LE PIETRE SACRE -prima parte (La Pietra Nera della Ka’aba)-

Un altro dei luoghi ritenuti “ombelico del mondo” è la città santa dell’Islam, ovvero La Mecca, e precisamente la Ka^aba, l’edificio cubico che si erge al centro del cortile della “Grande Moschea”.

Essa era il santuario principale della religione degli Arabi prima dell’avvento di Maometto, che l’avevano fondato su tre pietre sacre: la “Pietra Nera”, la pietra verticale ora incastrata nell’angolo yemenita (quello di sud-ovest) e la pietra che poi fu trasportata nel cosiddetto “Oratorio di Abramo” (“Maqàm Ibrahim”): infatti la spiritualità degli Arabi preislamici, come in genere di tutti i Semiti occidentali e meridionali  (quali Cananei, Fenici, Aramei, Nabatei, Iturei, ecc.), riservava una speciale venerazione per i “betili”, le pietre sacre considerati, come dice il nome stesso, “casa di Dio” e segno tangibile della Sua presenza nel mondo terreno.

La Ka'aba rivestita dalla "kiswa".
La Ka’aba rivestita dalla “kiswa”.

Fin da tempi antichissimi il santuario era metà di pellegrinaggio che cementava l’unità delle tribù, -molte delle quali nomadi-, di cui si componeva il popolo arabo e diveniva importante tramite di scambi culturali ed economici.

La Ka’aba e il pozzo “Zamzam” (quello a cui si dissetarono Agar e suo figlio Ismaele allorché furono scacciati dalla casa di Abramo) sono situati nella zona meridionale della Mecca, circa al centro del cortile della mosche che fu costruita Kaabaintorno ad essi. Il cortile misura m108 X 164; la Ka’aba ha una larghezza di 12 metri sul lato frontale dove si apre la porta di ingresso e al lato posteriore, 10 metri sugli altri due lati e 15 metri di altezza. Le pareti sono ricoperte di un velario di seta nero (la “kiswa” =veste) intessuto di ricami d’oro e d’argento, che riproducono versetti coranici, confezionato ogni anno in Egitto e offerto dai pellegrini egiziani che si recano alla Mecca. La “kiswa” viene allora tolta e sostituita con un panno bianco fino al termine del Grande Pellegrinaggio (“Hagg”), che si svolge nel dodicesimo mese dell’anno lunare islamico (“dhu al-higgia”), quando si provvede al rivestimento con il nuovo panno.

L’edificio è stato costruito con strati di pietra grigia provenienti dalle aree circostanti e riposa su una base di marmo alta circa 30 cm; la porta  si apre nel muro di nord-est a 2,13 metri dal suolo. L’attuale porta d’oro del peso di 300 kg realizzata dall’artista Ahamd bin Ibrahim Badr ha sostituito nel 1979 la vecchia porta fatta da suo padre nel 1942. Nell’interno, il cui unico arredamento è costituito, oltre che dai tappeti che ricoprono il pavimento e adornano le pareti, dalle numerose lampade votive d’oro e d’argento, si levano tre pilastri di legno che sostengono il tetto, mentre il pavimento è di lastre marmoree.

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La Pietra Nera incastrata in un angolo della Ka’aba.

All’angolo orientale, non lontano dall’entrata, a circa 1,50 metri dal suolo, è incastrata nel muro la famosa Pietra Nera (“Al-hagiar al-aswad”); in effetti essa non è un unico blocco, ma si compone, almeno nella forma attuale, da tre grandi frammenti e parecchi frammenti minori, tenuti insieme da un cerchio di pietra, rinforzato da una fascia di argento, che hanno complessivamente un diametro di circa 30 cm.; l’attuale stato frammentario della pietra è stato causato da un masso lanciato da una catapulta che la colpì durante l’assedio della Mecca avvenuto nel 683. Nonostante il suo nome, la pietra non è propriamente nera, ma ha un colore rosso molto cupo, sul quale si stagliano qua e là screziature giallastre. Lo spazio tra la Pietra Nera e la porta è detto “al multazam”, a questo spazio i pellegrini che entrano nella Ka’aba applicano con forte pressione il petto, il volto e le braccia in segno di devozione. All’angolo sud-occidentale, o yemenita, è inserita nel muro, sempre a un metro e mezzo da terra, la pietra detta “Fortuna” (“Al-hagiar al-as’ad”) che i pellegrini toccano, ma non baciano, -a differenza di quanto fanno con la “Pietra Nera-.

