LE AMAZZONI, GUERRIERE DELLA LUNA: INVENZIONE O STORIA? -settima parte (la Dea Syria)-

Abbiamo visto che il dio lunare venerato dai Semiti occidentali (Amorrei, Cananei, -i quali si divisero poi nei due rami dei Fenici degli Ebrei-, in seguito anche gli Aramei ed altre stirpi minori), equivalente a Sin -dio lunare dei Semiti orientali- era Yarich: la prima parte di tale nome ricorda molto quella del dio ebraico Yawè (YHWH), il cui nome è citato per la prima volta nella Bibbia allorché apparve a Mosè nel roveto ardente rivelandogli che quello era l’autentico nome di Dio (Esodo, III, 14). L’etimologia di tale appellativo è da ricercare nell’ambito semantico legato al satellite della Terra, visto come presenza e segno divino ed è da considerare una variante di Yarich, del quale è forse un’abbreviazione, cosa che risulta ancora più evidente se si tiene conto che oltre che Yawè, il dio ebraico viene chiamato anche Yah (e che tra l’altro, come avremo modo di approfondire più avanti, era pure il nome di un’antica divinità lunare egizia poi confluita nella figura del dio Khonsu) (1).

Statuetta che raffigura il dio Khonsu.
Statuetta che raffigura il dio Khonsu.

G. R. Driver ritiene Yah la forma più antica del nome, che in principio sarebbe stata un’interiezione usata nei momenti di massima esaltazione mistica durante il culto di tale divinità, -che dunque doveva essere una celebrazione di carattere entusiastico e fanatico (nel senso che questi due termini hanno nella storia della fenomenologia religiosa, simile a quello di Cibele e di Mah)-; la forma Yawè, -o Yahu-, sarebbe un’interiezione seguita da un pronome personale, con valore di “Oh, (è proprio) lui!”.

Ma, -come si diceva sopra-, in Egitto nell’età arcaica era venerato un dio lunare Iah, -termine che peraltro indicava la Luna intesa come astro o disco che appare nel cielo notturno, e in particolare la Luna piena-, e del quale si hanno scarse testimonianze scritte e iconografiche (2), ma il cui culto è comunque attestato da alcuni nomi teofori propri, tra gli altri, di una figlia di Taa (o Tao) I, faraone della XVII dinastia (1650-1552 a. C. circa), -dinastia tebana contemporanea agli ultimi sovrani Hyksos che regnavano ad Avaris, nell’area del delta del Nilo-, chiamata Iah-hotep. Anche il nome del faraone Ahmose (o Ahmosis), -il primo della XVIII dinastia, che ebbe il potere tra il 1552 e il 1526 a. c. circa-, si presume significhi “nato da Iah”.

Stando alle teorie che vedono il termine “Giudei” come derivato dall’Egitto, non possiamo fare a meno di notare l’analogia, e quindi la possibile relazione tra il nome Iah (o Yah) e gli “Yahouds”, a cui si è fatto cenno nella parte precedente di questa dissertazione. La figura di questa divinità astrale si fuse in seguito con quella di un altro dio lunare, Khonsu. Quest’ultimo nella tradizione prevalente faceva parte della “triade tebana”, in qualità di figlio di Amon e di Mut; ma talvolta era anche venerato quale figlio di Hathor, la dea celeste in aspetto bovino legata al pianeta Venere, e di Sobek, il “dio coccodrillo”, oppure di Bastet, la dea gatta, che godeva culto soprattutto nella città di Per-Bast, o in forma ellenizzata Bubastis, che aveva anch’ella valenze lunari (3).

Nelle raffigurazioni Khonsu appare di solito con aspetto infantile, -in particolare la treccia ricadente sul lato sinistro della testa, che nell’antico Egitto era tipica dei bambini, è il suo tratto caratteristico-, tenendo tra le mani il pastorale e il flagello, -gli emblemi della regalità, associati all’autorità dei faraoni-, la croce ansata (“ankh”), simbolo della vita e della divinità, e uno scettro a forma di “zed” (o “djied”), il mistico pilastro osiriaco; talora però il tronco è mummiforme, così che la sua immagine ricorda quella di Osiride, mentre sul capo rifulge il crescente lunare che ne qualifica la natura.

