato una numerosa progenie durante gli 800 anni della loro vita, e che per evidente necessità contrarre unioni incestuose] erano belle ne presero come spose quante ne vollero” (2). Ma allora sulla terra esistevano anche i “Giganti [“Nephilim”] e ci furono anche in seguito, poiché dopo che i figli di Dio si erano congiunti alle figlie degli uomini, esse generavano loro dei figli; questi ultimi sono gli eroi dell’antichità, uomini famosi”.

Nel testo ebraico originale i “Giganti” sono detti “Nephilim”, nome è derivato dal verbo “naphal”, che significa “venire giù, cadere, discendere” e si può interpretare come “coloro che fanno cadere, che abbattono”, ovvero dotati di una straordinaria forza fisica, ma si potrebbe peraltro intendere come “discesi” da una stirpe divina, o ancora “decaduti” da una condizione superiore di splendore . Questo termine fu poi reso in greco con “giganti” (γìγαντες) nella Bibbia dei LXX (3), che però ne chiarisce e determina il significato, definendoli anche “uomini famosi” (oι ανθρωποι oι oνoμαστοι) vissuti nell’antichità. Ebbene come non vedere in questi esseri semidivini discesi dai figli di Dio e dalle figlie degli uomini gli eroi nati dal connubio tra dei e donne mortali che si incontrano in pressoché tutte le mitologie, in primis quella greca? Ed in effetti, sebbene chiamati “giganti”, più che ai Giganti della mitologia greca, sembrano potersi identificare negli “eroi” (quali Tantalo, Sisifo, e poi Perseo, Eracle, ecc.).

E in Numeri, 13, 33 gli esploratori inviati da Mosè in avanscoperta nel paese di Canaan riferiscono di avervi trovato una popolazione di giganti, i figli di Anach, di fronti ai quali essi sembravano locuste. Ed altre volte gli “Anachiti” sono citati nel Deuteronomio, sempre come stirpe di esseri grandi e forti, giudicati quasi invincibili dagli Israeliti; ma essi non erano l’unica schiatta di giganti presenti nell’area palestinese: nel libro biblico si ricordano anche gli Emim, stanziati nel paese di Moab e i Refaim. Tra questi ultimi si dedica particolare attenzione ad Og, re di Basan (regione palestinese a sud-ovest di Damasco, poi chiamata Batanea in età ellenistico-romana),  ultimo della loro stirpe, del quale viene detto che il suo letto di ferro era lungo 9 cubiti (più di 4 metri) e largo 4 (quasi 180 cm)(4).

Davide con la testa di Golia.
Davide con la testa di Golia.

E naturalmente non possiamo non ricordare il più celebre dei giganti citati nel testo biblico, il “gigante” Golia (I Samuele, 17), -abbattuto da Davide-, il quale però non era un vero gigante (ed infatti non è definito tale), ma solo un uomo molto alto e prestante, alto sei cubiti e un palmo, appartenente, come lui stesso dichiara, al popolo dei Filistei, dei quali era il campione offerto per lanciare una sfida a singolar tenzone al più forte degli Israeliti. Si precisa inoltre che indossava una corazza a piastre del peso di 5.000 sicli e che l’asta della sua lancia era lunga come un subbio (un elemento cilindrico che fa parte del telaio) di tessitore mentre la lama della stessa pesava 600 sicli (5).

Erodoto narra (Storie, I, 68) che la Pizia di Delfi aveva vaticinato che Sparta non sarebbe riuscita a vincere la città di Tegea, -dalla quale in precedenza era stata sottomessa-, fino a quando i Lacedemoni non avessero ritrovato la tomba di Oreste, il figlio di Agamennone e Clitennestra. Uno di essi, chiamato Lica, ebbe la ventura di scoprire il sepolcro con l’aiuto di un fabbro che gli aveva confidato di aver dissotterrato un’urna funeraria della lunghezza di sette cubiti ( circa 3,7 m, avendo il cubito greco una lunghezza di 0,525 m), contenete lo scheletro di un uomo di eccezionali dimensioni. In un primo tempo Lica non venne creduto dai suoi concittadini, ma poi riuscì ad impossessarsi delle ossa del presunto Oreste, portandole a Sparta, dove divennero un potente talismano, tale da propiziare la conquista di tutto il Peloponneso da parte della città dorica. E nell’Iliade (libro VI) si dice che la lancia di Ettore fosse lunga ben 11 cubiti (5,77 m). Ed in effetti era credenza comune nell’antichità che gli esseri umani delle età primigenie fossero non solo più longevi, ma di dimensioni assai maggiori di quelle dell’umanità recente.

