L’ULTIMA THULE E IL MISTERO DEGLI IPERBOREI -prima parte-

Questa terra misteriosa e leggendaria, della quale hanno parlato, o che è stata citata, come luogo sito nell’estremo nord, da diversi autori antichi e moderni, ha suscitato la viva curiosità dei moderni, ed è stata talvolta messa in relazione con Atlantide. L’espressione “ultima Thule”, divenuta proverbiale per indicare gli estremi confini del mondo, si trova in un emistichio di Virgilio (Georgiche, I, 30) inserito un serie di lodi ad Ottaviano Augusto: nel proemio delle “Georgiche” il sommo poeta si rivolge al restauratore dello stato romano e suo protettore in qualunque veste voglia assistere e propiziare l’opera che si accinge a compiere, anche di nume del mare che estenda il suo dominio fino alla lontanissima isola di Thule (“An deus immensi venias maris ac tua nautae/  Nomina sola colant, tibi serviat ultima Thule” = “…o quale dio dello smisurato mare, tal che i marinai/ il solo tuo nome venerino, e sia al tuo servizio l’estrema terra di Thule”).

Alcuni hanno addirittura identificato Thule, -concordemente collocata da tutti coloro che ne fanno menzione nell’estremo nord-, con il favoloso continente evocato da Platone e ripreso da diversi scrittori dall’800 in poi quale sintesi di una fase dell’evoluzione umana, o hanno ritenuto che fosse la parte settentrionale di Atlantide scampata al cataclisma che ne aveva distrutto la maggior parte; o ancora che fosse stata popolata da alcuni superstiti di tale immane catastrofe.

Ad esempio, una strana figura di artista e mitologo finlandese, un certo Bror Holgr Svedlin, noto con il nome di Ior Bock (1942-2010) asserì che Atlantide si sarebbe trovata durante l’era glaciale nell’attuale Finlandia, dove però in quel periodo il clima era mite grazie alla corrente del Golfo. Secondo l’ipotesi di Ior Bock, il nome stesso di Atlantide deriverebbe dallo svedese “Allt-land-is” e l’avanzata civiltà in essa fiorita sarebbe scomparsa nell’8016 a. C. quando la glaciazione finì e il ghiaccio si sciolse. Gli abitanti sopravvissuti ai profondi sommovimenti e alle inondazioni che accompagnarono la fine di quell’epoca, presa stabile dimora nei territori più elevati, che non erano stati sommersi dalle acque, avrebbero allora dato inizio all’originale cultura finnica.

Il primo autore che cita Thule è Pìtea di Marsiglia (380-320 a.C. circa) -ricordiamo che Marsiglia era una colonia greca-, navigatore ed esploratore che scrisse il racconto delle sue avventure in due opere: una “Sull’Oceano (“Περì Oκεανου”), nella quale descrive l’esplorazione che condusse nell’Atlantico settentrionale, appunto fino all’isola di Thule; l’altra, il “Periplo” in cui espone le sue peregrinazioni nell’area del Mar Baltico, donde proveniva la preziosa ambra, -resina di antiche conifere fossilizzatasi nelle viscere della terra con il trascorrere dei secoli-, assai apprezzata e ricercata dalle popolazioni che abitavano nei paesi circum-mediterranei, i quali la impiegavano per farne originali monili.

Una veduta dell'Islanda, forse la Thule degli antichi-
Una veduta dell’Islanda, forse la Thule degli antichi-

Ambedue queste opere sono state purtroppo perdute, e se ne conoscono dunque solo frammenti e citazioni in opere di altri autori, quali Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio. Peraltro alcuni eruditi e geografi dell’antichità -come ad esempio Polibio e Strabone- non diedero molto credito alle narrazioni di Pìtea, che considerano poco attendibili; ma astronomi e matematici dell’importanza di Ipparco ed Eratostene reputarono degna di fede la sua testimonianza sulle lontanissime terre da lui visitate. Infatti il navigatore marsigliese aveva per primo osservato l’alternanza durante il corso dell’anno di due lunghi periodi di sei mesi di luce e di sei mesi di tenebra che è caratteristica delle zone polari e aveva fatto numerose rilevazioni astronomiche nelle terre dell’Europa settentrionale da lui percorse. Queste osservazioni furono poi confermate dagli scienziati alessandrini, i quali giunsero alle medesime conclusioni esposte da  Pitea attraverso un calcolo teorico sulla posizione degli astri.