All’esterno della parete nord-ovest della Ka’aba e a poca distanza ma staccato da essa si trova un muretto semicircolare di marmo bianco, alto 90 cm e largo 1,50 m, chiamato “al-hatim”, che limita uno spazio vuoto detto “al-higr Ismail”, dove, secondo la tradizione sarebbero sepolti Ismele e sua madre Agar. Poiché anch’esso faceva parte del santuario, i pellegrini compiono la circumambulazione rituale (detta “tawaf”) senza passare fra il muro e la parete della Ka’aba, ma mantenendosi lungo il lato esterno del muro e percorrendo una pista predisposta intorno al santuario detta “mataf”.

Separato dalla Ka’aba vi è l’oratorio di Abramo, “maqam Ibrahim”, collocato presso il lato frontale dell’edificio: in esso è custodita la pietra sulla quale Abramo sarebbe salito per ricostruire le parti superiori del tempio. Di questa pietra si sa ben poco, ma sembra che sia una pietra tenera sulla quale appaiono le impronte attribuite ad Abramo. Accanto all’oratorio vi è un pulpito (“minbar”) di marmo bianco.

Un’altra costruzione esterna al perimetro della Ka’aba vera e propria è quella che copre il pozzo Zamzam, profondo 42 m, le cui acque salmastre sono dotate di miracolose virtù. Entro il colonnato della moschea vi sono inoltre altri tre oratori, riservati ai capi delle varie scuole durante la preghiera.Ricostruzione dell'interno della Ka'aba-

E’ certo che il luogo dove sorse la Ka’aba fu considerato sacro da tempi molto antichi: già nel II secolo a. C. è attestata la presenza di un santuario con il nome di “Macoraba” (con probabile etimologia dall’etiopico “mikrab” =tempio), che viene citato anche nella “Geografia” di Tolomeo (VI, 7), dove viene attribuito alla Mecca.

Alcuni studiosi sostengono che nell’Arabia preislamica vi fossero diversi edifici sacri chiamai “ka’aba”, in ciascuna delle quali si venerava una pietra ritenuta sede o manifestazione di una divinità: una pietra rossa nella ka’aba di Ghaiman, nell’Arabia Felix; una pietra bianca in quella di Al-Abalat , a sud-est della Mecca, ecc.

Sembra che in età anteriori a quella in cui visse Maometto, nella Ka’aba della Mecca si venerassero 360 divinità, una per ciascun giorno dell’anno, tra le quali le più importanti erano Al-Lat, la dea principale del pantheon arabo, considerata paredra o figlia di Allah (che prima di Maometto era il dio celeste supremo, corrispondente all’El dei semiti nord-occidentali), Al-Uzza, “la potentissima”, al-Manat, la dea che recide il destino degli uomini, e soprattutto Hubal, che sembra fosse il dio al quale il santuario era principalmente consacrato.

Lo storico arabo Hisham Ibn Al-Kalbi afferma nella sua opera “Al-kitab al-aznam” (“Il Libro degli Idoli) -dove tratta ampiamente delle credenze religiose degli Arabi preislamici-, che il simulacro di Hubal conservato alla Mecca fosse di corniola o di agata rossa e avesse l’aspetto di un uomo attempato con arco e faretra. Nella faretra erano contenute sette frecce, senza punta né cocca, che venivano impiegate a scopo divinatorio: il “sadin”, -custode del santuario- ne estraeva a richiesta una e dopo averla esaminata emetteva il suo vaticinio (1).  Si narra che il braccio destro della statua di Hubal, spezzatosi per imprecisate ragioni, sarebbe stato sostituito con un braccio d’oro.

