LE AMAZZONI, GUERRIERE DELLA LUNA: INVENZIONE O STORIA? (terza parte)

Un’altra versione del mito di Cibele e Attis ci è offerta da Ovidio, il quale nel suo poema incompiuto “I Fasti” (1), dove illustra le feste e le tradizioni romane ed i miti che diedero loro origine, o comunque ad esse collegati, trattando dei “Ludi Megalenses”, le solenni celebrazioni che avevano luogo in Roma dal 4 al 10 aprile, espone anche la triste storia di Attis. Secondo Ovidio (Fasti, IV, 221-246), Cibele aveva concepito un profondo amore per Attis, del quale era oltremodo gelosa; questi a sua volta aveva giurato di esserle fedele in eterno. Ma questi non riuscì a tener fede al suo impegno, poiché, soggiogato da una intensa passione per la ninfa Sagaritide (o per altri Sangaride), volle sposarla. Cibele adirata e furente per l’infedeltà dell’amato, lo fece impazzire, tanto che egli si evirò e poi tentò di gettarsi dall’alto di una rupe. La dea lo salvò afferrandolo per i capelli, ma questi ultimi si trasformarono in fronde, mentre il corpo diveniva un tronco e i piedi si fissarono alla terra come radici: Attis si era tramutato in pino.

Cibele ed Attis sul carro tirato da leoni, in una preziosa pàtera d'argento del II secolo conservata al museo archeologico di Milano.
Cibele ed Attis sul carro tirato da leoni, in una preziosa pàtera d’argento del II secolo conservata al museo archeologico di Milano. Le due divinità sono circondate dai Coribanti, -che con lo strepito prodotto dallo sbattimento di spade e lance sugli scudi avevano coperto i vagiti del piccolo Zeus-, dimostrando quindi l’assimilazione tra la Cibele anatolica e la Rea greca, madre degli dei olimpici.

Secondo quanto narra il poeta nel suo poema, quando furono consultati i “Libri Sibillini”, -per sapere come stornare l’incombente pericolo dell’invasione di Annibale (come abbiano visto nella parte precedente)-, il responso trovato fu: “La Madre è assente: ti prescrivo o Romano di cercare la Madre e quando giungerà dovrà esser ricevuta da mano casta”. Suscitò perplessità quell’oscuro oracolo su quale fosse la genitrice assente da riportare a Roma, e in quale luogo dovesse essere trovata. Si consultò a tal fine anche l’oracolo di Delfi, -il più riputato dell’antichità-, il quale diede il seguente responso: “Andate a cercare la Madre degli Dei, la si troverà sui gioghi del monte Ida”.

E così fecero; in un primo tempo Attalo, re di Pergamo, nel cui regno si trovava il santuario della dea, ricusò di esaudire la richiesta dei Romani. Ma poi la stessa dea fece udire la sua voce: la terra tremò con lungo boato, e Cibele disse che voleva che il suo simulacro andasse a Roma, luogo degno degli dei (“Ipsa peti volui: ne sit mora, mitte volentem:/ Dignus Roma locus quo deus omnis eat” -Fasti, IV, 269-270-: Io stessa ho voluto essere cercata: mandami senza indugio: Roma è un luogo degno che qualunque dio vi si rechi). Allora Attalo, mutato il suo parere, acconsentì alla partenza della “pietra nera” alla volta di Roma, riconoscendo che la città sul Tevere discendeva da antenati frigi (“Nostra eris: in Phrygios Roma refertur avos” -Fasti, IV, 272-: “Sarai comunque nostra: Roma discende da avi frigi”).

Viene poi descritta la costruzione con legno di pino della nave destinata al trasporto della sacra pietra e della rotta seguita da essa per giungere fino alla foce del Tevere. Ad Ostia però il naviglio rimane incagliato in un guado fangoso e nonostante gli sforzi del popolo esso rimane immobile in mezzo al fiume. Fino a che non sopraggiunse una nobildonna romana, Claudia Quinta, discendente di antica stirpe, la quale, nonostante fosse di specchiata onestà, era ingiustamente vittima di calunnie che mettevano in dubbio la sua virtù. Ella si appressò al fiume, ne raccolse l’acqua con le mani e per tre volte se la versò sul capo e per tre volte elevò al cielo le palme; indi, inginocchiatasi, fissando il simulacro della dea, così le si rivolse: “O alma e feconda Genitrice degli dei, accogli la preghiera di questa supplice! Negasi che casta io sia: se tu mi condanni, accetterò il castigo, espierò con la morte le mie colpe, per giudizio divino. Ma se in me non vi è peccato, darai con un gesto la prova della purezza della mia vita e, casta quale sei, seguirai mani caste!”.

