LE FACOLTA EXTRASENSORIALI DI ANIMALI E PIANTE (prima parte)

In questo articolo vorrei proprorre alcuni esempi e testimonianze riguardanti la capacità degli esseri viventi non umani, non solo gli animali, ma pure le piante, di percepire le grandi e misteriose forze che animano tutto l’Universo, e grazie alle quali noi tutti viviamo; e che dunque dimostrano la fondamentale unità di tutti gli esseri viventi e di tutto il cosmo, unità che può essere intuita senza difficoltà da coloro che sappiano mettersi in ascolto della sublime sinfonia dell’universo. Questi episodi, e moltissimi altri simili, dimostrano senza alcun dubbio come tali esseri che l’uomo con ingiusta e sciocca presunzione considera inferiori, abbiano saputo mantenere il contatto con le sottili energie che permeano e vivificano la Natura, e che l’uomo cosiddetto “civilizzato”, prigioniero dell’asfalto, del cemento e della tecnologia avanzata, di esigenze inautentiche e di falsi miti del progresso, ha spesso irrrimediabilmente perduto.

“Nonostante i meravigliosi progressi conseguiti dalle nostre scienze”-osservò il grande medico e fisiologo Charles R. Richet, premio Nobel per la medicina nel 1913- “queste ultime finora non hanno saputo spiegare l’origine di certi fenomeni eccezionali che non entrano più nella competenza delle leggi della fisica, della chimica e della fisiologia… E si tratta di fenomeni che nella storia dell’umanità sono diventati sempre più rari, perchè l’uomo si è costantemente allontanato dallo spirito della natura”.

I nostri fratelli minori invece, ancorchè frastornati dai molteplici inquinamenti dell’ambiente, dalla distruzione dei loro habitat naturali e dall’indegno e spietato sfruttamento al quale l’uomo li ha sottoposti, continuano a sentire il loro legame con il grandioso e mistico tempio che è la Natura: esiste sempre un magico, invisibile filo che unisce gli animali e le piante a quello che Jurgen Aschoff chiama “Zeitgeber”, il “timer cosmico”, per stabilire un comune, armonioso vincolo di vibrazioni. Ecco perchè con giusta causa si può parlare di scambi di messaggi tra animali, tra animali e piante, e pur anche tra piante tra di loro.

Vorrei inoltre sottolineare che negli animali l’osservazione dei fenomeni di percezioni extrasensoriali e di psichismo in genere è assai più proficua e conduce a risultati  ben più validi che nei veri o presunti “sensitivi”, poichè queste creature non sono spinte nè dalla mistificazione consapevole, nè dalla suggestione, o autosuggestione, involontaria che molto spesso nell’ambito umano caratterizzano tale controverso campo di studio, e che rendono quasi sempre assai arduo distinguere la sottile ed evanescente linea che separa il “paranormale” dalla ciarlataneria: l’animale, e a maggior ragione la pianta, non mistifica, non mente, nè si lascia condizionare da suggestioni, idee precostituite o convinzioni religiose e metafisiche che potrebbero falsare l’analisi dei fatti. E pertanto i fenomeni che si manifestano nelle creature non umane hanno un valore assai più probante e significativo.

I GABBIANI DI HALIFAX

Tutte le mattine il cielo del porto di Halifax, nella Nuova Scozia, era rallegrato dai voli di centinaia di gabbiani che di quando in quando si posavano a riva e, sebbene con qualche diffidenza, si lasciavano avvicinare dagli umani che portavano loro del cibo. E così voleva fare James Mac Lean, un pensionato statale che nella grigia mattinata del 6 dicembre 1917 si era recato al porto.gabbiani2a Ma quel giorno i gabbiani erano inspiegabilmente spariti. Una decina di minuti più tardi entrava nel canale attraverso il quale si accedeva al porto la nave Mont Blanc, proveniente da New York, mentre la nave norvegese Imo, carica di frumento, ne stava uscendo. Altri navigli transitavano nel canale e, forse in seguito ad un’errata segnalazione, la nave norvegese urtò la Mont Blanc. I due piroscafi entrarono in collisione: la prua dell’Imo si conficcò nella chiglia della Mont Blanc, rovesciandovi un barile di benzina: immediatamente si sprigionò un’enorme fiammata che in breve tempo avrebbe provocato morte e distruzione al suo intorno.