Secondo Al- Azraqi, -un altro esegeta islamico di poco posteriore a Maometto- l’immagine sarebbe stata portata dalla terra di Hit in Mesopotamia da Amr ibn-Luhayy; per altri invece proverrebbe dalla terra dei Nabatei, ipotesi avvalorata dal fatto che in essa sono state trovate iscrizioni nelle quali il nome di Hubal compare insieme a quello di Dushara. -la principale divinità del pantheon nabateo-, e di Manawatu, -che corrisponde alla Manat, dea del destino degli Arabi-.

Il nome Hubal per alcuni sarebbe connesso con l’aggettivo “hibil” =anziano, il che farebbe supporre che potrebbe essere stato un’ipostasi antropomorfica di Allah. Di questa identificazione tra Hubal e Allah sarebbe testimonianza un passo coranico (Cor, sura CVI) dove Maometto esorta i Quraysh  a servire il Signore di questa Casa che li aveva nutriti preservandoli dalla fame. Secondo altri, -come Philip K. Hitti-,sarebbe una combinazione dell’aramaico “Hu” =spirito e Baal =Signore, nome del principale dio dei Semiti nord-occidentali, che assumeva però caratteristiche e attributi diversi secondo i luoghi ove era venerato. Per altri ancora sarebbe una variante araba di “ha-Baal”=il Dio, ed in effetti l’espressione usata in età islamica per riferirsi ad Allah era la stessa già impiegata in precedenza per Hubal, ovvero “Rabb al-Bayt” =”il Signore del Santuario (la Ka’aba)”.

Le tre dee che abbiamo citato in precedenza, le più importanti e venerate del pantheon arabo prima di Maometto, erano considerate le tre figlie di Allah, e costituivano una sorta di triade che godeva particolare culto e devozione nella regione dell’Hegiàz, -ove si trova la Mecca-.

Le tre dee Al-'Uzza, Al-Lat e Al.Manat in un dipinto moderno.
Le tre dee Al-‘Uzza, Al-Lat e Al.Manat in un dipinto moderno.

Di esse la primogenita era Manat, che era adorata anche dai Nabatei (2) con il nome di Manawat o Manawatu. Presso questo popolo era ritenuta la madre di Hubal ed identificata con la greca Nemesi, -la ricompensa o il castigo per le proprie azioni-, e si suppone personificasse il destino al quale tutto soggiace. Il principale luogo di culto della dea, rappresentata da un masso di pietra bianca, era nella località di Qudayd, presso Mushallal, a circa 15 km da Yatrib, nella fascia costiera dell’Hegiàz che si esende lungo il Mar Rosso. Il santuario fu fatto demolire da Maometto dopo la conquista della Mecca (gennaio 630 -ramadan dell’anno 8° dell ‘Egira-), e l’estromissione dalla Ka’aba di tutti i simulacri che vi erano ospitati, ad eccezione della Pietra Nera.

Si narra che Maometto avesse mandato il suo cugino e genero Alì a distrugere il tempio di Manat; questi razziò il ricco tesoro ivi conservato e lo portò al profeta dell’Islam. Tra le prede vi erano due spade che erano state donate alla divinità da Al-Harith Ibn Shamir Al-Ghassani, sovrano della dinastia ghassanide (3), che Maometto lasciò ad Alì. Una di esse era chiamata “Mikhadham” (“la Tagliente”) e l’altra “Rasub” (“la Penetrante”). Quest’ultima è attualmente conservata al Museo Topkapi di Istambul: la sua lama è lunga 140 cm ed è ageminata con cerchi d’oro sui quali è inscritto il nome del sesto Imam sciita Jafar as-Sadiq.