Nell’ambito dei giganti possono essere ascritti anche i “Dànava” della mitologia indù. Erano essi i rampolli di Danu, una dea delle acque primordiali, a sua volta figlia di Daksha, -una divinità nata dal pollice di Brahama-, i quali, come i Giganti del mito greco, si ribellarono agli dei, ma furono sconfitti. Il loro nome è stato accostato a quello dei Danai, i figli di Danao, trasferitisi con il padre ad Argo, in Grecia, dall’Africa settentrionale, a causa della discordia di quest’ultimo con il gemello Egitto (dal quale prese il nome quello che fino ad allora era chiamato il Paese dei Melampodi”), dai quali venne la denominazione “Danai” attribuita prima alla tribù pelasgica presso la quale si erano stabiliti ed avevano regnato, e poi a tutti i Greci.

Statua indiana che raffigura un "Dànava".
Statua indiana che raffigura un “Dànava”.

Secondo l’interpretazione di diversi studiosi dell’Induismo e della storia indiana, questi esseri che nei testi indù vengono descritti con caratteristiche demoniache, adombrerebbero le popolazioni autoctone dell’India di stirpe dravidica, poi sottomesse dagli Arii, e quindi, -anche se il loro nome è di origine indoeuropea, poiché dato dai conquistatori-, si possono considerare gli ultimi discendenti dei Lemuriani (tanto più che la Lemuria aveva il suo centro proprio nell’Oceano Indiano).

Osserviamo ancora che il nome della loro madre è probabilmente derivato da una radice proto-indoeuropea che indica l’acqua, l’umidità, che si ritrova nell’avestico “danu” =fiume, e poi nel nome di molti fiumi, quali il Danubio (nome derivato, attraverso il latino “Danuvius”, secondo alcuni dal celtico e secondo altri dalla lingua scitica), il Don, il Dnepr, il Dnestr (derivati dallo scitico, lingua che appartiene al gruppo iranico); esiste tuttora un fiume chiamato Danu in Nepal.

Ma con i Dànava e con la dea Danu sono connessi pure gli irlandesi “Tuatha Dè Danann” (“il popolo -o la tribù- della dea Danu”), prole di una dea Danu, -o Anu-, da identificare con la divinità indù. Costoro giunsero in Irlanda, dove sconfissero e si sovrapposero agli dei che dominavano l’isola prima di loro, i “Fomorè”, che nella posteriore tradizione celtica sono considerati giganti di indole maligna, che tuttavia in parte di mescolano con i nuovi venuti, -secondo uno schema presente in varie religioni indoeuropee di due categorie di esseri divini, dei quali uno ctonio e legato alla terra e l’altro uranico e celeste (Devi e Asura presso gli Arii; Asi e Vani tra i Germani; Indigetes e Novensides degli antichi Romani, ecc.)-.

A queste testimonianze si possono accostare le antiche leggende tramandate dai popoli amerindi precolombiani, come ad esempio quelle dei Toltechi, che narravano dei “Quinametzini”, una razza di uomini di smisurate dimensioni che popolavano la Terra in epoche remote e che si estinsero a causa delle feroci lotte che combatterono prima tra loro stessi, e oi con le altre razze umane. Nella mitologia azteca compare invece la storia di Xelua e dei suoi sei fratelli. Miracolosamente scampati ad uno dei terribili cataclismi che avrebbero portato alla totale disgregazione del continente lemuriano, i sette fratelli esprimere la loro gratitudine e il loro ringraziamento al dio delle acque, Tlalos, il quale li aveva salvati, consacrando a lui il monte sul quale avevano trovato riparo. In onore del dio costruirono una “zacauli”, un edificio granitico di forma piramidale che sarebbe giunto a toccare il cielo se gli altri dei, gelosi ed irritati dalla loro presunzione, non avessero fatto piovere fuoco sulla terra, provocando così la morte dei costruttori. Ma la ciclopica torre non crollò del tutto: la sua base, alta 54 metri, si ritiene possa essere la piramide quadrangolare rinvenuta nella città messicana di Cholula, a 13 km da Puebla.

Ed in effetti l’ipotesi dell’esistenza di una razza umana primitiva di gigantesche proporzioni può offrire una plausibili spiegazione all’enigma tuttora rappresentato dai più antichi monumenti megalitici della Terra: i “Menhir” (“pietre lunghe”), i “Dolmen” (tavole di pietra ed i “Cromlech” (alte pietre disposte in circolo).

Un "dolmen".
Un “dolmen”.