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L’esplosione causata dallo scontro tra le due navi.

La collisione tra il Mont Blanc e l’Imo avvenne verso le nove, mentre James Mc Lean e altre persone presenti avevano visto i gabbiani volare con aria disperata in direzione dell’entroterra alle sette del mattino; e l’ultimo gabbiano che stridendo passò rasentando il terreno fu visto alle 7,25. In quel momento il Mont Blanc navigava verso il porto e l’Imo doveva ancora iniziare le manovre per uscire: quindi i gabbiani avevavo presentito la catastrofe con circa due ore di anticipo. Ed in effetti proprio di catastrofe si trattò: le cronache del tempo così si esprimono in merito alla disastrosa vicenda: “Una colonna di luce gialla si sollevò dalla coperta squarciando l’aria per 1500 metri. Per un istante turbinò come una tromba d’aria e poi l’intera colonna di fuoco si allargò e si innalzò nel cielo in una gigantesca nuvola viola a forma di fungo. Erano esplose oltre 4000 tonnellate di tritolo: la più grande detonazione mai avvenuta fino ad allora sulla terra! Il Mont Blanc scomparve completamente: un pezzo dell’ancora del peso di mezza tonnellata fece un volo di cinque chilometri. Frammenti di lamiere dello scafo piovvero sulle case come proiettili… poi la morte avanzò rombando: alcune navi saltarono in aria, altre si capovolsero. L’immensa pressione provocata dallo scoppio provocò dei danni enormi anche sulla terra: interi quartieri crollarono, divamparono incendi in diversi punti della città e i vetri delle finestre andarono completamente in frantumi…Poi la gente invase il porto lanciando disperate urla di dolore. Un’orda impazzita avanzò inciampando e strisciando, molti avevano il viso insanguinato… Nell’isola del Principe Edoardo, distante oltre 200 km, si videro oscillare i lampadari e muoversi gli oggetti sopra i mobili, come se si fosse trattato di un terremoto”.

Solo a tarda sera sulle coste intorno alla città sconvolta dall’immane tragedia tornarono i gabbiani. Tornarono con volo lento e silenzioso e andarono a posarsi sulla banchina, come se volessero accertarsi che il pericolo fosse davvero cessato. Parecchi testimoni dichiararono di aver visto volare i gabbiani su Halifax verso le 7,20 del mattino e si erano stupiti poichè non era mai accaduto prima che i gabbiani sorvolassero la città. Si movevano a schiera sopra il centro abitato e sembrava volessero dire qualcosa, dare un avvertimento dell’evento catastrofico che stava incombendo; poi, lanciando stridi che facevano rabbrividire, puntarono decisamente verso l’interno.

Un altro testimone, Edgard Werter, vide giungere i gabbiani in una cittadina a trenta chilometri da Halifax. Anche qui tutti si meravigliarono per l’insolita visita e i bambini che a quell’ora si stavano recando a scuola si fermarono per ammirare gli uccelli…Ma la meta dei gabbiani era ancora più lontana: infatti essi avevavo percepito anche l’entità del disastro, e alla fine della loro fuga andarono ad appollaiarsi su alcuni cespugli ad una cinquantina di chilometri dal luogo dell’esplosione e vi rimasero per quasi tutta la giornata; decisero di tornare alle loro sedi abituali solo quando non si sentirono più minacciati da una tragica morte.

IL SALICE E I GATTI

Di questo episodio l’autore (Renzo Baschera), -nel cui interessante libro “I poteri psichiici degli animali e delle piante”  ho trovato il racconto-, non precisa l’epoca nella quale si svolse (che comunque è di certo il XX secolo, presumibilmente negli anni 50-60); quanto al luogo, lo indica in maniera generica (un paese della provincia di Asti). Tuttavia esso mi è sembrato degno di essere conosciuto, per cui lo riassumo a beneficio dei lettori.