ALLAT (o AL-LAT) -“la dea” o “la Signora”-, corrispondeva alla dea degli Inferi Allatu (meglio nota con il nome di Erashkigal) presso i Babilonesi, Allatum presso gli Accadi ed Elat presso i Fenici. Alcuni hanno ipotizzato che questa dea con caratteristiche di Luna infera abbia ricevuto un culto anche presso i Greci col nome di ELIOTIS (le feste a lei dedicate erano le “Eliotie”), che sarebbe a sua volta assimilabile ad Ecate, la dea dei trivi, -la quale inoltre essendo “triforme” richiama la triade divina della quale Allat faceva parte-; ma Erodoto (Storie, III, 8) considera Allat,, -che lui chiama “Alilat”- equivalente ad Afrodite Urania. Osserviamo peraltro che Eliotis è anche un nome con il quale venne designata la principessa fenicia rapita da Zeus in sembianze di bianco toro che fu madre di Minosse, meglio conosciuta come Europa.

Nel periodo ellenistico e romano appare come la divinità femminile più venerata dagli Arabi e il suo nome veniva impiegato con frequenza nell’onomastica preislamica poiché sono attestati molti nomi teofori composti, quali Zayd Allat e Taym Allat. Viene identificata con Atena, ma accomunata talvolta anche ad Atargatis (o “Atarath”) la principale dea degli Aramei, con spiccate caratteristiche di “Grande Dea Madre”.

La dea Al-Lat in un rilievo risalente al 100 circa.
La dea Al-Lat sopra un dromedario in un rilievo risalente al 100 circa.

A Palmyra in Siria, dove le era consacrato un grande tempio (poi distrutto da fanatici cristiani tra il 378 e il 386), era assimilata sia a Venere Urania sia ad Artemide. Caratteristico nelle celebrazioni in lode e gloria della dea l’uso abbondante dell’incenso; suo animale sacro è il leone, raffigurato nel tempio di Palmyra in un notevole rilievo dove tiene e protegge tra le zampe un’antilope (o gazzella): questa immagine è stata interpretata come l’espressione del rifiuto dei sacrifici cruenti, ed in effetti sotto il rilievo è stata rinvenuta la seguente iscrizione: “Allat benedice chi non versa sangue nel tempio”.

Nella penisola arabica il principale luogo di culto di Allat (che secondo Julius Wellhousen (4) era madre di Hubal e suocera, -non sorella- di Manat) era la città di Ta’if, situata a sud della Mecca. Qui era grandemente onorata dalla tribù dei Banu Thaqif, che detenevano il governo della città nella forma di una candida pietra squadrata di notevoli dimensioni custodita nel santuario di Attab Ibn al-Malik. Dopo la vittoria dell’Islam il betilo della dea divenne un gradino ella moschea fatta erigere da Maometto.

Infine AL-‘UZZA, -“la Potentissima” o “la Veneratissima”-, la più giovane e la più bella delle tre figlie di Allah, nonché dea protettrice della Mecca; sebbene sia la più giovane è la più importante e la più potente delle tre: nella battaglia di Uhud, avvenuta nel 624, i Quraishiti chiamano a combattere gli abitanti della Mecca al grido di “O gente di Uzza, o popolo di Hubal!”. di solito appare come vergine guerriera dotata di eccezionale bellezza, ma un frammento di una poesia di Zayd ibn-‘Amar Nufayl, citato nel “Kitab al-asnam” suggerisce che avrebbe avuto due figlie (a meno che il poeta non si adegui a una tradizione nella quale le sue sorelle sono considerate sue figlie, in quanto meno importanti e potenti); il suo nome è sinonimo di sfolgorante avvenenza nella poesia araba preislamica.

Al-‘Uzza e Al-Lat alla Mecca venivano chiamate “al Gharaniq” =”le gru” o “le cicogne” per esaltarne la grazia. Nei tempi più antichi non le erano consacrati templi o santuari ed era venerata nell’aspetto di una sorgente e di tre alberi appartenenti al genere delle acacie (“samurat”) nell’oasi di Nakhla al-Shamiyya, entro la valle di Hurad; più tardi le fu costruito un santuario da Salim ben Assad, proveniente dalla tribù dei Banu Ghatafan, nel quale era compreso un betilo e la grotta sacra “Ghabghab” dove erano celebrati i sacrifici.