Il viaggio di Pìtea nel nord dell’Oceano Atlantico può essere così riassunto: partito da Marsiglia, navigò lungo le coste della Gallia e della penisola iberica; indi oltrepassò le “colonne d’Ercole”, evitando la sorveglianza dei Cartaginesi che avevano il controllo dello stretto. Poi si inoltrò nell’Oceano e, arrivato alle isole britanniche, le circumnavigò e vi raccolse notizie sulla misteriosa isola di Thule. Egli parla di essa come di una terra di fuoco e di ghiaccio, sulla quale il Sole non tramonta, a circa sei giorni di navigazione dalla Britannia.

Il vulcano Grimsvotn in Islanda.
Il vulcano Grimsvotn in Islanda.

La collocazione di Thule è stata in seguito oggetto di molte discussioni e di controverse identificazioni. Le ipotesi prevalenti e più accreditate l’hanno identificata con l’Islanda o la Groenlandia, ma si è pensato anche alle isole Orcadi, alle Shetland o alle Far Hoer. Altri hanno proposto come identificazione più probabile le coste settentrionali od occidentali della Scandinavia, e in particolare la regione di Trondheim. In effetti che Pitea descriva Thule come una “terra di fuoco e di ghiaccio”, indurrebbe a credere che si possa trattare dell’Islanda, isola prossima all’Artide, e quindi fredda e ricoperta di ghiacci, ma riscaldata da numerosi vulcani e da moltissimi geyser.

Poiché, come abbiamo detto, l’opera di Pitea è andata perduta, per avere un’idea del contenuto di essa occorre consultare i testi degli autori antichi che ne fanno menzione, Plinio il vecchio così si esprima riguardo a Thule nella sua “Naturalis Historia” (II, 186-187): “Succede dunque che, a causa dell’accrescimento variabile delle giornate, a Mèroe [in Nubia, nell’attuale Sudan], il giorno più lungo (quello del solstizio d’estate) comprende dodici ore equinoziali e 8/9 di ora; ma ad Alessandria dura 14 ore, che divengono 15 in Italia e 17 in Britannia, dove le luminose notti estive dimostrano senza incertezza quanto la scienza astronomica impone di credere: che nei giorni del solstizio estivo, quando il Sole più si accosta al polo e la luce compie un giro più stretto, nelle terre ad esso soggiacenti si hanno giorni ininterrotti di sei mesi, ed altrettanto lunghe notti, allorché il Sole si sia ritirato nella direzione opposta, verso il solstizio d’inverno. Pìtea di Marsiglia scrive che questo accade nell’isola di Thule, la quale dista dalla Britannia sei giorni di navigazione verso settentrione; ma certuni attestano il verificarsi del medesimo fenomeno anche a Mona, a circa 200 miglia dalla città britannica di Camulòdunum (1)”.