Dopo aver pronunciato queste parole, la donna prese la corda con la quale da lungo tempo gli uomini tentavano, senza riuscirvi, di disincagliare la nave e questa si mosse senza sforzo, consentendo così di trasportare la pietra prima allo stagno dove il piccolo fiume Almone confluiva nel Tevere e da lì nell’Urbe. In tal modo Claudia Quinta potè dimostrare la propria innocenza.

Un’altra versione del mito di Cibele e Attis è quella narrata da Diodoro Siculo (Bibl. Historica, III, 58-59), il cui racconto peraltro è piuttosto sintetico e a tratti lacunoso: a detta di quest’ultimo, -che peraltro afferma di riportare quanto tramandano i Frigi-, Cibele era figlia di Meone, re di Frigia e di Lidia, e di sua moglie Dìndime. Non potendo o non volendo allevarla, -per ragioni che lo storico non spiega-, espose la figlioletta sulle pendici del monte Cibelo, dove ella sarebbe sicuramente morta di fame e di freddo se non avesse beneficiato della protezione divina e non fosse stata allattata dalle pantere ed altri animali selvatici.

Cibele sul suo carro e Attis che suona il flauto accanto a un pino in un rilievo antico.
Cibele sul suo carro e Attis che suona il flauto accanto a un pino in un rilievo antico.

Un giorno però, -come sempre accade nelle storie di questo genere-, la pargoletta fu trovata da alcune donne che menavano a pascolare le greggi sui monti e la condussero a casa loro, dandole il nome di Cibele da quello del luogo ove l’avevano rivenuta. Cibele crescendo divenne una splendida fanciulla che di faceva notare per la sua grazia, la sua intelligenza e il suo spirito. Ella inventò la siringa, il flauto costituito di segmenti di canne palustri di diversa lunghezza ed introdusse nelle feste campestri l’uso dei cimbali (una specie di piatti di bronzo tenuti con cordicelle e fatti sbattere tra di loro) e i tamburelli (2). Inoltre sapeva preparare miracolose pozioni per curare le malattie degli animali e dei neonati; anzi cantando nenie incantatrici riusciva a guarire i bambini che teneva in braccio e per queste sue virtù benefiche ricevette il nome di “Madre della montagna”. A questo punto avviene l’incontro con Attis; ma Diodoro non si dilunga molto sul legame affettivo tra lui e Cibele, mentre introduce nella storia la figura di Marsia, il celebre inventore del flauto semplice (3), con il quale egli avrebbe eguagliato quello a molte canne, la siringa, riproducendone i suoni.

Lo scrittore dice poi che Cibele incontrò i suoi genitori ed essi la riconobbero (anche in questo caso l’estrema sinteticità del racconto rende poco chiaro lo sviluppo degli eventi) e la ricondussero al palazzo reale. Ma, venuti a conoscenza dei suoi amori con Attis, Meone condannò a morte sia il giovane sia le donne che avevano allevato Cibele, e ne lasciò i corpi insepolti. Divenuta folle a causa di codeste luttuose vicende, Cibele si mise a percorrere le contrade dell’Asia minore, gemendo e sonando cimbali e tamburelli.

Marsia, affranto dalla sorte di Cibele, decise di seguirla nel suo peregrinare e giunsero insieme nella città di Nisa, dove risiedeva Dioniso. Qui incontrarono Apollo, ed avvenne la famosa gara di abilità musicale che contrappose il dio protettore delle arti e il satiro aulete (però Diodoro non lo definisce mai satiro), che, nella narrazione dello storico avvenne in due fasi: in un primo tempo entrambi gli sfidanti si valsero soltanto dei rispettivi strumenti (ovvero la cetra per Apollo e il flauto per Marsia); la novità e la varietà delle melodie modulate da Marsia con il suo flauto gli valsero gli vittoria a detta degli ascoltatori che assolvevano alla funzione di giudici nella disfida (che lo scrittore indica in modo generico come gli abitanti di Nisa). Ma Apollo non si rassegnò alla sconfitta e pretese di disputare una seconda gara, nella quale accompagnò con il canto il suono della cetra, ottenendo in tal modo la vittoria. Di fronte alle proteste di Marsia, -il quale sosteneva che contro di lui fossero state usate due arti e non una sola-, Apollo, dopo aver dichiarato che egli si era servito della bocca come il suo avversario, si adirò con lui a tal punto che lo scorticò vivo.

Frontone di antico tempio rupestre in Frigia con due leoni affrontati.
Frontone di un antico tempio rupestre in Frigia con due leoni affrontati.

In seguito però Apollo si pentì della durezza con la quale aveva punito Marsia, depose la sua cetra e il flauto di Marsia nella grotta di Dioniso e chiese a Cibele di accompagnarlo nella sua annuale migrazione nel paese degli Iperborei.