I “menhir” sono dei rozzi monoliti piantati verticalmente nel terreno; i “dolmen” sono costituiti da un enorme lastra di pietra posata su due o tre massi  conficcati al suolo, in modo da formare una primordiale tavola di ragguardevoli dimensioni (e per questo a tali monumenti preistorici è stata data talvolta la denominazione popolare di “tavole dei giganti”); i “cromlech” sono un complesso di “menhir” disposti in cerchio a racchiudere una superficie più o meno vasta (6).

Secondo il cosmologo franco-inglese Denis Saurat (1890-1958), i menhir sarebbero delle rudimentali raffigurazioni dei primi abitanti della Terra, i dolmen le loro tavole, mentre i cromlech rappresenterebbero l’area sacra, lo spazio delle divinità, il “templum” nel senso latino originale, il luogo dove si guarda il cielo per scrutarvi i segni della presenza divina.

Senza dubbio, il cromlech più conosciuto e famoso è quello che si erge nella pianura di Stonehenge, nell’Inghilterra meridionale, i cui enormi megaliti dalla struttura architravata, -tali che solo individui dotati di una straordinaria statura e forza fisica avrebbero potuto innalzarli senza l’ausilio di un’avanzata tecnologia (a meno che non si pensi ad un intervento alieno)-, disposti a cerchi concentrici dovevano essere, oltre che  segnacoli di uno spazio cultuale, gli elementi e gli strumenti di un complesso osservatorio astronomico, tramite il quale convogliare le energie cosmiche.

Il cromlech di Almendres.
Il cromlech di Almendres.

Un altro importante cromlech, non meno suggestivo di Stonehenge, è quello che si trova ad Almendres, in Portogallo, scoperto nel 1966, che si ritiene risalga al 6.000 a. C., sebbene gli siano state apportate aggiunte e modifiche in età successive. Esso è costiutito da 95 megaliti, dei quali molti presentano incisioni e disegni; un singolo menhir, alto 4,5 metri, che sorge in posizione isolata a 1.400 m a Nord-Est del cromlech indica il punto in cui sorge il Sole nel solstizio d’inverno.

E’ possibile peraltro che i dolmen fossero talvolta impiegati per celebrare cruenti sacrifici umani. In Nuova Guinea infatti sono stati rinvenuti complessi megalitici nei quali davanti a ciascun menhir è collocato un dolmen, il che fa presumere che quest’ultimo svolgesse la funzione di altare posto davanti ad una pietra che, come i “betili” dei Semiti occidentali, in particolare i Cananei e gli Arabi, erano ritenuti la sede della divinità.

Una leggenda tramandata dagli indigeni sembra confermare tale ipotesi: essa narra che sulla Terra esistettero un tempo giganti benevoli, discesi dal cielo sotto la guida del loro re Tagaro, che aiutarono gli uomini a progredire nella civiltà ed insegnarono le scienze e le arti. Ma poi vennero dei giganti cattivi e feroci, il cui spietato capo era chiamato Suque; essi pretesero che fossero loro offerti sacrifici umani e così si dovettero costruire mense di pietra davanti alle loro statue. Tagaro cercò di opporsi alla loro crudeltà, ma Suque si ribellò e scatenò una tremenda guerra che terminò con lo sterminio di entrambi i contendenti. I giganti scomparvero, ma gli uomini, temendo il loro ritorno e la loro collera, continuarono ad erigere statue e a sacrificare vittime.

Una impressionante ed enigmatica testimonianza di quella che dovette essere il mondo del Lumuriani è un singolare monumento che trovasi in Amazzonia a cosiddetta “Pedra Pintada” (Pietra dipinta). Essa è un imponente blocco di pietra che si erge al centro di vasto complesso megalitico in un altipiano compreso entro la riserva indiana di San Marcos a circa 140 km dalla città di Boa Vista. Questa formazione rocciosa è alta 35 metri, lunga 100 e larga 80.

La "Pedra Pintada".
La “Pedra Pintada”.

Secondo un’antica tradizione indigena, la Pedra Pintada sarebbe il monumento sepolcrale di un gigante biondo, re di un misterioso popolo vissuto in tempi remotissimi. Sulla facciata principale si notano quattro grotte scavate nella pietra, quasi alla sommità dell’enorme blocco si apre una galleria divenuta ormai inaccessibile, mentre al di sotto esiste un passaggio che conduceva probabilmente ad una costruzione sotterranea; anche questa galleria è percorribile solo per 30 metri, poiché nel tratto finale è franata del tutto.