E nel libro IV (104) afferma: “A una giornata di navigazione da Thule si trova un mare solidificato, che alcuni chiamano Cronio”. Da quanto riferisce Plinio, si può facilmente arguire che Thule si trovava alquanto vicino al Polo Nord. Il mare solidificato, cioè ghiacciato, che Plinio designa come “Cronio”, richiama un’isola di Crono, situata nell’Oceano Atlantico, della quale parla Plutarco di Cheronea nella sua opera “Il volto della Luna”: “Stavo finendo di parlare quando Silla mi interruppe: -Fermati, o Lampria,e chiudi la porta della tua eloquenza. Senza avvedertene, rischi di far arenare il mito e di sconvolgere il mio dramma, che ha un altro scenario e un diverso sfondo. Io ne sono solo l’attore, ma ricorderò anzitutto che colui che ne fu autore cominciò con una citazione di Omero: “Assai lungi nel mare giace un’isola, Ogigia, a cinque giorni di navigazione dalla Britannia verso occidente. Più avanti trovansi altre isole, equidistanti tra loro e da Ogigia, in linea con il tramonto estivo. In una di esse, secondo quanto narrano gli indigeni, ha la sua dimora Crono imprigionato da Zeus, e accanto a lui è rinchiuso pure l’antico Briareo, guardiano delle isole e del mare chiamato Cronio. Il grande continente che circonda l’Oceano dista da Ogigia all’incirca 5000 stadi [circa 1000 km], un po’ meno dalle altre isole. Vi si giunge navigando a remi con una traversata resa lenta e faticosa dal limo trasportato in mare dai fiumi. Questi sgorgano ed ivi affluiscono dalla massa continentale e con le loro alluvioni riempiono a tal punto il mare di terriccio da indurre a credere che esso sia solidificato”. Stando la racconto di Silla, nel continente si apre un golfo simile alla Palude Meòtide [il mar d’Azov] le cui coste sono abitate da Greci, discendenti dai compagni di Ercole che si erano stabiliti in quelle contrade, e pertanto rivolgono la loro venerazione soprattutto al figlio di Zeus e di Alcmena, e in secondo luogo a Crono. Costoro  “allorché ogni trenta anni entra nel segno del Toro l’astro di Crono, -ovvero il pianeta Saturno-. che noi chiamiamo Fenonte ed essi, a quanto mi disse, Nitturo (2) preparano con largo anticipo un sacrificio e si apprestano a una missione sul mare che richiede una lunga permanenza in terra straniera […] Quanti scampano alle insidie del mare approdano dapprima alle isole esterne, abitate da Greci, e ivi hanno modo di poter osservare il Sole, che per un tempo di 30 giorni scompare alla vista per meno di un’ora, e con tenebra breve, mentre a occidente balugina il crepuscolo. Dopo avervi dimorato per novanta giorni, ricevendo onori e trattamenti quasi divini dagli indigeni che li considerano personaggi sacri, con il favore dei venti ritornano alla loro isola”. Dunque Plinio e Plutarco potrebbero riferirsi al medesimo continente.

Goccia di ambra nella quale sono inclusi degli insetti rimasti chiusi in essa al momento della solidificazione della resina.
Goccia di ambra nella quale sono inclusi degli insetti rimasti chiusi in essa al momento della solidificazione della resina.

Il geografo Strabone (60 a. C.- 23 d. C.) esprime nella sua opera un giudizio non molto positivo su Pìtea; egli tuttavia tempera le sue critiche affermando che l’esploratore marsigliese dimostrò di saper utilizzare in modo corretto i principi riguardanti i fenomeni celesti e le teorie matematiche che ne governano i moti (Geografia, IV, 5, 5). A giudizio di Strabone infatti l’ardimentoso navigatore sostiene che “gli abitanti più prossimi alla calotta glaciale soffrono per la carenza o insufficienza di frutti coltivati e di animali, e che si nutrono in prevalenza di miglio, di erbe, di radici e frutti selvatici. Quelli tra loro che dispongono di grano e di miele se ne servono anche per produrre bevande; il grano, poiché il Sole non splende mai senza velature, lo battono in grandi stanze, dopo aver all’uopo in esse introdotto i covoni;.farlo all’aria aperta sarebbe impossibile per la mancanza di calore e luce solare e le continue piogge”.

Tornado alla narrazione di Plutarco, che descrive un’isola nella quale è tenuto prigioniero Crono.- mentre “Cronide” è chiamato il mare del quale emergerebbe tale isola,- osserviamo che in questo racconto si può vedere un collegamento con quello, ben più celebre, del mito di Atlantide, in particolare nella versione datane da Diodoro Siculo, che abbiamo riassunto in un articolo precedente: l’isola di Crono si potrebbe infatti interpretare come il continente di Atlantide, il quale, dopo un lungo periodo di prosperità (l'”età dell’oro”, governata da Saturno), fu intrappolato dai ghiacci perenni in seguito a un immane cataclisma. La terra di Thule sarebbe dunque la parte più settentrionale di Atlantide, scampata alla catastrofe che aveva fatto sprofondare il favoloso continente, sebbene in condizioni climatiche quanto mai difficili e ben diverse da quelle che avevano caratterizzato il rigoglioso e fertile suolo di Atlantide.