In quel tempo la Frigia fu funestata da una misteriosa malattia che ne colpiva gli abitanti, mentre la terra era divenuta arida e sterile. Dopo aver consultato l’oracolo, i Frigi seppero che se volevano far cessare il morbo e far tornare fertile la terra, avrebbero dovuto dare degna sepoltura al corpo di Attis e rendere a Cibele onori divini. A tal fine, essi eressero un magnifico tempio dedicato a Cibele ed Attis nella città di Pessinunte, e decretarono solenni celebrazioni in loro memoria.

Anche nel racconto qui riassunto, Diodoro, seguendo l’interpretazione evemeristica (4) dei miti che gli è propria, fa dei protagonisti di esso degli esseri umani poi considerati e venerati quali dei prima dalla popolazioni del luogo ove gli eventi si svolsero e in seguito anche dalle altre, così che la fede e il culto ad essi rivolto si diffusero ampiamente.

E’ importante notare che questa narrazione viene inserita nella storia di Atlantide e delle Amazzoni, -di cui abbiamo già estesamente trattato (si veda in particolare la prima parte di “Le Amazzoni ad Atlantide”): infatti lo storico la riporta come una diversa versione dell’origine del culto della Grande Madre rispetto a quella da lui attribuita agli Atlantidi secondo la quale quest’ultima sarebbe da identificare in Basilea, una della figlie di Urano e Titea. Ella aveva preso a percorrere i monti e le valli invasata da una sorta di sacro furore, agitando i giocattoli dei figli defunti e sonando strumenti musicali come cimbali e tamburelli in seguito alla morte del proprio figlio Helios, che era stato ucciso dai Titani e gettato nel fiume Eridano, e al suicidio di suo sorella Selene (5); infine Basilea scomparve durante un temporale e da allora fu venerata come una divinità.

Quella che abbiamo esposto finora sono tuttavia le varianti della versione frigia del mito di Attis; esiste infatti una versione lidia della storia di Attis (nella quale spesso il protagonista è chiamato Atys), meno complessa e ricca di sviluppi narrativi, che è anch’essa riassunta in breve da Pausania nella sua “Periegesi della Grecia” (VII, 17, 9). Lo scrittore sostiene peraltro di rifarsi a quanto afferma il poeta elegiaco Ermesianatte (6) in una sua poesia, secondo il quale Attis (o Atys) era figlio di Calaus, re di Frigia, ed era eunuco fin dalla nascita. Divenuto adulto egli andò a stabilirsi in Lidia, e propagò tra gli abitanti della regione il culto e i misteri della Grande Madre di cui era devoto seguace. Ma Zeus, geloso di questo culto che faceva concorrenza al suo, per punire i Lidi, inviò loro un enorme e feroce cinghiale, il quale, oltre a devastare le campagne, uccise Attis e molte altre persone. Per tale ragione -aggiunge Pausania- i Frigi e i Galati (popolazione celtica che nel III secolo a. C. aveva occupato alcune zone della Frigia) di Pessinunte si astenevano dal consumare carni suine.

Questa versione del mito nel quale la fine dell’esistenza terrena di Attis è provocata dalle ferite inferte da un cinghiale, accomuna la sorte dell’eroe a quella di Adone (del quale abbiamo parlato in un articolo precedente) anch’egli ucciso da un cinghiale nel quale si era mutato Ares per punire il suo rivale colpevole di aver suscitato la benevolenza della dea (7).

Tuttavia la forma più lunga e completa della versione lidia della storia di Attis (o Atys) è quella tramandata da Erodoto (Storie, I, 34-45); il racconto di Erodoto peraltro non si può più considerare un mito, poiché in esso non intervengono divinità ed i suoi protagonisti sono figure del tutto umane, e storiche, le cui motivazioni e la cui psicologia non adombrano più il dispiegarsi e l’interagire di forze cosmiche e spirituali personificate. Per questo da un punto di vista storico-letterario sembrano segnare il passaggio nella letteratura greca dal mito -che con un rivestimento simbolico e allegorico vuole esprimere delle realtà di tipo metafisico (quindi con un contenuto cosmogonico, teogonico, eziologico) pur se talora compaiono in essi pure elementi di carattere storico- alla novella dalla quale svilupperà in seguito il romanzo (8)(9).

Il ginnasio di Sardi, antica capitale della Lidia, di epoca ellenistica.
Il ginnasio di Sardi, antica capitale della Lidia, di epoca ellenistica.

Non di meno anche in questa vicenda tragica incombe la presenza di arcane forze divine entro la cui trama gli eventi umani trovano il loro senso e significato, per quanto oscuro a chi cerchi di penetrarle senza comprendere l’essenza più profonda dell’uomo e del mondo, e soprattutto per coloro che cerchino di costruire il proprio destino solo su una irraggiungibile felicità terrena.

