L’ETA’ DELL’INCOSCIENZA, ovvero LA GRANDE STOLTEZZA – populismi e pseudoseparatismi nell’Italia tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo

Fin ad ora non avevo mai trattato in modo specifico nel mio sito argomenti di carattere politico, perché ho sempre voluto mantenermi al di sopra e al di fuori del pantano delle discordie e delle sterili polemiche, spesso ammantate da argomentazioni pseudostoriche di infimo ordine, che affliggono da molti anni la nostra martoriata patria, e che sono scadute a mio avviso a livelli davvero squallidi, nelle sostanza e ancor più nella forma.

Peraltro, considerando la grave situazione che stiamo vivendo, ed anche perché mi sono state rivolte esplicite richieste in questo senso da affezionati lettori, ho deciso in via eccezionale, di esporre la mie osservazioni e valutazioni sugli sviluppi e sulle vicende alquanto travagliate della “res publica” italica negli utlimi tre decenni . Tratterò tuttavia tale argomento in modo il più possibile distaccato e lontano dalle miserevoli e meschine contese che quotidianamente i mass media ci ammanniscono, spesso con colpevole enfatizzazione di fatti ed episodi in sé poco importanti. Per questa ragione eviterò anche di abbassarmi a citare espressamente i nomi di gruppi politici, fatti determinati e soprattutto di personaggi che a mio avviso non sono altro che astuti ciarlatani, falsi profeti e maldestri (ma non per questo meno pericolosi!) arruffapopolo, e che trovo assolutamente riprovevoli e deleteri sia per il contenuto mistificatorio e ingannevole del loro “messaggio”, sia per il loro stile comunicativo impregnato di volgarità e di arroganza

La crisi non è tanto una crisi economico-sociale come si continua a ripetere con monotona insistenza, ma una crisi di valori e di ideali, o meglio della mancanza di essi, dovuta a un vuoto profondo, che si cerca di colmare in vario modo e con diversi discutibili surrogati. Si potrebbe anzi aggiungere che i termini del problema dovrebbero essere invertiti: non è tanto la crisi economica ad aver prodotto la crisi politica, ma il contrario la fine delle cosiddette “ideologie” del 900, la perdita di qualunque prospettiva di ampio respiro da parte del “popolo” per rinchiudersi solo nella ricerca del “particulare”, del proprio interesse immediato, o presunto tale, ha prodotto l’inevitabile logoramento di un sistema economico che aveva fondamenti assi fragili. E la crisi si esprime in formazioni politiche assai diverse da quelle che furono protagoniste della scena italiana per i primi decenni del dopo guerra. Si potrebbe dire in tali formazioni e movimenti appare in modo quanto mai chiaro e indubbio il nesso tra le problematiche economico-sociali e quelle esistenziali e personali tra pubblico e privato, tra individuale e collettivo.

In questi movimenti si ipotizza e si sostiene la dicotomia manichea tra una classe dirigente considerata in modo indiscriminato corrotta e incapace, e il “popolo”, considerato il depositario dell’onestà e del bene pubblico, e di ogni valore positivo. In questa trattazione abbiamo accomunato le formazioni di ispirazione separatistica ed anti-unitaria, poiché in effetti questo tipo di formazioni politiche non ha alcun reale fondamento etnico -storico e le pretese di carattere separatistico o fortemente autonomistico sono per esse soltanto uno strumento, per quanto di forte valore emotivo e “identitario”, di polemica e propaganda prettamente populistica contro istituzioni politico-amministrative e un sistema economico-sociale ritenuto insoddisfacente o superato.

Nella nostra analisi cercheremo innanzi tutto di precisare sotto l’aspetto linguistico e storico il significato e l’evoluzione che rivestono i termini e gli ambiti semantici che con maggior frequenza ricorono a qualificare, descrivere e definire il fenomeno che stiamo prendendo in esame. Passeremo poi ad esaminare i fattori, gli elementi e i mutamenti che hanno condotto al suo manifestarsi; nonchè gli aspetti in cui esso si evidenzia e che più spesso sono oggetto della polemica e della violenta dissacrazione dei movimenti e gruppi etichettabili come populistici, alla luce di quanto detto nella sezione precedente..