L’isola misteriosa collocata nell’estremo nord non suscitò soltanto l’interesse di geografi ed eruditi, ma compare anche in opere propriamente letterarie, i cui autori si ispirarono ad essa per narrazioni di spiccato carattere avventuroso ed esotico. La più nota di esse è un romanzo la cui più probabile datazione risale alla fine del I secolo intitolato “Le incredibile avventure al di là di Thule” (“Tα ′υπερ Θουλεν απιστα”), scritto da Antonio Diogene, che rientra nel genere della narrazione improntata alle meraviglie a alle avventure, tipico del tardo ellenismo. Anche quest’opera, che comprendeva 24 libri, come tante altre della letteratura antica greca e latina è andata perduta, ma la sua trama ci è nota da un riassunto presente nella “Biblioteca” di Fozio, patriarca di Costantinopoli, vissuto nel IX secolo, che in tale compilazione, -conosciuta pure con il nome “Myriobyblos” (Mille libri) (3)-, ha lasciato una preziosa testimonianza su molti testi che sarebbero altrimenti del tutto sconosciuti.

Dopo una dedica alla sorella dell’autore, Isidora, il romanzo si apriva con una lettera inviata dal macedone Balagro alla moglie Fila; in questa lettera si narra come un ufficiale di Alessandro Magno, dopo il famoso assedio di Tiro in Fenicia, si fosse recato dal sovrano dicendogli di avere scoperto nella città appena conquistata un sotterraneo dove si trovavano sei sarcofagi. Incuriosito dalla scoperta, Alessandro Magno, presi con sé i suoi fidi amici Efestione e Parmenione, si recò insieme all’ufficiale nel sepolcro. Sui sarcofagi erano incisi degli epitaffi che riportavano nome ed età di coloro che in essi riposavano (e che erano quelli che si riveleranno i protagonisti della storia).  Oltre ai sarcofagi, videro nel sotterraneo, deposto accanto a un muro, un cofanetto di legno di cipresso che recava sul coperchio la scritta. “O straniero, chiunque tu sia, apri ed imparerai qualcosa che ti stupirà”. I compagni di Alessandro Magno aprirono il piccolo scrigno e videro che esso conteneva delle tavolette fatte del medesimo legno sulle quali un certo Dinia aveva fatto incidere il racconto delle avventure che aveva vissuto.

Dinia insieme a suo figlio Demòcare inizia da Tiro un lungo viaggio che conduce i due ad attraversare il Ponto Eusino [il Mar Nero], a proseguire lungo le coste del mar Caspio e a giungere infine ai Monti Rifei e alle sorgenti del fiume Tànai (4). Non riuscendo a sopportare il freddo gelido che regna in quei luoghi, ridiscesero verso sud e arrivano nella terra dove sorge il Sole. Da lì iniziano una lunga peregrinazione nei pressi dell’Oceano, durante la quale incontrano altri tre esploratori, Carmane, Minisco e Azuli, insieme ai quali continuano il loro camino, che li conduce fino all’isola di Thule. Colà Dinia incontra una fanciulla, Derchìllide, a sua volta fuggita da Tiro con il fratello Mantinia, della quale si innamora. I due fratelli avevano dovuto allontanarsi dalla loro patria perché perseguitati da uno scellerato mago egiziano, Paapis, il quale li aveva ingannati facendo loro credere di poter ringiovanire i loro genitori con una sorta di letargo (5). Da allora avevano vissuto una lunga serie di peripezie: erano stati condotti a Rodi; da lì si erano imbarcati per Creta; in seguito avevano visitato la terra dei Tirreni e poi quella dei Cimmeri, e alla fine erano discesi anche agli Inferi. Da quel momento i due fratelli si separano e Derchillide vive altre avventure con Cerillo ed Astreo, fratello adottivo di Pitagora, che aveva incontrato nell’Ade: si reca in Spagna, ove giunge in una città i cui abitanti avevano la curiosa qualità di essere ciechi di giorno e poter vedere di notte, e poi tra i Celti, gli Aquitani e la strana popolazione degli Artabri, presso i quali le donne combattevano e gli uomini si dedicavano ai lavori domestici. Arriva infine in Sicilia dove ritrova il fratello Mantinia, con il quale riprende le sue peregrinazioni che li conducono questa volta nelle terre dei Traci e dei Massageti, dove Astreo fa loro conoscere il mitico Zalmoxis (6). Poi, seguendo i consigli di un oracolo si erano rifugiati a Thule. Ma il perfido Paapis, che li aveva inseguiti in vari luoghi ove essi pensavano di poter sfuggire alle sue insidie, giunge anch’egli nell’isola, dove riesce a catturali. Una volta imprigionatili, il mago opera un incantesimo in seguito al quale i due durante il giorno giacciono morti, e resuscitano non appena scende la notte. Paapis però viene ucciso con un colpo di spada da Truscano, un abitante di Thule, invaghitosi di Derchillide; convinto però che la sua amata fosse definitivamente defunta, Truscano si uccide a sua volta.