Era adorata anche dai Nabatei, che l’identificarono con Aphrodite Urania (ovvero Venus Caelestis), ma a Petra  dove, insieme a Dushara (la principale divinità maschile del pantheon nabateo) appare quale protettrice della città, era assimilata pure ad Iside e Tyche (la Fortuna, peraltro venerata con il nome di Gad -divinità talvolta maschile e talaltra femminile-  da varie popolazioni semitiche). Era anche identificata con il pianeta Venere come stella del mattino -e quindi con il “Phosphoros” dei Greci, l'”Azizu” palmireno (che sono però figure maschili) e la “Shahar” fenicia-

Il nome di Al-‘Uzza si ritrova anche nella tradizioni giudaiche extra-bibliche, -quali l’apocrifo “Libro di Enoch”, il “Sefer he-heshek” e il “Sefer he-Zohar” (“Il Libro dello Splendore””, testo fondamentale della “Qabbalah”, la dottrina mistica ebraica)-, come altro nome dell’angelo sterminatore Mètatron o di altri angeli punitori e tentatori.

Secondo il Corano invece (sura II, 127) il santuario sarebbe stato eretto da Abramo al quale Allah stesso avrebbe mostrato il luogo esatto ove edificarlo, accanto al pozzo di Zamzam, dove Agar e Ismaele si erano dissetati. Abramo avrebbe portato a termine la costruzione della Ka’aba insieme al figlio Ismaele intorno al 2130 a.c. Dopo che l’edificio fu completato, l’angelo Gabriele avrebbe recato ai costruttori una pietra nera caduta dal Cielo sulla adiacente collina di Abu Qubays perché fosse inserita nel tempio. La tradizione afferma che essa quando discese dal cielo era più bianca del latte, ma poi i peccati dei figli di Adamo l’avevano resa nera. Essa sarebbe stata però a sua volta l’ultima reliquia della “Casa Antica” (“Al Bayt al-atiq”), fatta scendere da Allah sulla terra direttamente dal paradiso quale dimora di Adamo ed Eva e primo tempio, ovvero come prima pietra di tale edificio. Questo tempio andò distrutto durante il Diluvio Universale, ma Noè riuscì a salvare la Pietra Nera occultandola in una grotta nei pressi della Mecca, ove fu poi ritrovata da Abramo quando egli si stava accingendo a costruire la nuova Ka’aba; essa starebbe quindi a suggellare un “patto” tra l’uomo e Dio.

Secondo una tradizione popolare, -ispirata forse dall’aspetto della pietra incastonata nel cerchio d’argento che la tiene unita- essa sarebbe l’occhio di un angelo incaricati di osservare coloro che adempiono all’obbligo di effettuare il prescritto pellegrinaggio alla Mecca.

Al tempo di Maometto (570-632) la custodia della Ka’aba era affidata alla tribù dei Quraysh (o Quraisciti), alla quale pure Maometto apparteneva. Egli però entrò in conflitto con i membri della sua tribù quando, dopo avere ricevuto la rivelazione sulla quale fondò la sua predicazione, volle che il tempio fosse dedicato solo al culto di Allah, da lui ritenuto l’unico e vero dio, e che i simulacri di tutte la altre divinità ivi contenute dovessero essere banditi così come la venerazione per esse. Come è noto, causa dell’avversione dei suoi concittadini alla nuova religione da lui proclamata, Maometto nel 622 dovette rifugiarsi con i suoi seguaci a Yathrib, -poi chiamata Medina (=la città), donde tornò poi vittorioso alla Mecca nel 630.