I termini che più spesso nella pubblicistica vengono impiegati in riferimento alla situazione attuale e ai suoi protagonisti sono tre. “populismo”, “demagogia”, “antipolitica”. Cominciamo con il proporre un analisi e un esame storico ed etimologico dei tre termini per cercare di comprendere quale sia il loro vero significato e in quale misura possano essere applicati alle istanze e alle rivendicazioni propri di questi gruppi politici dei quali staimo trattando e che sostanziano il convulso e spesso “schizofrenico” contesto socio-culturale dal quale siamo circondati, anzi assediati e assillati.

La definizione che viene data di “populismo” nell’Enciclopedia Italiana Treccani è la seguente: “termine usato per designare tendenze e movimenti politici sviluppatisi in differenti aree e contesti nel corso del XIX e XX secolo”. Tali movimenti presentano alcuni tratti comuni almeno in parte riconducibili “a una rappresentazione idealizzata del “popolo”, per lo più inteso genericamente, con scarsa attenzione alle sue concrete determinazioni sociali, e alla sua esaltazione quale portatore di istanze e valori positivi, di norma tradizionali, in contrasto con i difetti e la corruzione delle “elites”.

Tra gli elementi comuni hanno spesso assunto un particolare rilievo politico la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa”, e l’esaltazione, spesso del tutto acritica e unanimistica di capi “carismatici”, contrapposti in modo polemico agli esponenti delle classi dirigenti tradizionali.

Il primo movimento politico-culturale autodefinitosi populistico (“Narodnicestvo” da “narod” = popolo) nacque e si sviluppò in Russia nella seconda metà del XIX secolo. Questo movimento, chiamato “Zemljia i Voljia” (Terra e Libertà”) si proponeva di attuare una rivoluzione che portasse all’insaturazione di una società utopistica in cui una struttura economica socialistica si sovrapponeva ai tradizionali valori storici e culturali del popolo russo. Il movimento non riuscì però ad avere un grande seguito e dopo alterne vicende,- tra cui il ricorso ad azioni terroristiche da parte di alcuni suoi membri-. esso si spense, mentre i suoi ultimi aderenti confluirono o nell’anarchismo utopistico o nel socialismo rivoluzionario.

Tra 800 e 900 il populismo, o meglio movimenti ai quali fu attribuita questa etichetta, sebbene non avessero molto in comune con il populismo russo, si propagarono ed ebbero seguito soprattutto negli USA e in America Latina.

Il People’s Party, fondato a Cincinnati nel 1891 dava voce soprattutto ai piccoli proprietari terrieri, ai modesti imprenditori, – a quelli che noi diremmo gli “autonomi”-, i quali temevano e consideravano loro nemico il grande capitale industriale e finanziario, che aveva il suo centro pulsante nel Nord Est degli Usa, specie a NY (il “big business” e il “money power”). Ma essi avversavano fortemente ed erano fieramente ostili anche agli stranieri, agli immigrati, ai negri e agli ebrei, e paventavano con sgomento la società multirazziale che negli USA già alla fine dell’800 si stava profilando. Non solo, ma pure gli intellettuali, i liberi pensatori, le persone istruite in genere erano per essi oggetto di diffidenza e di sospetto e vittime di pregiudizi e discriminazioni, in quanto consideravano tali categorie di cittadini lontani dalle solide virtù morali e religiose, dal sano buon senso e dalla laboriosità e praticità propri dell’uomo comune, e dei “veri” americani.

La ricchezza, si sosteneva da parte di costoro, doveva appartenere a chi la produceva, ma per ostacolare questo elementare principio di giustizia erano sorti ovunque intrighi e complotti (tra cui il famoso presunto complotto ebraico-massonico); essi accreditavano pure la tesi che vorrebbe poveri = fannulloni, nonché quella dello stato centrale che con una pesante e ingiustificata imposizione fiscale impoverisce le categorie produttive per  mantenere i “parassiti”.(burocrazia, ecc.). Il populismo nord-americano si opponeva dunque da un lato al socialismo, dall’altro al grande capitalismo e al potere finanziario che già allora negli USA stava assumendo una funzione sempre più importante nell’economia della nazione. Dopo aver ottenuto qualche successo nell’ultimo decennio dell’800, le fortune del People’s Party cominciarono a declinare ed esso si sciolse definitivamente nel 1908; tuttavia le istanze e soprattutto la mentalità e le aspirazioni che esso incarnava e rappresentava sono rimaste un fattore assai radicato e condizionante in alcune aree degli USA, specie nel Sud e nel Middle West (2).

