LE FRASI PALINDROME IN GRECO E IN LATINO -prima parte-

Com’è noto, una frase palindroma può essere letta in identico modo sia in un senso che nell’altro e pertanto risulta carica di un singolare potere evocativo. La scoperta è l’uso delle frasi palindrome sono senza dubbi assai antichi e se ne hanno esempi fin dalle epoche più remote e nelle più diverse civiltà, sebbene il termina “palindromo”, dal greco “palin” = “di nuovo” e “dromos” = “direzione”, “percorso”-, sia stato coniato solo agli inizi del XVII secolo dal letterato inglese Benjamin Johnson (1572-1637).

Un esempio ben conosciuto di frase palindroma in latino, e uno dei pochi attribuibili con certezza all’età antica, è il seguente esametro:

“IN GIRUM IMUS NOCTE, ECCE ET CONSUMIMUR IGNI”,

che significa “Andiamo in giro di notte, e così siamo consumate dal fuoco”. Questo verso, che risale probabilmente al II secolo ed è attribuito all’insigne grammatico Terenziano Mauro (ma alcuni affermano essere stato composto addirittura da Virgilio), si riferisce alle falene e ad altri insetti notturni i quali, svolazzando senza sosta intorno alla fiamma di candele e lucerne, finivano per esserne bruciate. Ne esiste anche una versione priva dell’avverbio “ecce”, in cui la frase rimane palindroma, ma cessando ovviamente di essere un esametro.

I Greci ritenevano i palindromi dotati di un intrinseco significato occulto e di virtù magiche. Il primo poeta a comporre poesie in versi palindromi sembra sia stato Sòtade di Maronea, che vissa ad Alessandria alla corte di Tolomeo II Filadelfo, -re d’Egitto dal 285 al 246 a. C.-, delle cuji opere sono rimasti però solo scarsi frammenti; dal nome di Sòtade, i versi palindromi furono detti “versi sotadici”

Una frase palindroma che trovavasi di frequente inscritta sulle fontane pubbliche è la seguente: “NIΨON ANOMHMATA, MH MONA OΨIN” (“Nipson amonèmata, mé mona opsin”) = “Lava i [tuoi] peccati, non solo il [tuo] volto”. Questo invito fu ripreso anche in un mosaico del battistero della basilica di S. Sofia a Costantinopoli, ed è tuttora ricorrente in Grecia sia presso i fonti battesimali delle chiese, sia accanto ai getti di acqua pubblici (1).

Un’altra diffusa espressione palindroma greca avente valore proverbiale è “ΣYNEΛABEΣ AΣ EBAΛEN YΣ” (“Sunelabes as ebalèn us”) =  “Hai raccolto quanto prese il maiale”, -ossia “hai usato qualcosa di seconda mano”, oppure “ti accontenti di una cosa di scarso valore”. Tra le numerose frasi palindrome in greco citiamo anche: “ΣOΣ EIMI’, TIMIE, ΣOΣ!” (“Sos eimì, timie, sos”) = “Tuo sono, eccellentissimo, tuo!”); “AMHΣAΣ APΔEN OPOΦOPON HΔPAΣA ΣHMA” (“Amesas arden, orophoron èdrasa sema”) = “Avendo raccolto [le mie messi] in alto, ho innalzato un monumento funebre con il tetto”, detto che vuole significare il merito dover essere ricompensato in maniera adeguata, e che è giustificato provare un legittimo senso di orgoglio per quanto di onorevole si è compiuto.

Tra le molte frasi palindrome esistenti in latino, possiamo ricordare le seguenti:

“SUBI DURA A RUDIBUS”  = “Ho subito un duro trattamento dai bruti -o dai bulli-“;

“ROMA, TIBI SUBITO MOTIBUS IBIT AMOR” (attribuita a Quintiliano): “Roma, un moto d’affetto verrà a te spontaneo”;

“SI BENE TE TUA LAUS TAXAT, SUA LAUTE TENEBIS” (attribuita a Plinio il Giovane) = “Se l’aspirazione alla fama ti incita, eccelsi risultati otterrai”;

“ADORO E ANIMO, DOMINA, ET, ORO, DA!” = “Ti adoro dal profondo del cuore, mia signora! Te ne prego, offrimi [un pegno del tuo amore]!”;

“ACIDE ME MALO, SED NON DESOLA ME, MEDICA!” = “Togli da me il male, ma non ferirmi, curami!”;

“ABLATA, AT ALBA” = “Allontanata (esiliata), ma innocente” si tramanda sia l’espressione con la quale Maria Stuarda, regina di Scozia (1542-1587), definì sé stessa dopo che fu fatta prigioniera da Elisabetta I d’Inghilterra.