Il posto peferito della gattina Giusy per la siesta pomeridiana era all’ombra di un vecchio salice; aveva una tale predilezione per esso che andava a ricoverarsi sotto questa pianta anche quando il clima era gelido. Quel luogo aveva senza dubbio qualche cosa di particolare, forse da esso emanavano delle radiazioni favorevoli alla vitalità degli organismi. A quanto sembra la gatta comunicò la sua scoperta agli altri felini del borgo ed essi non tardarono a prendere l’abitudine di radunarsi in quello spazio all’ombra della grande pianta. Era una scena alquanto curiosa: i gatti giungevano sotto il salice in lenta processione e ciascuno sceglieva il suo posto per trascorrervi il proprio momento di riposo. All’inizio i gatti erano solo quattro; in seguito questo insolito “salotto” all’aperto si affollò accogliendone una ventina o forse più. Rimanevano sotto l’albero per un paio d’ore, dopo di che tornavano alle proprie dimore; l’appuntamento, sia d’estate sia d’inverno era sempre intorno alle ore 15.

Il corteo veniva abitualmente aperto dalla baldanzosa Giusy; poi arrivava una mamma gatta con tutta la sua prole, seguita da un gatto galante, sempre pronto a corteggiare le gattine; venivano ancora i gattini giocherelloni, che si baloccavano pure con le code degli altri ospiti; e per ultimi giungevano i saggi: due gatti spelacchiati ricchi di anni e di esperienza. Sembrava che quella lunga sosta sotto il salice avesse per quei gatti un valore terapeutico; anzi, osservando bene la scena, si sarebbe detto che fra gli animali e la pianta si fosse instaurato un muto dialogo, una sorta di scambio di informazioni.

Un brutto giorno però questo sereno idillio venne turbato dal proprietario del terreno che decise di abbattere l’albero per utilizzare lo spazio ove esso sorgeva in un modo che giudicava per lui più proficuo. Fu la pianta, probabilmente, che avvertì per prima il messaggio di morte; e fu ancora essa a trasmettere il suo “grido” di allarme agli amici gatti, i quali si organizzarono per impedire il fitocidio.

Allorchè un uomo munito di accetta giunse davanti al salice si trovò di fronte una scena del tutto inaspettata: i gatti si erano disposti in cerchio intorno alla pianta, manifestando i loro propositi bellicosi. Alcuni avevano il pelo arruffato, la schiena inarcata e soffiavano minacciosamente; altri emettevano miagolii acuti, come se volessero lanciare un grido di guerra. L’uomo cercò di scostare i gatti, fece l’atto di alzare l’accetta per spaventare i felini, ma alla fine dovete darsela a gambe. Altri due tentativi compiuti da quella persona ebbero esito ancora più negativo, poichè colui che avrebbe voluto abbattere l’albero, per poco non fu abbattuto dai gatti. Il proprietario decise allora di rinunciare al suo progetto, accontentandosi di potare il vecchio salice.

Tra gli aspetti di questo episodio, vi è da sottolineare la tempestività dell’azione felina. I gatti usavano radunarsi sotto il salice, come abbiamo detto, verso le 15; l’uomo si accostò alla pianta per abbatterla nelle prime ore del mattino, e i gatti erano già sul luogo disposti in assetto di guerra. Si può supporre quindi che il messaggio telepatico tra gli animali e la pianta non contenesse soltanto segnali di pericolo, di terrore, ma anche precise informazioni sull’ora nella quale l’uomo aveva deciso di compiere il misfatto.

Ecco un altro episodio strano e commovente che testimonia la corrispondenza e il legame affettivo che può instaurarsi tra animali e piante.

I TACCHINI E MAMMA BETULLA

Non è facile trovare una betulla che adotti dei tacchini; sembra una fiaba, e invece si tratta di un fatto reale.