Secondo la narrazione erodotea dunque Creso, re di Lidia, aveva due figli, dei quali uno era muto e sordo, mentre l’altro, il cui nome era Atys, superava di gran lunga i suoi coetanei in qualsivoglia qualità. Creso fece un sogno premonitore dal quale seppe che Ati sarebbe morto per la ferita infertagli da una punta di ferro. Per allontanare questa fosca minaccia che incombeva sul figlio comandò che questi non partecipasse più ad alcuna impresa guerresca e di portare via dal palazzo reale tutte le armi con punte di ferro, quali lance e giavellotti-.

Mentre fervevano i preparativi per il matrimonio di Ati, giunse a Sardi, -capitale della Lidia-, un frigio di stirpe reale, Adrasto, figlio di Gordio e nipote di Mida, il quale, colpevole di aver involontariamente ucciso suo fratello, chiedeva al re Creso di essere purificato da quella colpa. Lo straniero fu benevolmente accolto alla corte lidia, ma nel tempo in cui egli vi si intratteneva apparve su un monte vicino, detto “Olimpo di Misia”, un grosso cinghiale, il quale con le sue perniciose scorrerie devastava i raccolti dei Misi. Per tanto questi ultimi si rivolsero a Creso, chiedendogli di mandare il figlio a capo di una spedizione per scacciare il tremendo animale.

Il re acconsentì alla richiesta di aiuto, ma, memore del sogno, non volle che vi partecipasse il figlio Ati; quest’ultimo però aveva udito le parole dei Misi e pertanto chiese con insistenza la padre di guidare la schiera di armati. Per dissuaderlo dal suo proposito, Creso gli disse della visione che aveva avuto, ma Ati ribattè che la minaccia di morte proveniva da una punta di ferro e non da un cinghiale che è sprovvisto di tali armi. Convinto dal figlio, Creso diede il suo consenso, ma prima di lasciarlo partire chiese ad Adrasto di vigilare e difendere Ati, in nome della riconoscenza che gli doveva.

E così i due vanno alla ricerca della fiera, in compagnia di una numerosa schiera e di una muta di cani; quando finalmente avvistano e circondano il cinghiale, Adrasto lancia un giavellotto, che, anziché colpire l’animale, raggiunge invece il giovane, che morì sul colpo.

Adrasto, per la disperazione di essere stato l’involontaria causa della morte di Ati, nonostante il perdono di Creso (che riconosce non essere lui il responsabile del luttuoso evento), si uccide sulla tomba dell’amico.

Quanto all’altro figlio di Creso, quello sordo-muto, -del quale non è stato tramandato il nome-, Erodoto torna a parlare di lui più oltre nella sua narrazione (I, 85); lo storico afferma che durante la guerra che il re lidio aveva sostenuto contro i Persiani, questi ultimi erano giunti a Sardi e uno di essi, non avendo riconosciuto Creso, si slanciò verso di lui con l’intenzione di infliggergli un colpo mortale (mentre Ciro aveva dato ordine che gli fosse condotto vivo). Di fronte a questa scena e a causa dello spavento che ne derivò, il ragazzino trovò per la prima volta la voce e gridò: “uomo, non uccidere Creso!”; da allora egli conservò per tutta la durata della sua vita l’uso della parola.

Il culto della dea madre Cibele e di Attis -e qui torniamo al tema centrale della nostra trattazione- era officiato da sacerdoti evirati, chiamati dai Romani “Galli” (è incerto se l’origine del termine sia da attribuire al fatto che la pietra sacra proveniva da un luogo, Pessinunte, che era stato colonizzato da popolazioni celtiche che avevano fatto proprio il culto che si vi praticava; oppure dal nome di un certo Gallos, che, nella versione del mito di Attis data da Arnobio, è il re di Pessinunte di cui Attis avrebbe dovuto sposare la figlia, il quale si era a sua volta automutilato). Costoro, per imitare il sacrificio salvifico di Attis, e per immedesimarsi con lui, si privavano dei loro attributi virili durante una cerimonia che in età classica veniva compiuto durante il ciclo delle feste dedicate a Cibele dal 15 al 28 marzo (quindi in corrispondenza con l’equinozio di primavera).

I primi giorni di questo ciclo festivo, -che era il cuore e il culmine del culto della Grande Madre-, ed iniziava alle idi di marzo -con una cerimonia detta “Canna intrat” (“Entra il giunco”, poiché doveva ricordare che Attus fanciullo era stato esposto nei canneti sulle rive del fiume Gallo)- , erano dedicatial raccoglimento e alla mortificazione (detto “Castus Matris Deum”). Questo periodo, che si può paragonare a una breve quaresima, comportava l’astinenza dal pane e dai cereali (poichè Attis è la spiga recisa -come molte delle divinità redentrici che si sacrificano per la salvezza del mondo e dell’umanità-, mentre i semi commestibili delle graminacee sono sacri alla Grande Madre), nonchè dalla carne, dal pesce e dal vino; inoltre si doveva osservare la più stretta castità.