“SUM MUS” = “Sono un topo”, a cui si può accostare:

“SUM SUMMUS MUS” = “Sono il topo supremo” (il re dei topi, si potrebbe dire): questo gioco di parole si fonda sul fatto che l’aggettivo di grado superlativo “summus” si può sciogliere e interpretare come “sum mus” (e viceversa);

“SI SEDES NON IS; SI NON SEDES IS” = “Se stai fermo, non vai; se non ti arresti procedi”: codesta frase palindroma è incisa, insieme molte altre iscrizioni, spesso oscure, ma certamente riferibili ai processi dell’alchimia, -sia quella operativa, sia quella di contenuto simbolico-mistico-, presenti sugli stipiti e sull’architrave della celebre “Porta Ermetica” che si trova a Roma e fu eretta tra il 1655 e il 1680;

“OTTO TENET MAPPAM, MADIDAM MAPPAM TENET OTTO” = “Otto tiene in mano un fazzoletto, un fazzoletto bagnato ha in mano Otto”, frase nella quale ciascuna parola che la compone è a sua volta palindroma;

fino all’enigmatica “EN AMOR, AT SI TENES ARA, MURORUM ARA SENET ISTA, ROMANE!”, della quale non è molto facile comprendere il significato, ma la cui traduzione potrebbe essere: “Avanti amore (o “ecco l’amore!”)! Ma se ti tieni all’ara con forza, i muri dell’ara si indeboliranno, o Romano! [e quindi non potranno più sostenerti]”, con il probabile senso di “non abusare delle tue forze”, o “non fare soverchio affidamento su aiuti esterni”.

Un ibrido latino-greco è “SOLE MEDERE, PEDE EDE, PEREDE MELOS”, che si può così tradurre: “Curati con il Sole, esci a camminare, effondi i tuoi carmi”.

“ROMAM, SUMMUS AMOR”, -“Roma, mio grandissimo amore”- è una frase trovata a Roma inscritta sia nel “Macellum” (mercato ) di Livia, sia nell’ipogeo di S. Maria Maggiore.

Ci riporta ancora a Roma codesto distico di esametri, entrami palindromi, di autore ignoto, ma che, secondo una leggenda medioevale, si riferiscono a S. Martino di Tours (Martinus Turonensis):

“SIGNA TE, SIGNA: TEMERE ME TANGIS ET ANGIS!/ ROMA TIBI SUBITO MOTIBUS IBIT AMOR!” (“Segnati, segnati: mi tocchi e mi tormenti senza necessità!/ Con il mio andare sarai presto a Roma!”), in cui il secondo verso riprende quello attribuito a Quintiliano che abbiamo visto sopra. Questa frase sarebbe stata pronunciata dal diavolo, che il santo aveva trasformato in asino per farne la sua cavalcatura; dopo esservi salito in groppa, egli cercava di affrettarne il passo con reiterati segni di croce, suscitando così la vivace protesta dello stizzito animale che redarguiva in tal modo l’impaziente passeggero.

“ARCA SERENUM ME GERE REGEM MUNERE SACRA:/ SOLEM, AULAS, ANIMOS, OMINA SALVA, MELOS” (“O arca -sepolcro-, rendimi un sovrano beato con il tuo ufficio,/ quasi fossero meco il Sole, le sale splendide del mio palazzo, i miei sentimenti, le mie speranze, i miei dolci carmi!) è invece il distico di esametri palindromi che funge da epigrafe sepolcrale di re Enrico IV di Francia (1553-1610).

Nella frase seguente sono palindrome pure tutte le singole parole che la costituiscono: “ANNA TENET MADIDAM MAPPAM, MULUM TENET OTTO” (“Anna tiene un fazzoletto bagnato, tiene un mulo Otto”).