Durante i secoli la Ka’aba, nonostante la profonda venerazione della quale godeva e la mistica sacralità della quale era circondata, subì parecchie distruzioni e profanazioni, volontarie o involontarie. Intorno al 600 fu in gran parte distrutta da un incendio provocato da una donna che offriva incenso. I meccani l’avrebbero ricostruita servendosi del legname trovato su una nave bizantina naufragata a Gedda sul Mar Rosso. Il santuario fu però rifatto in modo diverso da come era la struttura originale: l’altezza fu raddoppiata, e l’intera costruzione fu collocata sopra un basamento e furono utilizzati legno e pietra.

In quella circostanza, sorse una controversia su chi avrebbe dovuto avere l’onore di rimettere la Pietra Nera al suo posto nel muro del tempio. Si tramanda che gli anziani delle tribù decisero allora di investire della questione la persona che avesse varcato per prima la soglia del ricostruito santuario: quella persona fu Maometto. Egli comandò che fosse portato un drappo al centro del quale fu posta la venerata pietra; ciascuno dei capi tribali avrebbe dovuto tenere in mano un lembo del drappo e così trasportare insieme la pietra al suo posto, dopo di che Maometto stesso la rimise nel muro.

Nella predicazione di Maometto, la Ka’aba viene presentata come il centro della vera religione, quella degli “Hanif”, che Abramo, riformando la corrotta religione degli Ebrei ricostituì. Pertanto essa è proclamata il promo vero santuario eretto nel mondo, ben prima del Tempio di Salomone (Corano, III, 96: “In verità il primo tempio che sia stato fondato per gli uomini è certo quello che è in Bakka [La Mecca], benedetto e guida per tutto il Creato”), la “Casa Santa” sostegno per tutti gli umani.

Le prescrizione relative al pellegrinaggio alla Ka’aba sono contenute nelle cosiddette “Sure dell’Immunità”; dall’anno decimo dell’Egira, durante il quale Maometto stesso guidò il pellegrinaggio, divenne in via definitiva il luogo santo per eccellenza dell’Islam.

In seguito intorno al sacro edificio si ebbe una copiosa fioritura di leggende e tradizioni che si aggiunsero nella pietà popolare alle notizie e alle prescrizioni contenute nel Corano. Il testo della sura II, 127, secondo la quale la Ka’aba è stata fondata da Abramo e Ismaele, si amplia in un ciclo mitico. Abramo viene guidato in Arabia dalla divina presenza (la “sakina”, termine quasi uguale a quello ebraico -“sekinah”- dal medesimo significato), che aveva assunto all’uopo la forma di vento antropomorfo con due teste, o anche una sola testa di serpente. Il vento-serpente si fermò nel luogo ove sarebbe sorto il santuario e invitò il patriarca a costruire l’edificio sopra la sua ombra. Egli, aiutato da Ismaele, si mise all’opera traendo le pietre che gli servivano da sette (o cinque) montagne diverse, tra le quali il Monte Libano, il Monte degli Ulivi di Gerusalemme e il Giabal al-Ahmar (la “Montagna Rossa”) presso la Mecca.

La “Pietra” -poi divenuta nera-, gli fu recata dall’angelo Gabriele. come abbiamo detto  il suo colore autentico era bianco ma si scurì sempre più per il continuo contatto con gli uomini peccatori che ne contaminarono l’originale purezza, senza però diminuire la sua santità; si può dunque affermare che la Pietra Nera funge da “spugna” che assorbe i peccati, le manchevolezze e le imperfezioni dell’umanità peccatrice, liberandola, almeno in parte, dalle scorie dei peccati e dei vizi. Un’altra leggenda attribuisce la fondazione dalla Ka’aba ad Adamo, il quale dopo la cacciata dal Paradiso terrestre si sarebbe stabilito alla Mecca.