Il 22 marzo, -giorno detto “Arbor intrat”- si sceglieva un albero di pino in bosco sacro (che probabilmente esisteva accanto a tutti i santuari di Cibele) e lo si tagliava all’alba; indi il tronco veniva avvolto in strisce di lana di colore purpureo e decorato con ghirlande di fiori (soprattutto di viole -che, come abbiamo visto sopra, erano nate dal sangue di Attis versato sul terreno-) e con gli attributi del dio: tamburelli, cimbali, flauti, baculi pastorali, mentre a metà dell’altezza dell’albero si collocava un’immagine di Attis (è forse questa una delle possibili origini dell'”albero di Natale”?).

Dopo aver compiuto queste operazioni, dal bosco sacro si snodava una lunga processione in cui i membri della confraternita dei devoti portavano a turno l’albero che rappresentava Attis, mentre gli altri partecipanti tenendo in mano tede resinose accese e rami di pino, cantavano strazianti inni funebri e si battevano il petto in segno di lutto. Alla fine la processione tornava al tempio e l’albero sacro veniva esposto all’adorazione dei fedeli nel “Campus Matris Deum” che si trovava di fianco all’edificio sacro.

L’esposizione durava per tre giorni, un triduo di lutto, in cui i fedeli, invitati dai sacerdoti, si lamentavano, cantavano nenie funebri, si flagellavano, restando alcuni per tutte le notti a vegliare il corpo del dio morto.

Il giorno nel quale si procedeva alle nuove ordinazioni, con relativa mutilazione (dalle quali però almeno fino al II secolo erano esclusi i cittadini romani, poichè l’evirazione era considerata disdicevole per un “civis romanus”), era il 24 marzo (“dies IX ante Kalendas Apriles”), detto per l’appunto “Sanguinis Dies” (giorno del sangue). Quel giorno era una sorta di “venerdì santo” nel quale si commemorava la morte di Attis: dopo un’estasi violenta, durante la quale sacerdoti e fedeli si fustigavano, si ferivano le braccia e le gambe (10), veniva celebrata la “Katabasis”, la “discesa” o la “sepoltura” di Attis, nel corso della quale un albero di pino, che rappresentava il corpo del dio morto, era portato nella cripta del tempio, dove rimaneva fino all’anno seguente, quando era arso su un rogo appositamente preparato -in una data che non è finora nota-.

Scesa la notte, si dava inizio alla “Pannychis” (la grande veglia notturna), che precedeva la resurrezione di Attis e procurava ai fedeli la compartecipazione ad essa, tramite la quale potevano ottenere la salvezza della loro anima. Il simulacro del dio era deposto ai piedi della Grande Madre su un letto di parata, mentre i fedeli recitavano pie orazioni e intonavano cantici di lamentazione, movendosi in processione all’interno del tempio con torce accese, fino al momento in cui -forse alla mezzanotte o forse all’alba- i preti annunziavano la “Parusia”, il ritorno di Attis vittorioso sulla morte con la formula: “Abbiate fiducia, o misti del dio che si è salvato, poichè anche a voi verrà la salvezza dai dolori del mondo!”. Allora risplendeva una luce in fondo alla navata del tempio e questo era il segno che Attis era risorto; l’Archigallo segnava allora la gola dei fedeli con olio santo e annunziava la Parusia, nella formula indicata, mentre la folla dei fedeli rispondeva in greco: “Noi tutti siamo nella letizia!”.

Il mistero della resurrezione del dio salvatore era solennemente celebrato nel dì seguente, il 25 marzo, la festa degli “Hilaria”, nella quale si esaltava il ritorno della primavera. La principale cerimonia era la processione delle immagini sacre. I principali magistrati della città si recavano al tempio di Cibele su carri di gala. Davanti alla statua della dea si deponevano opere d’arte e oggetti preziosi provenienti dai templi anche degli altri dei e dalle dimore signorili, mentre all’intorno risonava il lieto annunzio “Attis è risuscitato! Evohè!”. Il corteo era preceduto da musici e da cantori che intonavano inni sacri, mentre i sacerdoti e le sacerdotesse, avvolti in candide vesti, con auree corone in capo e portando al braccio un caratteristico braccialetto rigido detto “òccabos”, reggevano verdi fronde e altri simboli del dio. Veniva poi la statua di Cibele, collocata su una maestosa quadriga, sulla quale trovava posto, alla destra della dea, l’immagine di Attis risorto; la quadriga di Cibele era preceduta dalle effigi di altri dei, tra i quali Zeus Ideo, Hermes, Minerva, Dioniso e Silvano, mentre fanciulli e fanciulle, anch’essi vestiti di bianco, spargevano fiori al transito delle statue tra il giubilo dei presenti.