Finalmente nel XXIV libro del romanzo, -l’ultimo-, l’incantesimo che opprimeva Mantinia e Derchillide viene sciolto dal loro amico Azuli, il quale si serve della scienza magica dello stesso Paapis. Infatti in precedenza i due fratelli erano riusciti a sottrarre al mago la borsa in cui erano contenuti i suoi libri fatati e le erbe magiche, ma non sapevano come usarli. Martinia e Derchillide si affrettano allora a tornare nella loro città sperando di salvare i loro genitori vittime del maleficio di Paapis, mentre Dinia in compagnia di Carmane e Minisco (Azuli si allontana per conto suo, del figlio Demòcare invece non si parla più) proseguono le loro esplorazioni dirigendosi verso nord nelle terre che si trovano oltre Thule: ed in effetti l’ultimo libro è l’unico che giustifica il titolo del romanzo, poichè è solo in esso che lo sviluppo narrativo della storia porta il protagonista principale nelle terre a cui allude il titolo dell’opera. Nei luoghi ove i tre si inoltrano le notti -e gli equivalenti giorni-, diventano sempre più lunghe, della durata di sei mesi o addirittura una anno (notizia che mostra un’evidente carenza di cognizioni astronomiche dell’autore del romanzo, poiché ovviamente i periodi di oscurità e di luce delle zone polari non possono superare i sei mesi). Procedendo nel loro cammino giungono a trovarsi vicinissimi alla Luna, tanto che possono accedere sul pallido astro. Qui si imbattono in una misteriosa Sibilla che annuncia loro che potranno vedere avverati i loro sogni. Grazie all’esaudimento del suo desiderio, Dinia si addormenta e si desta poi nel tempio di Eracle a Tiro (7), dove si ricongiunge a Derchillide e Mantinia.

Dall’epitome di Fozio, la trama del romanzo appare alquanto complicata e farraginosa, tanto che risulta difficile comprenderne con precisione lo sviluppo; la stessa macchinosità delle vicende narrate dai diversi protagonisti, che si intersecano tra di loro in modo inestricabile, se da un lato attestano l’abilità con cui l’autore deve essere riuscito a svolgere la complessa narrazione, dall’altro la rendevano inadatta ad essere riassunta in un breve compendio.

Osserviamo che la particolarità della Luna che appare vicinissima alla Terra, tanto da poterla raggiungere, citata da Antonio Diogene, era di solito attribuita ad una altra isola, o territorio, abitato dalla leggendaria popolazione degli Iperborei, della quale fanno menzione svariati autori antichi e ripresa in tempi moderni, sia dalla letteratura, sia dalle tradizioni occultistiche. Questa popolazione viene talora messa in relazione con il mistero di Thule, sebbene non sia mai fatta un’esplicita identificazione tra di essa e la Terra degli Iperborei; anzi in genere gli storici e i geografi che trattarono l’argomento, -tra i quali ricordiamo Erodoto, Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio-, ritennero la sede di questi ultimi trovarsi anch’essa nell’estremo nord, ma più ad oriente, all’incirca nella Russia settentrionale.