Questo tipo di populismo nordamericano è dunque assai lontano e si carica di significati assai diversi da quelli del populismo russo che era intriso di umanitarismo sentimentale e di velleitarismo ugualitario e che ebbe anche sul piano letterario un’importante influenza dato che sostanziò e influenzò l’opera di Tolstoj e di Dostoievsky.

Di carattere ben diverso il populismo affermatosi nell’America latina, dove ebbe il suo massimo sviluppo tra gli anni 30 e gli anni 50 del XX secolo. Esso si manifestò e rivestì notevole importanza soprattutto in Brasile ed in Argentina, paesi dove riuscì a conquistare il potere e ad instaurare dei regimi politici, peraltro effimeri, ad opera rispettivamente di Getulio Vargas e di Juan Domingo Peròn.

I partiti e i regimi populistici in questo caso ebbero successo soprattutto nei paesi, -come appunto il Brasile e l’Argentina-, dove si era sviluppato un alto grado di urbanesimo, con migrazioni dalle aree rurali alle città, e dove esisteva pure una popolazione di origine europea recente, emigrata in quei paesi quando sembravano aprirsi in essi prospettive di grande espansione economica, e possibilità di insediarsi in vasti territori ancora liberi da densi stanziamenti umani. In questa situazione si era avuta una rapida transizione da un’economia prevalentemente agricola ad una di tipo industriale, sebbene soprattutto di trasformazione, che aveva prodotto mutamenti profondi ma squilibrati. Nel mezzo di questi mutamenti, che sembravano non poter essere governati dalle tradizionali classi dirigenti, emersero dunque alcune figure di capi carismatici che con le loro qualità e capacità personali sembravano poter imprimere una svolta alle trasformazioni socio-economiche e dar voce alle esigenze autentiche del popolo, instaurando con esso un rapporto diretto, non mediato dalle istituzioni.

Una versione recente e aggiornata del populismo sud-americano sono i principi, la prassi e il regime instaurati in Venezuela da Hugo Chavez, nei quali peraltro confluiscono elementi ancora più eterogenei e che d’altra parte si può inquadrare nel cosiddetto “nazionalismo socialista” proprio di molti paesi di Asia, Africa e America Latina. In questo fenomeno politico il socialismo marxista si è rivelato più che altro funzionale prima alla lotta anti-colonialistica e in seguito al rinnovamento di strutture sociali arcaiche, per cui spesso in tali paesi si sono creati partiti e regimi dall’impronta ideologica assai spuria, difficilmente assimilabili ai socialismi e comunismi di area europea.

Notiamo che questo genere di populismo latino-americano presenta alcuni punti di contatto con i regimi affermatisi negli anni 50 e 60 in alcuni paesi arabi -leasdership di un capo carismatico che con la sua azione opera un rinnovamento della società, nazionalismo, prevalenza dell’elemento militare, economia ispirata in parte a principi socialisti, ma solo in senso solidaristico e non marxistico-, nei quali a loro volta è possibile ravvisare alcuni elementi e caratteri propri del populismo, in specie di quello russo -salvaguardia e recupero della tradizione nazionale, anche in senso anti-colonialistico, in cui vengono innestate istanze di progresso sociale e di sviluppo economico-. Tuttavia nel complesso i regimi ispirati all’idea panaraba nonostante queste indubbie affinità con le teorie populiste, non hanno con queste esperienze legami storici o ideologici.