A sua volta nella bassa epoca la figura di Khonsu venne a fondersi con quella di Thot, altra divinità lunare, che però era assimilata all’astro notturno in quanto egli incarnava il principio della misurazione: poiché la Luna, con il periodico alternarsi delle sue fasi scandiva lo scorrere del tempo, dandone quindi la misura, egli divenne il dio della misurazione del tempo, ma poi le sue competenze si estesero a tutti i tipi di misura, e in seguito divenne il dio della scienza e della scrittura e infine della conoscenza e della saggezza nelle forme più alte, trasformandosi in età ellenistica in Ermete Trismegisto (“Tris-Mèghistos” = Tre volte grandissimo), dispensatore della sapienza e della rivelazione salvifica, nonché scopritore e protettore dell’alchimia, al quale furono attribuiti un gran numero di testi di carattere filosofico-religioso, riuniti nel “Corpus Hermeticum”, nonché di svariati altri scritti di argomento astrologico e alchimistico.

In questa veste, ovvero come “alter ego” di Thot, (detto Khons nella pronuncia tarda), fu chiamato pure Thot-Lunus, apparendo quindi simile anche sotto l’aspetto onomastico alle altre divinità lunari maschili che abbiamo citato in precedenza (Sin, Yarich, Men): in pratica sembra che Lunus fosse il nome dato in epoca romana agli dei della Luna (quindi di un astro che Greci e Romani era prettamente legato alla femminilità), che fossero però di sesso maschile.

Il dio Yarich, degli Amorrei e Cananei, riappare come membro della triade o trinità di Palmira, con il nome di Yarhibol, con l’importante differenza però che in questo gruppo di divinità, -che anche in questo caso mostra l’dea di un dio unico che si manifesta in tre persona-, acquista il carattere di dio solare, mentre il carattere di dio lunare passa a un’altra figura divina, Aglibol, il cui nome significa “vitello di Bel”.

Immagine di Aglibol in un rilievo del III secolo proveniente da Palmyra.
Immagine di Aglibol in un rilievo del III secolo proveniente da Palmyra.

Infatti la figura centrale di questa trinità era il dio Bel, denominato anche Bol, -variante aramaica di Baal-, e poi dagli ellenizzati “Zeus Belos”, nel quale confluivano il dio supremo di Babilonia, Bel Marduk, -come conferma che il grande tempio dedicatogli nel 32 (e la cui recente distruzione ad opera del fanatismo pseudoreligioso costituisce una irrimediabile perdita per l’arte e la civiltà) venne consacrato il 6 nisan, -giorno nel quale cadeva l'”Akitu”, il capodanno babilonese, poco prima della pasqua ebraica (il 14 nisan)-,  e il Baal fenicio-cananeo. Nelle opere plastiche in rilevo che sono rimaste, Bel era rappresentato come una figura maschile barbuta e piuttosto anziana, con a fianco Yarhibol, a destra, e Aglibol, alla sua sinistra, entrambi raffigurati con aspetto giovanile e un nimbo di fasci di luce che si irradia dalla loro testa; a testimonianza delle sue attribuzioni lunari dietro la nuca di Aglibol è presente una falce di Luna. Da notare il fatto che i tre dei appaiono abbigliati al modo dei centurioni romani, con la tipica corazza romana, la lorica, il “sagum” (la corta tunica sottostante), il “balteum” (il cinturone), e brandendo la mano sull’impugnatura del “gladium” (o della “spatha”) che tengono stretta al fianco.

Un’altra triade adorata a Palmira, -ma che probabilmente è una variante della precedente-, è costituita da un dio anonimo, che viene invocato come “buono, clemente, misericordioso”, e che forse è il Baal-Shamin, -“Signore dei Cieli”-, e con lo Zeus Hypsistos, a sua volta forma ellenizzata di El, il grande dio supremo di Fenici ed Ebrei (in quanto identificato con Yawhè), al quale sono affiancati Aglibol, il dio-Luna, che nell’iconografia è posto alla destra del dio principale, e Malkbel (il messaggero, o l’angelo, di Bel) che si trova invece alla sinistra, il quale è probabilmente una nuova incarnazione del Shamash assiro-babilonese.