Il geografo e storico Ecateo di Mileto (550-476 a. C.) colloca il paese degli Iperborei tra l’Oceano, -ovvero il grandioso fiume impersonato dall’omonimo Titano che scorre intorno all’unico blocco delle terre emerse, nelle concezione corografica degli antichi-. ed i monti Rifei, di incerta identificazione, ma che si ritiene poter ravvisare nella catena degli Urali. Secondo Ecateo di Abdera (IV-III sec. a. C.). altro storico greco, autore di un’opera “Sugli Iperborei”, della quale sono pervenuti solo alcuni frammenti, questa popolazione avrebbe abitato un’isola dell’Oceano di estensione non minore di quella della Sicilia, in quest’isola, dalla quale è possibile contemplare la Luna da brevissima distanza, i figli di Bòrea rendono il loro culto ad Apollo, che ivi si ritira nella stagione fredda, accompagnato da uno stormo di candidi cigni provenienti dai monti Rifei,

Esiodo sostiene che gli Iperborei dimorassero “presso le alte cascate dell’Eridano dal profondo alveo”.

Il dio Apollo con un grifone.
Il dio Apollo con un grifone.

L’Eridano era per gli Elleni un fiume semi-mitico, che poi la tradizione prevalente, specie tra i poeti latini, volle identificare con il Po, ma che secondo le testimonianze più antiche aveva sede molto più a nord: Ferècide di Atene ed Erodoto (Storie, II, 115) ritengono che sfociasse nell’Oceano settentrionale, e il fatto che nel mito di Fetonte, figlio del Sole, che sarebbe caduto e annegato proprio nell’Eridano, la preziosa ambra derivi dalle foreste percorse dal grande fiume (8) inducono a credere che fosse immaginato scorrere nelle terre baltiche. Anche il fatto che Esiodo parli di “cascate” sembra escludere l’identificazione con il Po, poiché, come è noto, nel maggior fiume italiano non si trovano cascate di alcun tipo.

Per Pindaro invece il Paese degli Iperborei si trovava nella regione delle ombrose sorgenti del fiume Istro, -cioè del Danubio-; in un passo del “Prometeo incatenato” Eschilo ricorda però le fonti dell’Istro come situate nei monti Rifei, nel paese degli Iperborei. Ellànico di Lesbo e Damaste di Sigeo pongono il favoloso paese oltre gli stessi monti Rifei, i quali a loro volta sarebbero stati a nord della terra abitata dai grifoni guardiani dell’oro e di cui si parlava diffusamente in un poema di Aristea di Proconneso citato da Erodoto. Quest’ultimo infatti afferma (Storie, IV, 13) che “Aristea di Proconneso,figlio di Castrobio, componendo un poema epico, disse di essere giunto, invasato da Febo, presso gli Issèdoni [popolazione abitante nei pressi degli Urali meridionali] e che al di là di costoro dimorano gli Arimaspi, uomini che hanno un solo occhio, al di là di questi i grifoni custodi dell’oro, e oltre di essi gli Iperborei, che si estendono fino al mare”. Lo storico aggiunge ancora (IV, 33-35): “Ma più di tutti ne parlano [degli Iperborei] i Delii,sostenendo che le offerte [per il santuario di Apollo a Delo, luogo della sua nascita],avvolte in paglia di grano, provenendo dagli Iperborei giungono in Scizia, e da qui i popoli vicini, ricevendole uno dopo l’altro, le portano assai lontano verso occidente fino alle coste dell’Adriatico”; da lì proseguivano poi verso sud nelle terre dei Greci, giungendo di città in città e di isola in isola fino al santuario di Delo.

Statua di Apollo Ipernoreo nel Museo di Delo.
Statua di Apollo Ipernoreo nel Museo di Delo.

La prima volta gli Iperborei avrebbero mandato a consegnare le offerte due fanciulle, Ipèroche e Laòdice, insieme a cinque cittadini che le scortavano. Ma poiché gli inviati non erano tornati  avrebbero escogitato il modo di cui si è detto, passando di tribù in tribù e di città e in città, per far pervenire a Delo le offerte.