In Europa occidentale il sostantivo appare per la prima volta, nella forma francese “populisme”, per tradurre il termine russo “narodnicestvo” – e “populistes” per “narodniki”- in “La Russie moderne” opera del 1912 di Gregoire Alexinsky. In seguito tale espressione venne impiegata per significare concezioni politiche ed etico-sociali assai diverse ma che presentavano tra di esse delle indubbie affinità. Ed è proprio sul base di queste affinità e caratteri comuni che negli ultimi decenni il lessico politico corrente ha elaborato un concetto di “populismo” che sebbene per certi aspetti superficiale, si può considerare nell’insieme abbastanza ben definito e preciso, proprio perché fondato su contenuti più che su caratterizzazioni idologiche (certo più che la contrapposizione tra “destra” e “sinistra”, che, di fronte ai cambiamenti sociali e culturali degli ultimi anni, si è rivelata sempre più inadeguata ad esprimere la dialettica politica e sociale). Ed è proprio questo che noi prenderemo in considerazione, caratterizzato dal fatto di coprire una incerta e mutevole area semantica, ma anche da un ampia possibilità di utilizzo pratico.

In Italia sembra che il sostantivo “populismo” sia stato usato per la prima volta negli anni 20, quando fu impiegato in un articolo di Piero Gobetti sempre in riferimento al movimento russo. Il regime fascista italiano, pur ponendo al centro delle proprie teorie la nozione di “popolo”, inteso in senso sia etnico-culturale, sia politico e spirituale, non si definì mai “populista”, né nelle formulazioni ufficiali della sua “dottrina”, né nelle affermazioni o scritti dei suoi rappresentanti. Furono poi la storiografia e la pubblicistica della seconda metà del 900 a considerare “populistici” alcuni aspetti del fascismo, nonché della “destra rivoluzionaria” del 900, -diversa da quella “reazionaria” e poi “conservatrice” dell’800-.La nozione di “fascismo”, inteso in senso lato come “movimento nazional-rivoluzionario”, peraltro assai variegato e polimorfo, e quella di “populismo”, a sua volta multiforme e derivato da radici storiche diverse e disparate, non si identificano di certo: ma, pur tuttavia tenendo sempre conto della loro autonomia semantica, si possono considerare fenomeni contigui e talora reciprocamente influenzantisi.

Tuttavia, anticipando in parte le conclusioni alle quali giungeremo alla fine del nostro discorso, possiamo affermare che, nonostante le indubbie, -ma forse più apparenti che reali-, affinità con esso (guida di un “leader carismatico”, importanza della propaganda, abile e ampio uso dei mezzi di comunicazione di massa, eterogeneità ideologica), i populismi italiani attuali, -o meglio l’unico populismo nelle sue varie versioni-, non si possono considerare una variante moderna del fascismo, se non nel senso che esprimono un malcontento popolare radicato, profondo e soprattutto “sistemico” e non “congiunturale”. Questo perché a queste correnti politiche manca del tutto una visione unificante, -quale il fascismo, seppure distorta e perniciosa, ebbe,- e non sono altro che un coacervo di risentimenti e di rivendicazioni incoerente; anche una certa idea fasulla di “nazione” localistica sostenuta e sbandierata dai movimenti “separatisti” o comunque anti-italiani (siano essi vere organizzazioni politiche o semplici gruppi d’opinione), è soltanto un idolo polemico da sfruttare ai propri fini e non certo un valore, o tanto meno un ideale, unificante.

Pur essendo dunque un fenomeno complesso ed eterogeneo sia nei suoi fondamenti ideali e culturali sia nelle sue espressioni concrete, si può affermare che alla base della nozione e del concetto di “populismo” vi è la credenza, si potrebbe quasi dire la “fede”, nei valori postivi di quella indifferenziata entità che è il “popolo” (che nell’accezione “populistica” corrisponde non tanto al “demos” greco, la comunità dei cittadini partecipi della via della “polis” che si riconoscono in una istituzione organizzata, quanto al “laos”, la gente comune, i singoli non organizzati politicamente, estranei alle “elites” politiche e intellettuali); e in un legame, esistente o vagheggiato, tra esso e la sua “guida”, più o meno carismatica, che ne incarna le aspirazioni e i valori. Per questo motivo il legame forte ed essenzialmente emotivo, per non dire passionale, che viene ad instaurarsi fra il popolo e il suo leader non viene mediato da strutture organizzative complesse (o in altre parole da un partito organicamente strutturato) e articolate nel loro interno sia dal punto di vista gestionale sia per presenza di una dialettica interna; e per tale motivo i populisti rifiutano la democrazia di tipo rappresentativo caratterizzata da enti e strutture intermedie.