L’episodio che ci apprestiamo a narrare accadde in Gran Bretagna negli anni 50 del secolo scorso. Nella contea del Devon, poco lontano da Bideford, il signor Lengton aveva impiantato un allevamento di animali da cortile: egli acquistava numerosi pulcini e una volta che fossero divenuti polli, li vendeva consegnandoli al triste destino di soddisfare con la loro morte la gola umana. Nel 1952 pensò di estendere il suo allevamento anche ai tacchini, perchè la richiesta delle loro carni sembrava aumentare di continuo e pertanto aveva concepito la speranza di allargare notevolmente il suo giro di affari.

Così all’alba di un tiepido giorno di primavera giunsero nell’allevamento di Lengton alcune grosse scatole di cartone, spedite da un allevamento che si trovava nel nord del paese. Lengton le aprì con cura e ne uscirono diverse decine di piccoli tacchini che si misero a zampettare per il cortile, dove trovarono tanti altri compagni di prigionia; anche un porcellino si aggregò alla compagnia dei tacchini: Ma questi ultimi, due o tre giorni dopo il loro arrivo, mutarono alquanto il loro comportamento: anzichè continuare l’esplorazione del cortile e del prato, preferirono eleggere come loro stabile dimora l’ombra della betulla che si elevava ai limiti estremi del recinto.

“Si appollaiavano vicino alla pianta” disse più tardi Lengton, “o meglio si addossavano ad essa, quasi desiderassero il suo contatto fisico, come un bambino può cercare il calore della madre… E lì rimanevano per iornate intere.” Non era soltanto per ristorarsi all’ombra delle fronde dell’albero, perchè molte volte, anche durante le giornate fredde e piovose, si vedevano dei tacchini che si allontanavano dalla tettoia che avrebbe dovuto essere il loro riparo per andare ad accovacciarsi sotto la betulla.a5bd9eb6bb_6743714_med “Ricordo” dichiarò ancora Lengton “che più di una volta dovetti prendere un bastone per smuovere qulache tacchino che restava addossato alla betulla mentre pioveva a dirotto… Ebbi l’impressione che in quei momenti gli animali nemmeno sentissero la pioggia, nè il freddo. Sembrava che fossero come storditi, sotto l’influsso di una forza misteriosa”. Ma la cosa più strana era la crescita straordinaria e costante dei tacchini.

Ogni tanto si recava a far visita all’allevamento il negoziante Cudworth, il quale aveva già acquistato in blocco quei poveri pennuti: egli li guardava con cupidigia, e si strofinava le mani con avida soddisfazione pensando a quante sterline avrebbe potuto guadagnare. Ma un giorno, rivolto alla moglie Brenda, pronunciò una frase un po’ insolita: “Quei tacchini di Lengton sono strani: si riuniscono in gruppo e cominciano a guardarmi con insistenza, come se volessero dirmi qualcosa…”. La moglie non voleva credergli e per questo la portò all’allevamento, dove si ripetè una scena ormai consueta: i tacchini si radunarono davanti a Cudworth, in silenzio, con le pupille fisse sull’uomo, tanto che quest’ultimo a un certo punto si sentì in imbarazzo. La signora Brenda, che aveva avvertito un’inquietante atmosfera aleggiare intorno ai tacchini, consigliò al marito di rinunciare all’acquisto. Ma purtroppo molti uomini sono accecati dalla brama di lucro, e tra essi anche il signor Cudworth.

Si arrivò così a dicembre. Nell’aria si respirava già il clima natalizio (che -ahimè!- per molti animali, sacrficati dall’uomo con il discutibile intento di solennizzare una festa religiosa, è tutt’altro che foriero di letizia e di serenità…!); il negoziante sollecitò Lengton per avere la “merce” il più presto possibile; e così tutto venne apprestato per compiere il massacro. I tacchini avevano probabilmetne già ricevuto il messaggio di morte. Secondo la testimonianza di Lengton, la notte precedente la decapitazione i pennuti erano agitatissimi: scappavano da tutte le parti e andavano a mettersi sotto la betulla. Sembrava che cercassero protezione ed aiuto per il pericolo che sentivano avvicinarsi minaccioso… Tutti i tacchini si erano addosssati al loro albero protettore, e lì rimasero tutta la notte; al mattino, come se si fossero rassegnati alla loro sorte, si accostarono uno alla volta alla porta della stanza dove avrebbe dovuto compiersi il sacrificio.