Questo ciclo festivo si concludeva con due celebrazioni, la “Lavatio”, il 27 marzo, e l'”Initium Caiani”, il 28 marzo (11). Durante la prima veniva eseguito un lavacro del carro della dea sul quale la santa immagine era trasportata, nonchè le suppettili usate nei riti.

Nella seconda di queste feste, più importante, avveniva l’ammissione dei neofiti ai misteri di Cibele. Gli iniziandi, preparati da digiuni, mortificazioni e istruzioni religiose, attraverso i riti allora celebrati venivano ad identificarsi in Attis e quindi, partecipando alla sua morte,  ne condividevano anche la resurrezione, ottenendo la vita eterna. Questi riti non sono conosciuti in modo approfondito, poichè erano ufficialmente segreti; quanto se ne sa sono le notizie tramandate da scrittori cristiani quali Clemente d’Alessandria e Firmico Materno.

Le fasi principali del rito dovevano essere una specie di battesimo con il sangue di un ariete sacrificato e l’ingresso in una camera segreta -detta “Pastos”- dopo aver percorso una sorta di labirinto dove erano poste apparizioni terrificanti (o supposte tali) -che doveva simulare l’attraversamento del mondo infero (e tale passaggio era comune a tutti i rituali misterici- e poi un oscuro corridoio. In questa camera il nuovo adepto vedeva due troni: su uno di essi sedeva la dea; sull’altro doveva assidersi egli stesso, che, una volta purificato e trasformato, e dopo che erano stati consegnati i simboli del dio (la tunica e il berretto frigio, il baculo, la fiaccola) era divenuto anch’egli un dio come Attis.

Come si può osservare, il ciclo festivo del culto della “Magna Mater”, ricorda molto la “settimana santa” cristiana, che si conclude nella Pasqua; anche l’ammissione dei nuovi adepti subito dopo la festa degli “Hilaria”, -la “Pasqua” della religione di Cibele e Attis-, ha un parallelo nel cristianesimo antico, in cui il battesimo dei catecumeni (e quindi il loro ingresso a pieno titolo nella “nuova vita”) avveniva nella domenica seguente la Pasqua (detta domenica “in albis”, per la bianca veste indossata dai battezzandi).

Nell’evoluzione della religione della Grande Madre avvenuta in età ellenistica e romana, la primitiva castrazione si spoglia dei suoi aspetti più cruenti per divenire l’espressione di un’alta purezza spirituale, di perfezione e di santità, assumendo così da un lato il significato di “morte iniziatica”, attraverso la quale si accede a una “nuova e vera vita”; dall’altro il simbolo della volontaria rinunzia ai piaceri della carne per entrare nell’unica dimensione dello spirito, come fece Attis che si mutilò per raggiungere la perfezione. Inoltre la nuova condizione dei sacerdoti di Cibele è assimilabile in qualche modo a una primordiale stato di ermafroditismo in cui si trovava l’Essere Cosmico primordiale agli inizi della creazione. In parallelo al rito maschile, anche le donne che si consacravano alla Grande Madre, si recidevano una mammella, o entrambe, -così come si diceva che usavano fare le Amazzoni (12)-.

Questi sacerdoti dopo la consacrazione indossavano lunghe vesti di tipo femminile, simili alla “stola” delle matrone romane, dotate di lunghe e larghe maniche, in gnere di colore giallo o arancio (ma si ha testimonianza anche di tuniche blu o bianche con ornamenti purpurei).

Statua di sacerdote di Cibele.
Statua di sacerdote di Cibele.,

Portavano inoltre degli encolpi ricadenti sul petto, detti “prostethidia”, talora in forma di tempietto, con immagini di Cibele, Attis, Zeus Ideo. Durante le funzioni religiose si mettevano sul capo una mitria, con le infule ricadenti sulle spalle, mentre al di fuori dei riti si coprivano con il berretto frigio a cono con la punta ricadente in avanti. Facevano voto di non tagliarsi mai le chiome, dalle quale però talora recidevano delle ciocche per offrirle alla dea.

Una delle caratteristiche peculiari delle cerimonie dei Galli era il largo impiego della musica -eseguita con gli strumenti che abbiamo citato (flauti, cimbali, campanelli e tamburelli) e quindi con sonorità acute e ritmate, e in genere accompagnata dal canto- e della danza. Quest’ultima era sul tipo del “tripudium”, l’antica danza sacerdotale romana di origine etrusca, in tre tempi, eseguita in particolare dai sacerdoti Salii (i membri di uno dei più antichi sacerdozi romani, consacrati a Marte Gradivo), ma interrotta da bruschi movimenti e oscillazioni circolari sempre più rapide del capo, che si concludevano poi con un moto vorticoso su sè stessi,-che era il culmine della danza- attraverso il quale giungere a una sorta di esaltazione e di stordimento percepito come estasi mistica, come un mezzo per entrare in contatto con la divinità (13)(14).