E’ probabile che il legame esistente fin dai empi più antichi fra i Delii e gli Iperborei derivasse dal fatto di condividere il culto di Apollo. Tale culto potrebbe risalire addirittura al periodo atlantideo, quando la Grecia, . -o meglio quella che sarebbe poi divenuta la Grecia-, come si evince dal “Crizia” di Platone, era un’importante potenza politico-militare che intratteneva stretti rapporti con Atlantide, e quindi gli Iperborei potrebbero essere i discendenti di una parte degli abitanti del continente scomparso.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) nonostante la somiglianza del nome la Camulòdonum britanno-romana non è da identificare con Camelot, la leggendaria sede della corte di re Artù, che si trovava molto più a occidente e si è continuata, secondo un’ipotesi non confermata, nell’odierna Colchester.

2) Fenonte (Phainon) significa “appariscente, splendente”; Nitturo (Nyktouros) “guardiano notturno”.

3) in realtà però la compilazione di Fozio contiene i riassunti di 279 opere di vario genere ed epoca.

4) ovvero l’attuale fiume Don.

5) i maghi egiziani erano assai potenti e temuti. Ad esempio, nel “papiro Westcar”, risalente al XVII secolo a. C., -e che abbiamo altre volte citato- si parla del mago Vebaoner, che si sbarazza dell’amante della moglie modellando un coccodrillino di cera il quale una volta immerso in un lago diventa un enorme coccodrillo vero che divora il malcapitato.

6) questo misterioso personaggio doveva essere in origine una divinità o un eroe mitico dei Geti (che vivevano tra la Romania meridionale e la Bulgaria settentrionale odierne) e di altre popolazioni balcaniche. Nella tradizione greca divenne poi una leggendaria figura di filosofo e guaritore, che sarebbe stato prima schiavo e poi discepolo di Pitagora e che tornato in patria diffuse i quei luoghi le dottrine pitagoriche. Di lui parla diffusamente Erodoto nel IV libro delle sua “Storie” ( capp. 94, 95 e 96), -il quale peraltro mette in dubbio la storicità del personaggio e comunque che fosse coevo di Pitagora-. Secondo Diogene Laerzio, -scrittore greco vissuto tra il II e il III secolo, autore di una celebre raccolta delle vite e dottrine di 84 filosofi,- il nome Zalmoxis (che si trova però anche in altre forme, come Salmoxis, Zamolxis, ecc.) significa “Pelle d’orso”, e farebbe quindi riferimento al paese di origine; Porfirio di Tiro, nella sua “Vita di Pitagora”, sostiene invece che tale nome vuol dire “nascosto”, -perché, come riferisce pure Erodoto, avrebbe vissuto per tre anni in una dimora sotterranea per compiervi una sorta di rigenerazione spirituale-.

7) in effetti si tratta del dio fenicio Melkart (“Re della città”), divinità protettrice della città di Tiro, identificata dai Greci con Eracle.

8) le sorelle di Fetonte, le Elìadi (i cui nomi erano Egle, Faetusa e Lampezia, nomi assai simili a quelli delle Esperidi, e che fanno tutti riferimento all’idea dello splendore e della luminosità) dopo quattro mesi che si struggevano in lacrime per la morte del fratello furono trasformate in pioppi, dalle cui cortecce cominciò a stillare l’ambra dal colore del miele, della quale, come dice Ovidio, il placido fiume riceve e manda alle spose latine perché se ne adornino (Metamorfosi, II, 340-366).

Bulla in ambra a forma di protome femminile, del VI sec. a.C. proveniente da Spina (Ferrara, Museo Archeologico).
Bulla in ambra a forma di protome femminile, del VI sec. a.C. proveniente da Spina (Ferrara, Museo Archeologico).

In realtà i poeti latini sapevano benissimo che l’ambra non proveniva certo dalle rive del Po, bensì dalle foreste baltiche, ma così dicendo intendevano nobilitare il fiume più lungo d’Italia. Inoltre l’ambra giungeva a Roma e nell’Italia centro-meridionale attraverso i centri veneti, etruschi e greci della pianura padana orientale -specie Adria e Spina- e più tardi Aquileia e Ravenna, che si trovavano sulla cosiddetta “via dell’Ambra”. Per questo i Greci che si rifornivano di ambra nelle città presso il delta del Po, ignorando i veri luoghi di provenienza della preziosa gemma, avevano creduto in un primo tempo che essa si trovasse in quelle zone.

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