Quando questa crudele operazione ebbe termine, il padrone dell’allevamento ebbe delle sorperse che non hanno mai trovato una spiegazione. La corteccia della betulla era spaccata in più punti, alcuni rami superiori erano anneriti, come se fossero stati colpiti da un fulmine. Gli altri animali erano agitatissimi e nel pollaio dei tacchini tutto era stato devastato, come se fosse passata una misteriosa furia distruttiva. Lengton si impressionò molto per quanto era accaduto; si recò a far visita ai suoi vicini, con la speranza di sentirsi dire che qualche ubriaco o qualche cane randagio si aggirava nei dintorni a compiere atti vandalici. Ma essi gli assicurarono che non si era visto nulla di insolito e che nessuno sconosciuto aveva transitato per la campagna.

L’uomo tornò alla fattoria; la vita tornò ad essere quella di un tempo, tranne per la betulla, che rimase sempre con i suoi rami aridi e senza vita, a ricordare qualcosa di tremendo che era avvenuto su quel lembo di terra. Poi la pianta venne tagliata; ma nel recinto dell’allevamento di Langton non trovò vita alcuna altra betulla. “Ho provato” disse l’allevatore “a piantare decine di betulle, ma nessuna è attecchita, come se su questo terreno ci fosse una forza ignota che impedisce alle betulle di vivere. Ho piantato olmi, querce e altre piante e tutte si sono sviluppate rigogliosamente. Le betulle, al contrario, rimangono alcuni giorni con le foglie verdi e poi immancabilmente appassiscono”. Eppure, a poche decine di metri da quella fattoria si vedevano betulle rigogliose; soltanto nel suo terreno queste piante morivano, vittime di una vibrazione misteriosa ed oscura che spezzava le loro vite.

IL CAGNOLINO TOMMY E IL RESIDUATO BELLICO

Il fatto che stiamo per narrare accadde in una zona della periferia di Roma nel 1946.

Tommy, un cane bastardo di circa due anni, era conosciuto in  tutto il quartiere; conducava una vita randagia, talvolta difficile, e si accontentava di sfamarsi con qualche pezzo di pane e qualche osso che trovava per la strada. Quando un’anima buona, commossa per la sua sorte, gli offriva dei bocconi diversi dal solito e per lui prelibati, era un giorno di immensa felicità,.

Alcuni bambini erano i suoi migliori amici. Essi nelle ore pomeridiane si incontravano sempre in un prato per giocare al pallone ed in quei momenti Tommy giungeva puntuale per partecipare anch’egli al gioco. La cosa curiosa era che, nonostante gli orari dei raduni dei bimbi non fossero sempre gli stessi, -poichè nei giorni feriali, essi, impegnati nel doposcuola, si incontravano alle sedici, mentre nei giorni festivi alle quattordici-, anche il cane, stranamente rispettava questi orari, arrivando sempre per tempo. Gli abitanti delle case vicine non lo vedevano mai nel prato prima delle sedici, nelle giornate feriali, mentre alla domenica e nelle altre festività, all’approssimarsi delle quattordici, sbucava da una via laterale, tutto allegro e scodinzolante.

I ragazzini portavano sempre qualche cosa di buono da offrire al loro amico a quattro zampe che dimostrava con grande affetto la sua gratitudine. Tommy trotterellava per un compo per il prato; poi si accucciava presso una delle porte dell’improvvisato campo di calcio e aiutava il portiere a parare i goal. Come giocatore si dimostrava assai abile e intuitivo: fiutava i goal nell’aria e cominciava ad abbaiare al pallone quando questo rotolava ancora in mezzo al campo, pronto a bloccarlo con le sue zampette.