Ma senza dubbio la più misteriosa, -oltre che la più celebre-, frase palindroma in latino è “ROTAS OPERA TENET AREPO SATOR”, -più nota nella forma “SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS” (peraltro meno antica)-, le cui parole sono disposte nella stesura grafica in modo da comporre un “quadrato magico”. Tale quadrato si riscontra inciso, dipinto o tratteggiato in numerose epigrafi su pareti e mosaici pavimentali sparsi in diverse aree d’Europa, nonché su alcuni codici e in opere pittoriche; ma non manca neppure in Africa settentrionale e in Vicino oriente in regioni un tempo soggette al dominio romano.

Fino alla metà dell’800 si credeva che non risalisse a prima del Medio Evo, poiché non se ne conoscevano esempi anteriori al IX secolo; ma in seguito la scoperta di esemplari del “quadrato”, per quanto spesso frammentari, in edifici e artefatti di epoche precedenti ha indotto a ritenere che sia in effetti assai più antico. Infatti nel 1868 uno scavo archeologico tra le rovine della città romana di Corinium Dobunnorum (nell’attuale contea di Gloucestershire) portò alla luce l’enigmatica iscrizione sull’intonaco di una casa databile al III secolo; in tale frammento il quadrato magico appare nella sua versione speculare che inizia con la parola “rotas”. Negli anni successivi ne furono trovati altri quattro esemplari nella città di Dura-Europos, colonia romana sulle rive dell’Eufrate nell’alta Siria, al confine tra l’Impero Romano e quello Arsacide (e poi Sassanide), risalenti anch’essi al III secolo.

Nel 1925 gli scavi condotti a Pompei da Amedeo Maiuri, uno dei più insigni archeologi italiani del 900, rivelarono un quadrato magico del “Sator”, sebbene mutilo, sull’intonaco della casa di Quinto Paquio Proculo; e undici anni più tardi, nel 1936, il paleografo Matteo Della Corte ne rinvenne un altro, questa volta completo, sulla scanalatura della colonna n. 61 nel portico occidentale della “Grande Palestra”. Per l’importanza di queste scoperte, che ne avevano riportato alla luce i primi esempi attestati e ne avevano dimostrato l’incontestabile arcaicità, l’insolito testo venne denominato “latercolo pompeiano”.

Un altro interessante ritrovamento fu fatto nel 1952 dall’archeologo ungherese Ianos Szlagyi, il quale durante una campagna di scavo tra le rovine della città di Aquincum, nei pressi di Budapest, nel territorio di quella che era l’antica Pannonia, scoprì inciso sopra un mattone rettangolare proveniente da un muro della “domus” del governatore della provincia della Pannonia inferiore un graffito riproducente il “quadrato”; tale reperto si può far risalire al 107-108. E sempre del II secolo, -probabilmente l’anno 185-, è il palindromo osservato sull’ansa di un’anfora oneraria fittile ridotta in cocci trovata in Inghilterra nel 1978.

Come si può osservare nell’esempio sopra riprodotto, -uno di quelli ritrovati a Dura-Europos-, talvolta le lettere del quadrato nelle testimonianze più vetuste di esso sono scritte in caratteri greci, pur essendo il testo in latino.

Nell’interpretazione della frase che costituisce il “latercolo” la difficoltà principale consiste nel riuscire a spiegare il significato del termine “arepo”, ignoto nel lessico latino di tutti i periodi e di cui non si conoscono altri esempi all’infuori di questo. Alcuni studiosi lo ritennero un nome proprio di persona, -“Arepo, -onis”-: ma tale ipotesi appare assai improbabile, poiché non risulta attestato in nessuna parte dell’Impero Romano (a meno che non si pensi che codesto presunto antroponimo sia stato inventato “ad hoc” per completare il palindromo).

Altri affermano che il termine sarebbe di origine celtica, -<“arepos”-, e che significherebbe “aratro”, adattandosi così con precisione al contesto della frase e dando ad essa un senso coerente; “Il seminatore tiene attentamente le ruote”. E’ questa una delle più plausibili tra le ipotesi di interpretazione proposte.