I Galli facevano ampio uso di pratiche divinatorie e terapeutiche, anche allo scopo di trarne materiale sostentamento, poiché richiedevano delle offerte per le loro prestazioni. Tra le forme di divinazione che praticavano si ricordano in primo luogo gli oracoli che davano in stato di “trance”, che talora veniva favorita dalla discesa in antri dove il suolo emanasse vapori ignei e solforosi, per mezzo dei quali avevano l’ispirazione. Per quanto riguarda l’attività di guaritori, i suoni prodotti dai loro strumenti, in particolare i cimbali e i tamburelli (simili a quelli tuttora in uso nella musica folkloristica turca, persiana e curda), nonché i tamburi veri e propri, avrebbero avuto il potere di allontanate malattie e demoni (si veda al riguardo anche la nota n. 2 della quarta parte della presente ricerca), mentre il loro veloce moto circolare mentre salmodiavano intorno al devoto gli avrebbe assicurato fortuna e salute, nonché la benevolenza degli dei.

Un’altra delle loro operazioni taumaturgiche consisteva nel trasferire le malattie, le disgrazie e gli eventuali malefici subiti dai loro devoti su vestiti e altri oggetti da loro appositamente preparati che venivano poi distrutti: in tal modo si annullavano anche i mali del paziente, sul quale -previa offerta- tornava a posarsi la buona sorte. Ma non disdegnavano neppure la semplice richiesta di elemosine, tanto che venivano pure chiamati “metrargytai”, “mendicanti della Madre” (si ricordi però che anche gli ordini religiosi cattolici fondati nel XIII sec. -quali i francescani e i domenicani sono “ordini mendicanti”).

Il proliferare di codeste pratiche ciarlatanesche aveva pertanto provocato uno scadimento del sacerdozio, tanto che un autore del II secolo come Apuleio, nel suo famoso romanzo “Le metamorfosi” (VIII, 25-31), fa dei Galli -da cui il protagonista, trasformato in asino, per avere ingerito una pozione magica, viene comprato per trasportare sul dorso una statua della dea- un ritratto assai poco edificante: individui astuti e ipocriti, i quali con un’ostentata e finta pietà approfittavano della dabbenaggine dei devoti sinceri per farsi elargire cospicue offerte, che poi dilapidavano per soddisfare i loro sordidi vizi.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) questo poema avrebbe dovuto comprendere 12 libri uno per ciascun mese dell’anno, del quale erano trattati gli eventi astronomici e le festività del calendario romano; ma il poeta compose solo i primi sei libri, per cui l’opera risulta incompiuta.

2) che poi saranno impiegati nel culto della Grande madre e di Cibele. Si noti che tuttora tali strumenti vengono usati nella liturgia delle chiese cristiane che seguono il rito copto.

3) tuttavia secondo altro mitografi, -come Ovidio (Fasti, VI, 649-710)-, il flauto sarebbe stato inventato dalla dea Atena, la quale però specchiandosi in un laghetto mentre gonfiava le gote per sonare lo strumento, trovò l’aspetto del suo viso mentre soffiava in quel modo così poco aggraziato che gettò via la sua invenzione.

4) che segue cioè l’interpretazione dello scrittore Evèmero di Messene (340-260 a. C.), il quale ravvisava negli dei dei vari popoli degli antichissimi civilizzatori o benemeriti dell’umanità, divinizzati dopo la morte dalla riconoscenza dei contemporanei o dei posteri. Egli aveva composto un’opera (“Iερα’ Aναγραφη'”= Sacra Scrittura) dove descrive una società utopica e ugualitaria che sarebbe esistita in alcune isole al sud dell’Arabia, delle quali la principale era l’isola di Panchaia. Qui, secondo Evèmero in una stele posta nel tempio di Zeus Trifilio, era inscritta la narrazione delle gesta compiute da uomini potenti ai quali erano state attribuite natura e prerogative divine ( si veda la nota n. 9 dell’articolo su LE PIETRE SACRE -terza parte-).

5) si veda al riguardo l’articolo citato. In effetti la storia esposta da Diodoro sembra fondere insieme quella di Zagreo ucciso dai Titani nella tradizione orfica e quella di Fetonte, figlio di Helios, il quale mentre guidava il carro che il padre gli aveva incautamente concesso di condurre, fu fulminato da Zeus e cadde nell’Eridano. Si noti che nell’interpretazione razionalizzante di Diodoro Siculo, furono gli umani che chiamarono con i nomi di Helios e di Selene i principali astri, credendo che i due fratelli fossero stati pure loro assunti in cielo.