All’interno delle grotte sono stati rinvenuti cocci di ceramica, asce, monili ed altri manufatti. Vi sono inoltre numerose pitture rupestri di colore bianco rosato o rossastro che si stimano risalenti a circa 11.200 anni fa. Sulla “Pietra” sono dipinti migliaia di segni e di lettere che ricordano le scritture dell’antico Egitto e quelle semitiche; sono riprodotti inoltre cavalli e carri a ruote che appaiono tutti di profilo secondo lo stile e la tecnica degli Egizi: queste figure hanno suscitano negli studiosi notevole perplessità poiché gli Indios all’arrivo dei conquistatori bianchi non conoscevano né cavalli, né tanto meno carri e ruote.

Il singolare e misterioso monolito fu scoperto nel 1950 dall’antropologo franco-tedesco Marcel F. R. Homet (1897-1982), il quale compì numerosi studi ed esplorazioni nell’America meridionale (e in diverse altre aree del mondo).Gruta_Pedra_Pintada L’esimio studioso, che aveva dedicato la sua vita alla ricerca delle vestigia dei giganti, conducendo numerose spedizioni archeologiche nei luoghi più inaccessibili del pianeta, tentò di penetrare il segreto custodito dalla “Pedra PIntada” eseguendo accurate ricerche. Egli scoprì che tra i detriti che ricoprivano il suolo nelle quattro caverne vi erano molte ossa umane, e da questo dedusse che fossero state impiegate quali primordiali tombe collettive.

Ma, con sua grande meraviglia, accadde che, mentre si trovava in quegli antri per esaminare gli oggetti in essi contenuti, cominciò ad udire distintamente echi impressionanti di suoni e voci lontane: l’archeologo ebbe la ventura di vivere un incredibile incubo nel quale riaffiorava con  allucinante chiarezza un passato fino ad allora ignoto.

Homet stesso nel suo libro “I figli del Sole”, pubblicato nel 1958, afferma di essere entrato in una sorta di “trance” e di aver avuto una terrificante visione che descrisse con queste parole: “Accompagnata dai lugubri rintocchi di bronzei gong, una gran folla si moveva dirigendosi verso la Pedra Pintada. Migliaia di uomini, donne e bambini vestiti di bianco si appressavano lentamente e maestosamente al santuario, per arrestarsi poi dinanzi all’ingresso principale. Una potente voce risonò alta dal cielo, riecheggiò per cinque o sei volte sulla massa dei fedeli, che si prostrò reverente. Alcuni uomini altissimi, in atteggiamento solenne, si staccarono dalla moltitudine e si accostarono al gigantesco monumento di pietra. Uno di costoro si pose davanti al dolmen pentagonale sulla facciata principale; un altro, seguito dai suoi aiutanti, salì sulla seconda spianata, un po’ più elevata, della quale gli astanti potevano vedere soltanto le aperture delle quattro grotte sepolcrali; un terzo, dall’aspetto ancor più imponente, anch’egli accompagnato da assistenti, si incamminò sulla larga strada scavata nella roccia, scomparendo alla vista dei pellegrini inginocchiati nella pianura sottostante.

Ascesero quindi a lento passo sulle due spianate, senza catene e guardiani, ma sostenuti da due “servi della morte”, due uomini nudi. L’espressione dei loro volti era quella di persone addormentate. Furono distesi sulla sommità del dolmen, la cui tinta rossa come il sangue cominciò a risplendere sotto i raggi del sole nascente. Ancora una volta risonarono e si ripeterono i misteriosi richiami dall’alto; i sacerdoti afferrarono gli affilatissimi coltelli rituali e li affondarono nel petto delle vittime, strapparono loro i cuori e li aprirono. Poi lanciandone i pezzi ai quattro punti cardinali, annunciarono ai fedeli il destino che li attendeva nel prossimo anno”.

Questa raccapricciante visione, intrisa di atrocità, riferita non da un ciarlatano, ma da un uomo di scienza dotato di un cospicuo bagaglio culturale, sembra confermare l’effettiva realtà della “psicometria”, la facoltà “paranormale” che renderebbe alcune persone di particolare sensibilità e sensitività in grado di percepire attraverso le “vibrazioni” di qualsivoglia oggetto gli eventi dei quali l’oggetto stesso fu strumento o muto testimone. E’ dunque davvero possibile che la “Pedra Pintada” sia talmente intrisa di olocausti umani da trasmettere tuttora il carico di dolore e di orrore che avrebbe assorbito? E che questa razza quasi sconosciuta fosse così crudele da lasciare dietro di sé una così vasta eco di terrore?