Poiché il popolo viene considerato il detentore dei valori di una comunità nazionale, o addirittura viene a sostituire esso stesso, quale massa indifferenziata, ma avente interessi ed obiettivi comuni, un’appartenenza nazionale considerata debole o inesistente, il populismo rifiuta non solo le interpretazioni classiste della politica, in primis il comunismo marxista, ma pure quelle interclassiste, quali la socialdemocrazia o il cattolicesimo democratico, che pur sostenendo l’opportunità e la necessità di conciliare gli interessi delle varie classi per il bene della nazione e dello stato, non negano però l’esistenza di classi sociali diversificate.

La contrapposizione emblematica della visione populistica è pertanto quella tra “popolo” e “non-popolo” entità quest’ultima, ovviamente artificiosa e convenzionale, che può essere costituita sia da elementi interni ad uno stato (gruppi economici “sfruttatori”, partiti politici tradizionali, burocrazie, elites intellettuali, ecc.) sia esterni (grandi conglomerazioni industriali e finanziarie, entità politiche sovranazionali, supposti complotti “giudaico-massonici”, ecc.); ma tra questi elementi estranei e “nemici”, virtualmente o in atto, possono essere annoverati anche vari gruppi etnici e razziali, stabilmente immigrati o comunque di provenienza esterna; o addirittura verso tutti coloro che vengono giudicati  diversi perchè non condividono le idee, le abitudini, i comportamenti, la mentalità, il sentire comune del “popolo” (liberi pensatori, non conformisti, omosessuali, ecc.); quindi nei movimenti populisti si ritrovano spesso elementi più o meno dichiaratamente razzisti, xenofobi e allofobi.

“Demagogia”, e “demagogo”, sono sostantivi nati e usati nell’antica Grecia, nell’ambito del governo della “polis”, in particolare di Atene. In tale ambito, coerentemente con il suo significato etimologico (da “demos” =popolo, e “ago, aghein” =guidare, condurre) , la “demagogia” indica la capacità di convincere e di trascinare il popolo, qualità peculiare e indispensabile dell’uomo politico, massime in un regime dove la detenzione del potere sia legittimata dal favore del medesimo Si ha quindi, se non una coincidenza, una strettissima relazione tra la nozione di democrazia e quella di demagogia: se la fonte del potere politico è nel popolo, chi intenda giungere ad esso ed esercitare il governo, deve di necessità conquistare il consenso dei cittadini  Ma poiché questi ultimi nella loro grande maggioranza non sono né filosofi, né persone colte, o comunque dotate di profonda consapevolezza di sé stesse e delle loro effettive esigenze, le argomentazioni con le quali i politici, -i quali, come abbiamo detto, debbono essere “demagoghi”-, cercheranno di persuaderli a sostenere le loro proposte saranno più emotive che razionali, faranno appello più agli impulsi e agli interessi elementari e immediati dei cittadini, che su ragionamenti pacati e approfonditi, non disdegnando talora di fare ricorso pure a grossolani inganni. In tal modo si arriva così alla valenza semantica deteriore del termine “demagogia” ora prevalente, anzi esclusivo.

Tra l’altro non si dimentichi che la democrazia delle “poleis” greche era una democrazia diretta e totalitaria, nella quale, a differenza di quanto avviene nelle democrazie liberali moderne, la maggioranza dei cittadini, poteva sempre e comunque imporsi alla minoranza e non riconosceva, se non in via eccezionale, la sfera della libertà personale e inviolabile sottratta al potere dello stato. Pertanto colui o coloro che, in modo più o meno meritato, riuscivano ad essere guida autorevole e indiscussa del popolo, godevano di un pressochè illimitato potere personale e se ne potevano servire per commettere arbitri a danno dei loro avversari; tanto più che non esisteva distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Anzi, talvolta potevano essere molto più “liberali” le tirannidi, come quella di Pisistrato ad Atene, che non le democrazie, poiché al fuori dell’ambito propriamente politico, lasciavano maggior spazio alle scelte del singolo (non a caso Socrate fu condannato a morte nella democratica Atene per un “delitto d’opinione”).