6) vissuto nel III secolo a. C. Delle sue opere, -tra cui tre libri di elegie dedicati a una certa Leontio-, si sono conservati solo pochi frammenti.

7) altri cinghiali celebri della mitologia sono il cinghiale calidonio, mandato dalla dea Artemide a devastare le campagne di Calidone, in Arcadia, per punire il re Eneo, colpevole di averla dimenticata o trascurata allorché aveva compiuto solenni sacrifici in onore degli dei per mostrare la sua riconoscenza per l’abbondante raccolto e che fu ucciso da Meleagro, figlio di Eneo e di Altea (si vedano al riguardo Omero, Iliade,IX, 529-599; Bacchilide, Epinici, 5, 93 e ss; Biblioteca di Apollodoro, I, 8; Ovidio, Met., VIII, 270-546); e il cinghiale di Erimanto, -monte anch’esso sito in Arcadia-, la cui cattura costituì la quarta fatica di Eracle (si veda Biblioteca di Apollodoro, II, 5; Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 12; ecc.).

8) le novelle sono uno degli elementi caratterizzanti e più riusciti sul piano artistico dei primi libri dell’opera storica di Erdoto: ricordiamo ad esempio la storia di Gige e Candàule (I, 8-12); quella sulla nascita e l’infanzia di Ciro il Grande (I, 108-127); la novella di Rampsìnito (faraone di incerta identificazione, forse Ramses III della XX dinastia) (II, 121); ecc.

9) occorre peraltro sottolineare che già nelle letterature dei popoli del Vicino Oriente antico erano coltivati la novella e il romanzo, sia di carattere realistico che fantastico.  Soprattutto gli Egizi raggiunsero in questi generi validissimi risultati, tanto che vi si ritrovano temi narrativi che torneranno di frequente nella narrativa dei secoli seguenti, fin quasi a i giorni nostri: basti pensare ad esempio al racconto di Sinuhe-forse il più celebre della letteratura dell’antico Egitto-, a quello del naufrago (che presenta punti di contatto con le storie di Sindibàd il marinaio de “Le mille e una notte”), alla storia dei due fratelli Anubi e Bata (con il motivo, divenuto un “topos”, del fratello che, rifiutate le profferte amorose della cognata, viene poi da essa accusato di aver attentato alla sua virtù).

10) si noti che pratiche di flagellazione assai simili a queste sono tuttora in uso (o almeno lo erano fino a tempi recenti) nei riti del venerdì santo celebrati in diversi luoghi, specie nell’Italia e nella Spagna meridionali.

11) il nome con il quale la ricorrenza è citata nel  “Calendario di Filòcalo”, risalente al 345, che riporta tutte festività celebrate nella città di Roma (dove si trovava il più importante tempio di Cibele, che custodiva la famosa “pietra nera”), riferisce al “Caianum” (da “Caius”), altro nome dato al circo di Caligola (Caius Iulius Caesar Germanicus) ove era stato eretto una sorta di “convento” in cui avveniva l’iniziazione degli adepti.

12) da tale costumanza la presunta, ma improbabile etimologia del nome Amazzoni (< A privativo + MAZOS “mammella”), avvalorata anche da Diodoro Siculo (Bibl. Hist. II, 45), il quale sostiene che esse si recidevano la mammella destra per poter meglio imbracciare l’arco e impugnare la lancia.

13) il protratto movimento rotatorio proprio delle danze dei Galli ricorda, a parte il fatto che il loro doveva avere un ritmo molto più intenso ed agitato, la danza mistica eseguita dai cosiddetti “dervisci danzanti” della Turchia, ovvero agli appartenti all’ordine mistico islamico dei “Mawlawiyya” (da “mawlawana” = il nostro maestro), fondato dal poeta mistico persiano (ma stabilitosi a Konya in Turchia) Gialal ad-Din Rumi (1207-1273) (nel quale peraltro l’utilizzo della danza in funzione mistica sembra essere posteriore alla morte del maestro). Quest’ordine, come tutti gli altri esistenti in Turchia, fu sopresso nel 1925; le esibizioni di queste danze alle quali è ancora dato assistere in certi luoghi in Turchia, -e talora anche in altri paesi-, sono eseguite da danzatori professionisti e non hanno nulla in comune con l’ordine religioso (e d’altra parte è chiaro che dei veri mistici non farebbero certo oggetto di esibizione a pagamento gli atti con i quali cercano di conseguire l’estasi mistica).

14) non si confondano le danze mistiche, eseguite allo scopo di entrare in uno stato di esaltazione, tale da dare l’illusione del contatto con la divinità, con le danze sacre e magiche presenti in diverse civiltà e religioni, come quelle che mimano miti, o quelle propiziatorie (ad esempio la celeberrima “danza della pioggia”).

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