Così andava avanti fino a sera; al calare del Sole, i bambini riprendevano le giacche e i giubbotti che avevano messo sui rami di un albero e si incamminavano per tornare alle proprie case. Tommy li seguiva per un pezzo e poi scompariva senza lasciare traccia. Ma l’appuntamento era sempre per il giorno seguente, nel medesimo posto e all’ora tacitamente convenuta.

Un martedì il cane attirò in modo particolare l’attenzione dei ragazzini perchè appariva agitatissimo: correva di qua e di là, e continuava a fare salti come se fosse impazzito. I suoi amici tentarono di acquietarlo ponendogli davanti le vettovaglie che erano riusciti a trafugare nelle cucine delle loro famiglie, ma invano: sembrava che ci volesse ben altro per ammansirlo! Per la prima volta Tommy non toccò il cibo che i bambini gli avevano portato. Dopo di essersi esibito in una serie di frenetiche, ed in apparenza inspiegabili acrobazie, si diresse verso la pianta sui cui rami i ragazzini avevano gettato i vestiti: Fatto un balzo, ne afferrò alcuni per i denti trascinadoli nella sua corsa folle in un giardino pubblico che si trovava non molto lontano da là. I bambini si misero a correre dientro al cane senza ruscire a spiegarsi il motivo di quel comportamento così strano. Tommy era sempre stato un cane molto tranquillo e affettuoso, e nessuno riusciva a comprendere il perchè di questo colpo di follia.

La bestiola, una volta giunta al giardino, correva affannosamente tra gli alberi e le aiuole. Poi balzò su una panchina e vide che due bambini erano rimasti nel prato: come un fulmine si precipitò su di loro ed essi, impauriti dall’impeto del cane, fuggirono velocemente. Alcuni istanti dopo, mentre i ragazzini correvano lontano, dietro a Tommy si udì un tremendo scoppio. Il cane si fermò; si fermarono anche i bambini, ammutoliti per lo spavento. Erano tutti sudati e ansimanti; “che cosa è stato?” si chiedevano l’un l’altro con ansia i più grandicelli. Il cane ritornò sui suoi passi, con aria mesta, con andatura mansueta. Lo seguivano i bambini, i quali ancora non avevano capito che cosa fosse successo, timorosi e incerti sul da farsi.

Tornati al prato dove erano abituati a giocare a calcio si trovarono dinanzi a una voragine immensa e tanta gente che parlava con indescrivibile agitazione. “Stavo alla finestra” dichiarò allora un testimone “quando vidi il cane precipitarsi come un bolide sugli unici due ragazzini rimasti sul prato, trascinandoli via con i denti. Tommy, pensai tra me, è impazzito…e per qusto volevo avvertire la madre di uno dei due, che abita al piano sotto al mio, per consiglarla di richiamare in casa suo figlio. Ma mentre stavo per ritrarmi dalla finestra, ho sentito un tremendo scoppio e ho visto una montagna di terra proiettarsi verso il cielo”.

Furono subito chiamati gli artificieri; venne svolta un’inchiesta e si accertò che l’esplosione era stata causata da un residuato bellico ad alto potenziale, abbandonato probabilmente dall’esercito tedesco in ritirata. Se l’esplosione fosse avvenuta mentre i bambini stavano giocando al pallone nel prato ci sarebbe stata una strage. Molti genitori si commossero fino alle lacrime e andarono a cercare Tommy l’unico essere vivente che aveva presentito il grave pericolo ed aveva salvato i loro figli. Avrebbero voluto anche dargli un premio, più che mai meritato; ma Tommy si era già dileguato, quasi per evitare i ringraziamenti che forse l’avrebbero messo in imbarazzo. Il giorno appresso però, puntuale come sempre, comparve sul campo, e questa volta bambini e genitori lo festeggiarono come si conviene a un piccolo eroe.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

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