In queste tradizioni leggendarie che arricchiscono di elementi mitici e simbolismi mistici lo scarno racconto coranico il sacro edificio appare come “omphalos”, ombelico dell’universo, centro cosmico, “axis mundi”: essa è la prima parte della creazione, dalla quale tutte le altre derivano, costituendo anche il tramite verticale, l'”axis”, fra il mondo supero e quello infero, intorno al quale tutto l’Universo ruota. 2000 anni prima della creazione , il santuario era un agglomerato immerso nell’enorme massa della materia informe. All’atto della creazione, questo agglomerato fu tratto dal caos e intorno ad esso si formarono le terre così che la Mecca è la “Madre delle città” (“Umm al-qura”); per questo la Ka’aba, centro della Mecca, centro del mondo e suo asse, è considerata il corrispondente terreno della Stella Polare in cielo.

Come si è accennato sopra, la Ka’aba e la Pietra Nera nel corso dei secoli hanno subito profanazioni e danni rilevanti, Nel 683 il santuario fu raso al suolo durante l’assedio portato alla Mecca, nella quale si era asserragliato l’anti-califfo Abd Allah ibn al.Zubair da Husain ben Numayr al-Sakuni,  per conto del legittimo califfo ommayade Abd al-Malik ibn Marwan, residente a Damasco. In quell’occasione, come abbiamo visto, la Pietra Nera, colpita da un proiettile lanciato da una catapulta, si frantumò in tre pezzi, poi riuniti dallo stesso al-Zubair con un cerchio d’argento. La Ka’aba fu allora ricostruita nella forma più antica cioè rettangolare con una sorta di abside che includeva il muretto (l'”hatim”), ora esterno all’edificio.

Un secondo assedio la Grande Moschea della Mecca lo subì pochi anni dopo; anche allora la Ka’aba riportò gravi danni. Dopo la fine definitiva del conflitto tra l’anti-califfo e il legittimo califfo della dinastia degli Ommayadi, ibn Marwan, quest’ultimo fece ristrutturare il santuario nella forma assunta al tempo di Maometto e che rimase immutata.

Nel gennaio del 930 la Pietra fu trafugata da un gruppo di Carmati (5), che la portarono nella loro capitale Hajar (nell’attuale Bahrein). Secondo lo storico ottomano Qutb al-Din, il quale scriveva nel 1857, il capo dei Carmati, Abu Tahir al-Qarmati avrebbe avuto l’intento di incastonare la pietra nella sua moschea e indurre i pellegrini a recarsi in essa anziché alla Mecca. Tale operazione però non gli riuscì e quasi 23 anni dopo nel 952 si indusse a restituire la preziosa reliquia. La restituzione però avvenne solo dopo il pagamento di un gravoso riscatto. La pietra, avvolta in un sacco, fu gettata nel cortile della Moschea del Venerdì a Kufa, dove fu poi recuperata e riportata nella Ka’aba dal califfo abbasside. Queste peripezie furono causa di nuovi danni per la reliquia, che si ruppe in sette pezzi (a causa queste numerose lesioni la pietra si trova in uno stato frammentario). Sempre secondo Qutb al-Din, il trafugatore Abu Tahir come castigo per il suo atto sacrilego avrebbe avuto una morte terribile, poiché tutto il suo corpo si ridusse in cancrena. Nell’XI secolo il califfo fatimide Al-Hakim bi-Amr Allah (6), di osservanza sciita, residente al Cairo in Egitto, avrebbe inviato un suo seguace alla Mecca per distruggere la pietra, ma fu fermato prima che potesse compiere gravi danni.

Infine nel 1629 le copiose piogge e conseguente inondazione che insolitamente si erano abbattute sull’Hegiaz causarono il crollo di tre delle pareti della Ka’aba, così che essa dovette di nuovo essere ricostruita per opera del sultano ottomano Murad IV, dal quale dipendeva in quel periodo la Mecca. Da allora l’edificio non fu oggetto di radicali interventi architettonici e mantenne il suo aspetto definitivo che si osserva tuttora.

La natura della Pietra Nera e la sua classificazione mineralogica sono state oggetto di approfonditi dibattiti. Paul Partsh, curatore della collezione mineralogica dell’imperatore austro-ungarico, e autore della prima storia completa della reliquia, sostiene l’origine meteorica della Pietra Nera.