La prima attestazione di “demagogia”  si trova in una commedia di Aristofane, “I Cavalieri” (191), del 424 a. C. dove peraltro in sostanza essa viene a coincidere con l’attività politica. Ma poiché secondo il celebre commediografo ateniese, quest’ultima si è gravemente involuta e corrotta e da dominio di persone “bene educate e per bene” è caduta in mano a politicanti ignoranti e volgari, ma astuti, i quali la esercitano con mezzi meschini e disonesti. -“demagogici” nell’accezione moderna-, che egli prende di mira nelle sue commedie ferocemente satiriche, anche la demagogia non è altro che lo strumento di coloro che ingannano il popolo: non a caso quest’ultimo nella commedia è personificato in un vecchio babbione -chiamato appunto “Demos” = Popolo, menato per il naso da Paflagone (il quale a sua volta adombra Cleone, un uomo politico odiato da Aristofane).

Vediamo comunque che nelle prime attestazioni, tra cui anche Tucidide (VIII, 65), il termine e quelli connessi, ha un significato neutro, per indicare la guida della “polis”, o comunque un uomo politico assai influente; solo in un  secondo tempo si riempie di tratti negativi per il modo con il quale i “nuovi” gestori della cosa pubblica cercavano di conquistare e di detenere il governo della “polis”; non a caso l’uso negativo e spregiativo del termine nasce proprio dalla connotazione che ad esso diedero letterati conservatori come Aristofane o Tucidide che erano animati da ideali aristocratici e avversavano quindi la “democrazia” ateniese, che dava spazio e occasione agli intrallazzatori di avere successo. A conferma di questo anche la testimonianza di Aristotele il quale nella “Costituzione di Atene” afferma che in principio erano le persone oneste ad essere demagoghi. Ed è proprio Aristotele che distingue accanto a un impiego neutro del sostantivo, una nozione deteriore di demagogo e di demagogia. Nell’opera di Polibio a questi termini rimane solo l’accezione negativa e dunque, a partire dal II secolo a. C., essi hanno in pratica il medesimo significato che mantengono tuttora.

Si noti peraltro che in Roma antica, dove pure i “demagoghi” non mancavano, e dove a partire dal II sec. a. C. fu introdotto -tradotto o adattato- il lessico filosofico, retorico e giuridico ellenico, questi sostantivi non siano stati ricalcati né nella forma originale greca, né in una traduzione o adattamento in latino (3). Per questo dopo il tramonto delle “poleis” e la decadenza della Grecia classica si  hanno di essi scarse attestazioni, anzi nella stessa Grecia moderna non vengono recuperati in versione attualizzata: la “Megàli Ellenikì Encyclopaidìa”, la grande enciclopedia nazionale neogreca riporta soltanto l’uso e gli esempi antichi.

Il termine “demagogo”, -a parte ovviamente le traduzioni delle opere greche divenute sempre più frequenti dalla fine del ME in poi-,  riapparirà con una certa frequenza solo nl XVII secolo: J. B, Bossuet (1627-1704) lo usa, in una sua opera polemica contro i protestanti (4), per definire i detestati predicatori luterani. Ma già Thomas Hobbes l’aveva ripreso quale sinonimo di oratore efficace, sia pure con una connotazione negativa, dovuta al fatto che il filosofo inglese manifesta un decisa avversione per il regime popolare, in cui prevale colui che con le sue doti dialettiche e le capacità oratorie riesce a persuadere o per meglio dire a sedurre gli sprovveduti cittadini: a differenza di Aristotele dunque, per lui non v’è alcuna sostanziale differenza tra una “buona” e una “cattiva” democrazia (ovvero la demagogia in senso moderno).