Una teoria tira in ballo addirittura l’Areopago di Atene, la collina ateniese che prese il nome (“collina di Ares”) dal giudizio a cui fu  sottoposto Ares, dio della guerra, reo dell’assassinio di Allirozio, figlio di Poseidone (2) e divenuta poi sede del supremo tribunale della città (detto anch’esso Areopago): “Arepo”, secondo codesta ipotesi, sarebbe una forma sincopata di “Areopago”. Ma il significato della frase diverrebbe in tal modo alquanto lambiccato; coloro che propongono questa soluzione sostengono pure che il testo del “latercolo” dovrebbe essere  letto in senso bustrofedico, ossia a serpentina alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra, e quindi dovrebbe essere letto: “Sator opera tenet, Arepo rotas [tenet]”: il seminatore sarebbe l’uomo, l’Areopago la giustizia divina: pertanto la frase vorrebbe esprimere l’idea che le azioni umane a nulla valgono se non sono in armonia con la provvidenza divina (o con gli equilibri cosmici). Questa è l’interpretazione del quadrato che diede lo storico tedesco Ludwig Diehl.

Secondo altri ancora il termine in questione sarebbe una variante del rarissimo vocabolo “aripus”, presente solo in due codici dei secoli VIII e IX, dunque di età assai più tarda dei primi esempi del “latercolo pompeiano”. Tale parola sarebbe a sua volta la forma latinizzata del greco “αρπη'”, significante un tipo di falce o di spada falcata. Da questa ipotesi si è passati a identificare falce del quadrato con quella usata da Kronos per evirare suo padre Urano e detronizzarlo dalla signoria dell’Universo, mentre il “Sator” non sarebbe un generico e indeterminato seminatore, ma lo stesso Saturno, -la divinità latina poi identificata con il Kronos greco, il “Tempo”-, il cui nome significa precisamente “seminatore”, poiché in origine era un dio legato all’agricoltura, all’abbondanza e alle messi, sotto il cui benevolo dominio il Lazio godette della prospera “Età dell’Oro”, nella quale la Terra offriva spontaneamente i suoi frutti senza dover essere coltivata e gli umani non erano costretti a penare per procurarsi il quotidiano sostentamento.

Ma Saturno è anche il “Signore del Destino”, il quale con la sua falce impietosa raccoglie i risultati della azioni dei mortali: dunque secondo tale interpretazione il significato della frase è che il Destino governa di tutti gli esseri e che ciascuno subisce gli effetti delle opere da lui compiute (esprimendo così un concetto simile a quello orientale del “karma”). E pure questa è un’interpretazione probabile.

Amuleto sul quale è inciso il “quadrato magico” circondato dai nomi cabalistici di Dio.

Un’ultima ipotesi considera “arepo” una voce verbale, ossia la prima persona singola indicativo di “arrepo, -ere” <“ad-repo” (composto della “ad”+”repo, -ere” = “strisciare”) = “mi arrampico strisciando”, con una sola erre per licenza poetica e adattamento metrico. In tale interpretazione l’impiego del verbo dovrebbe esprimere la difficoltà do giungere alla comprensione del senso della frase, sulla quale il lettore non può esimersi dall’arrovellarsi. E’ di tutta evidenza che in questo caso, per quanto nei versi palindromi assai di frequente la grammatica sia imprecisa e forzata per consentire di adattarli ad uno schema piuttosto artificioso, risulterebbe difficile coordinare il termine con gli altri della frase; si potrebbe tuttavia intenderlo come un inciso: “Il seminatore, -mi sforzo per comprenderlo, o fatico a comprenderlo-, tiene le ruote con -o per- il suo lavoro”; oppure riferirlo al “sator”: “[Io] seminatore arranco con fatica, l’opera [l’opera divina? l’opera alchemica?] tiene le ruote”, ovvero: “Per quanto possa impegnarmi, non sono io decidere (o a tenere in mano) il mio destino”.

Infine si potrebbe anche supporre che “arepo” non abbia un senso vero e proprio, ma sia stata inserita con l’unico fine di completare il quadrato magico e pertanto andrebbe tralasciata nella traduzione.

Molti dunque sono i significati attribuiti al “latercolo” e le ipotesi che sono state avanzate, spesso astruse e fantasiose. In effetti si può affermare cin certezza che questa frase cela un contenuto recondito, che però probabilmente si è modificato secondo i luoghi e le circostanze. Il cambiamento o adattamento a differenti situazioni è confermato dal fatto che mentre negli esempi più antichi la frase comincia con “rotas”, dal Medio Evo in poi la parola iniziale in prevalenza diventa “sator” (volendo dunque significare che nel primo caso si mettono in rilievo le “ruote”, -cioè gli strumenti della natura, del fato, della provvidenza o di Dio stesso-; nel secondo è il “sator”, che acquista maggior risalto, e dunque viene sottolineato il margine di libertà dell’uomo, sebbene influenzato dai condizionamenti esterni ed interni, e inserito nel contesto della “grande opera” dell’Universo).