Nel 1980 Elisabeth Thomsen dell’Università di Copenaghen ha avanzato l’ipotesi che la pietra possa essere un frammento del vetro generato dalla fusione di pietre causata dall’impatto di un meteorite caduto sulla terra circa 6000 anni fa nella località di Wabar, a 1100 km ad est della Mecca. Nel cratere provocato dalla caduta si trovano tuttora molti blocchi di silice fusa dall’impatto con il meteorite rovente; alcuni di questi blocchi sono di vetro nero e lucido, con porosità interne ripiene di gas, che consentono loro di galleggiare nell’acqua. Sebbene questo cratere di origine meteoritica non fosse noto agli scienziati prima del 1932, si suppone che i beduini del deserto ne fossero a conoscenza fin dall’antichità. Questo luogo infatti è citato nella poesia araba come la sede dei ruderi di una favolosa città, detta “Iram delle colonne”. Questa città era governata dal re Shaddad, figlio di Ad il Grande, che l’aveva resa ricca e adornata di splendidi monumenti; ma per l’insensibilità dei suoi abitanti, e del re stesso, agli ammonimenti del profeta Hud furono puniti da Allah, il quale prima inviò una lunga siccità, e poi, vista la loro ostinazione nell’iniquità, distrusse la città con un vento furioso.

Di questa città si parla anche nel Corano (sura LVIX, v.6-7) come esempio di superbia punita; inoltre la città e il suo superbo re Shaddad sono i protagonisti di una interessante novella contenuta nella raccolta delle “Mille e Una Notte”, “Storia di Abdallah ibn Abi Qulaba e di Iram della Colonne”(notti 277-279).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) questa forma di divinazione detta “belomanzia” (da “belos” =freccia), fu praticata da diversi popoli antichi, in particolare dagli Arabi e dai Persiani. Una derivazione semplificata e banalizzata  di questa mantica è l’uso di operare una scelta per mezzo di bastoncini di diversa lunghezza che daranno il responso. In un altro tipo di belomanzia, praticato nell’antichità soprattutto dagli Sciti, le frecce venivano gettate a caso sul terreno o su altra superficie liscia e dalle figure che componevano si traeva l’oracolo. Una forma moderna di questo tipo di divinazione è l'”acutomanzia”, nella quale si utilizzano degli aghi per creare le figure che dovranno dare il responso.

2) popolazione araba settentrionale che aveva fondato un regno nel sud dell’attuale Giordania, famoso per la ricchezza della sua capitale, Petra.

3) i Ghassanidi erano una dinastia araba, proveniente dalla tribù di Banu Ghassan, che nel IV secolo si era trasferita dall’Arabia meridionale nella Transgiordania e nel territorio di Damasco. Qui nel secolo successivo costituì un regno vassallo dell’Impero Bizantino che durò fino al 636, quando l’ultimo loro sovrano fu sconfitto dai Musulmani nella battaglia svoltasi presso il fiume Yarmùk.

4) Julius Wellhousen (1844-1918) fu un orientalista tedesco, tra i primi a riconoscere che i libri del “Pentateuco” erano di molto posteriori a Mosè, -al quale erano stati fino ad allora attribuiti- e che provenivano da almeno 4 testi indipendenti.

5) i Càrmati erano una setta estremistica, derivata dagli Ismailiti, -altra setta che si allontana notevolmente dall’ortodossia coranica-, che aveva fondato uno stato utopistico-teocratico nell’Arabia sud-orientale.

6) il califfo fatimide Al-Hakim (985.1021) divenne famoso per l’intolleranza e il fanatismo con i quali voleva che tutti i suoi sudditi si convertissero all’Islamismo sciita. Da un ramo dei suoi seguaci derivò la setta dei Drusi, attualmente presente soprattutto in Libano e in Siria, che peraltro anch’essa si allontana assai dall’ortodossia coranica sia sunnita sia sciita.

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