Forse lo divenne dopo che i movimenti di assestamento del nostro pianeta avevano cominciato a disgregare Lemuria, costringendo i suoi abitanti ad abbandonare la loro patria per sopravvivere, ad emigrare in terre a loro ignote e ad incontrare razze da loro assai diverse per aspetto e tradizioni.

Quegli enigmatici dolmen e menhir, che suscitano talvolta nel visitatore un indefinito senso di inquietudine, eretti da codeste genti nei luoghi ove furono costrette a condurre la loro esistenza, furono forse un modo per illudersi che una torma di pietre potesse divenire e continuare ad essere per prodigio divino, propiziato da cruenti sacrifici, il popolo forte e ardito della Lemuria, ormai scomparsa per sempre.

Note

1) l’etimologia del nome è alquanto incerta e oscura: alcuni l’hanno messa in relazione con Gaia, la Terra Madre; ma è probabile che derivi da una lingua pregreca egeica o micro-asiatica. Nella descrizione fattane nella “Biblioteca di Apllodoro”, -epitome di mitologia greca di epoca incerta, presumibilmente scritta nel I o II secolo, che abbiamo più volte citato- (I, 6), si dice che, oltre alle enormi dimensioni, e all’aspetto orrido, essi avevano code di serpenti alle estremità inferiori: particolare che senza alcun dubbio evidenza il loro carattere ctonio (cioè legato alle profondità della terra).

2) quali esseri o entità debbano intendersi per “figli di Dio” (o più esattamente degli dei, poiché, -come abbiamo già detto altrove- il sostantivo “elhoim” è il plurale di “elhoa”, e dunque quello che è considerato il nome del dio unico significa in realtà “gli dei”, sebbene i verbi ad esso riferiti siano coniugati al singolare) è alquanto controversa. La spiegazione più comune e più semplicistica è che si tratti di “angeli”; ma a questa interpretazione ostano due fatti: a) che in precedenza descrivendo la creazione nella Genesi non si fa alcun cenno ad angeli o altre entità incorporee; b) gli angeli nella posteriore tradizione giudaico-cristiana, -sebbene con qualche oscillazione- sono considerati esseri asessuati e privi di concupiscenza, ambizioni e desideri terreni. Altre ipotesi alquanto zoppicanti e stiracchiate vorrebbero i “figli di Dio” generati dai figli di Seth, -il terzogenito di Adamo ed Eva-, il quale si sarebbe unito, in modo, per forza di cose, incestuoso alla successiva progenie femminile dei due protoantropi, ovvero ad improbabili “figlie di Caino”, che quest’ultimo avrebbe procreato non si sa in che modo; o ancora delle figlie del medesimo Seth e di angeli. In effetti, specie nel giudaismo tardo, e in testi apocrifi, talora alcuni angeli appaiono non del tutto insensibili alle lusinghe mondane e in particolare alle grazie femminili; in questo caso queste entità non sembrano affatto asessuate, ma dotate di polarità maschile, -pur se in qualche raro caso siano citati angeli “femminili” (si veda a proposito quanto abbiamo detto a proposito di al-Uzzah  nell’articolo sulla Pietra Nera della Mecca). In epoca recente taluni hanno reputato che questi esseri siano entità aliene giunte sulla Terra da altri pianeti e che avrebbero contribuito a creare la razza umana.

3) è così chiamata la versione in greco della Bibbia portata a termine sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo, della dinastia dei Lagidi, re d’Egitto dal 285 al 247 a. C., da un gruppo di traduttori ebrei. Secondo la tradizione, questi ultimi sarebbero stati in numero di 72 -6 per ciascuna delle tribù ebraiche- (e per questo detta dei LXX), ospitati dal re nell’isoletta di Faro alle porte di Alessandria, e che avrebbero compiuto l’opera in 72 giorni.

4) il cubito ebraico misurava circa 44,45 cm; il cubito comune egizio 44,7 cm. Pertanto non vi era tra di essi una cospicua differenza.

5) il siclo, unità di misura di peso e poi moneta in uso nel Vicino Oriente antico corrispondeva ad un valore variabile tra i 10 e i 13 grammi, a seconda dei tempi e dei luoghi. In questo caso dunque la corazza era pesante almeno 50 kg e la punta della lancia almeno 6 kg.

6) i nomi “menhir” e “dolmen” sono composti di parole proprie della lingua brètone, del gruppo celtico; “men” =pietra e “hir” =lungo, e dunque “lunga pietra”; “daol” = tavola e “men”: “tavola di pietra”; “cromelech” deriva invece dal gallese e significa “lastra incurvata”.

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