Tuttavia, pur nella varietà di interpretazioni, si può ritenere assodato che il “quadrato” voglia rendere l’idea di una forza divina che governa l’Universo e con la quale l’uomo deve armonizzare il suo comportamento; esso sarebbe stato concepito in ambiente pitagorico, ermetico o stoico, per quanto nel corso dei secoli sia stata usata per esprimere in forma sintetica concezioni filosofiche diverse (3).

Sembra che il primo ad introdurre l’immagine del seminatore quale metafora della divinità che guida il mondo sia stato Cicerone nelle “Tusculanae Disputationes” e nel “De Natura Deorum” (4): per tale ragione vi è chi ha pensato che l’autore del “quadrato” sia proprio l’Arpinate, tanto più che il termine “αρπη'”, -dal quale, come abbiamo visto sopra, secondo certe interpretazioni deriverebbe “arepo”-, presenta una indubbia somiglianza fonetica con Arpinum, la cittadina natale dello scrittore. Inoltre egli aveva tradotto in latino i “Phaenomena” di Arato di Soli (315-240 a. C. circa), un poema che tratta di astronomia ispirandosi alla filosofia stoica, per la quale i movimenti degli astri sono uno strumento della divina provvidenza nel dirigere le cose del mondo: pertanto, secondo questa teoria, Cicerone, il quale, pur dimostrando una posizione eclettica in filosofia, trovò quella degli Stoici tra le più congeniali al suo temperamento e alle sue idee, e con il termine “arepo”, -che sarebbe dunque un epiteto-,avrebbe voluto alludere a sé stesso.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) secondo una diversa tradizione, codesto invito non sarebbe di origine classica, ma sarebbe stato ideato da S. Gregorio di Nazianzo (330-390 circa), uno dei padri della teologia ortodossa orientale.

2) Allirozio aveva cercato di usare violenza ad Alcippe, la figlia che Ares aveva avuto da Agràulo, e pertanto subì la vendetta del genitore di lei. Per tale delitto Ares fu citato in giudizio davanti a un tribunale di dodici dei, ma in quella circostanza il rude dio della guerra seppe difendersi così bene che fu assolto con formula piena.

3) è evidente che il “destino” può essere inteso quale forza esterna e ineluttabile che grava sull’uomo, oppure come un impulso che nasce dall’interno di e che questi deve riuscire a comprendere per poterlo controllare -ed in questo consiste la vera libertà-.

4) nel secondo libro delle “Tusculanae Disputationes”, II, 21, in una citazione, -tradotta in latino-, tratta dalle “Trachinie” di Sofocle si trovano i seguenti versi, pronunciati da Eracle morente dopo aver indossato la fatale camicia di Nesso: “Videte cuncti, Tuque, Caelestum Sator,/ Iace, obsecro, in me vim coruscam fulminis!” (“Vedete tutti, e tu, seminatore dei Celesti/ scaglia su di me l’impeto corrusco del fulmine”); mentre nel “De Natura Deorum”, II, 86, Lucilio Balbo, a cui Cicerone affida il compito di esporre la dottrina stoica su Dio, la Natura e la Provvidenza, definisce il Sommo Ente “omnium autem rerum quae natura adminstratur seminator et sator et parens, ut ita dicam, atque educator et altor est; mundum omniaque sicut membra et partes suas nutricatur et continet” (“seminatore, coltivatore e generatore di tutte le cose che la natura amministra, nonché, per così dire, educatore e vivificatore, che nutre e contiene il mondo e tutto quanto esiste come membra e parti di sé stesso”). Anche Virgilio usa un’espressione simile riferita a Giove in Eneide, I,254 -“Olli subridens hominum sator et deorum” (“Sorridendole il seminatore degli dei e degli uomini”)-, nel passo ove il sommo nume rassicura Venere sul destino glorioso che attende il di lei figlio Enea.

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