Ricordiamo che il grande filosofo di Stàgira, nella sua opera “Politica”, -nella quale tra l’altro venne istituzionalizzato l’uso di tale sostantivo per significare l'”arte”, ovvero la “scienza” del governare (e la questione se la “politica” sia un'”arte” o una “scienza”, oppure partecipi dell’una e dell’altra insieme è tutt’altro che secondaria, anche se ora per non allargare troppo il discorso non ci soffermiamo su di essa), aveva distinto sei fondamentali forme di governo: tre buone, nelle quali il potere è esercitato per promuovere il bene comune: monarchia, aristocrazia e “politeia”, dove il potere è detenuto rispettivamente da un unico sovrano, dai cittadini migliori (per intrinseche virtù, o più spesso per condizioni sociali) ovvero da tutti i cittadini; e tre cattive, che sono la corruzione o la degenerazione delle precedenti e nelle quali il potere viene esercitato non a beneficio dei cittadini e di tutto lo stato, ma nell’esclusivo o prevalente interesse dei governanti; queste ultime sono: tirannide, oligarchia e democrazia.

Dobbiamo osservare che il termine “democrazia” ha per Aristotele,  un significato assolutamente negativo, equivalente a “demagogia”, ed indica la forma di governo più pericolosa e perniciosa, mentre il governo popolare positivo è definito “politeia” (termine dal quale derivò poi “polizia”, che ha poi assunto un significato del tutto diverso nelle lingue moderne, ma che ancora nel 700 indicava un governo “illuminato”, e pure non essendo “costituzionale” concedeva ai suoi cittadini alcune garanzie).

La distinzione tra le forme di governo operata da Aristotele è ripresa poi dallo storico Polibio di Megalopoli (205-120 a.C.) nel sesto libro delle sue “Storie” (5) -egli chiama però la democrazia “oclocrazia” (da “ochlos” = la massa irrequieta, petulante, aggressiva, “marmaglia”). Egli sostiene che queste sei forme di governo tendano sempre ad alternarsi nella storia dei popoli, partendo dalla monarchia che inevitabilmente si corrompe in tirannide; da questa per reazione emerge l’aristocrazia, che a sua volta degenera in oligarchia, e via dicendo, così che dopo la “politeia” e l’oclocrazia, con tutte le discordie e i “conflitti di interesse” che provoca, il popolo esausto decide di tornare alla monarchia. Questo schema di trasformazione da un tipo di governo all’altro è detta “anakiclosis”, ritorno ciclico.

Secondo lo storico, la costituzione romana, della quale si mostra convinto ammiratore, si sottrasse a questa catena di mutamenti in virtù del fatto che era una costituzione mista, nella quale si contemperavano potere monarchico (i consoli), potere aristocratico (senato) e potere democratico (comizi eletti dal popolo). Ed in effetti questa distribuzione ed equilibrio dei poteri conserva intatta la sua validità e dovrebbe offrire numerosi spunti di riflessione ai nostri politici attuali che dicono a parole di voler riformare l’ordinamento istituzionale: questo è l’esempio illustre al quale dovrebbero ispirarsi se fossero dotati di un po’ di saggezza!

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

2) in anni recenti, in particolare a partire dal 2009, le istanze e gli umori che avevano caratterizzato il People’s Party si sono ripresentati nel cosiddetto “TEA Party” che ne ha ripreso molti dei temi, in particolare l’opposizione alle tasse (infatti nel nome stesso TEA è l’acronimo di “Taxed Enough Already” = Già abbastanza tassati) e in genere all’intervento dello stato nelle vita economica.

3) per esprimere il concetto del “demagogo” si ricorreva ad espressioni generiche (turbator, homo seditiosus, ecc.) o a perifrasi (“homo qui populum sollicitat”, e simili).

4) “Histoire des variations des Eglises protestantes” 1688.

5) l’opera comprendeva 40 libri, in cui erano narrati gli avvenimenti dal 264 al 144 a. C. (e quindi soprattutto l’espansione di Roma negli stati intorno al Mediterraneo), ma di essi sono giunti interi solo i primi cinque. Di molti degli altri però, oltre a frammenti, si hanno riassunti ed estratti più o meno estesi.

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