HermAnubis-1
Statua di Hermanubis (il dio greco-egizio in cui si fondevano il greco Hermes e l’egizio Anubi) di età romana. Si notino la falce di Luna e il disco solare sul capo tre le orecchie.

I due celesti Aglibol e Malakbel formavano una coppia di gemelli divini che si diffuse poi in tutto l’Impero Romano e il cui culto è attestato anche a Roma: essi appaiono nell’aspetto, -che potremmo definire “archetipico”-, dei “fratelli santi” e di collaboratori ed esecutori del “dio innominato”, l'”agnostos theos”, che richiamano da un lato le coppie di gemelli divini come i Dioscuri greci, i Palici siculi, gli Ashvini indù, nonché Azizu e Arsu, dei rispettivamente della stella del mattino (Venere orientale -Phosphoros-) e di quella del vespro (Venere occidentale -Hèsperos-), -dei quali abbiamo già parlato-,  di Shahar e Shalim, dei dell’alba e del tramonto, del pantheon cananeo; dall’altro le coppie di santi venerati dal cristianesimo quali Cosma e Damiano, Sergio e Bacco, ecc. In Malakbel in particolare si fondono l’aspetto di divinità astrale, che presiede all’astro datore di vita, e di incarnazione della forza rigenerativa della natura che era presente anche in Tammuz: come quest’ultimo infatti Malkbel è un protettore della flora, della fauna, delle colture e delle greggi.

Yarihbol per parte sua era invece anche un dio oracolare, che emetteva i suoi responsi soprattutto nella sorgente sulfurea di Efqa (ora prosciugata), famosa anche per le sue virtù terapeutiche, sia attraverso i gorgoglii delle acque sia tramite le increspature e i cerchi provocate dal lancio di oggetti nella fonte stessa, che venivano interpretati dai sacerdoti indovini.

Dobbiamo peraltro rilevare che, sebbene nella nostra cultura di derivazione greco-latina sia stato attribuito un carattere maschile al Sole e femminile alla Luna (divenuto archetipico: si pensi al simbolismo astrologico), in effetti in molte delle antiche civiltà e religioni avviene l’inverso, oppure entrambi i luminari, -ovvero i due astri, il Sole e la Luna, che, per quanto diversissimi dal punto di vista astronomico, sono entrambi di capitale importanza per la vita sulla Terra-, sono concepiti come entità maschili; non è raro peraltro il caso in cui le qualità divine solari e lunari siano ripartite tra varie divinità che ne incarnano diversi aspetti e attribuzioni.

Abbiamo visto la dea-Sole Shapash e il dio-Luna Yarich presso i Cananei; Utu e En-Zu presso i Sùmeri; ad essi possiamo aggiungere la “dea del Sole di Arinna” ittita (talora chiamata ella stessa Arinna), alla quale si affiancava, -ma in posizione nettamente inferiore, dato che lo sposo di Arinna era il “Dio della Tempesta”-, il dio lunare Kaskuh, chiamato anche Arma, in particolare presso i Luvi, popolazione affine agli Ittiti, a cui si suppone appartenessero anche gli antichi abitanti di Troia. Nell’affine popolazione dei Churriti, che erano stanziati tra l’Anatolia sud-orientale e la Siria settentrionale, questi dei avevano il corrispettivo in Hèpat, in Teshup (o Teshub), -dio della folgore- e nel dio lunare Kushuh, o Umbu; tra di essi appare anche un dio solare, Shimika, equivalente allo Shamash babilonese, così come nel pantheon ittita si ricorda pure un dio solare figlio di Arinna e di Ishkur -come si ritiene potesse chiamarsi il dio della tempesta- e che veniva designato con i nomi di “Sole del Cielo”, “Sole dell’Acqua” e “Sole della Terra”.

Ma pure presso le antiche popolazioni baltiche la divinità del Sole è incarnata in una figura femminile, Sàule, una meravigliosa fanciulla dalle fluenti chiome dorate, mentre la Luna è un dio, Mènes o Mènulis (nome che ovviamente risale alla radice indoeuropea che abbiamo visto comune a diverse popolazioni per indicare la Luna, sia come astro sia quale divinità, -Mah, Mene, Mona, ecc,-), venerato come sposo di Sàule; e così pure in Giappone dove la dea del Sole è Amaterasu, mentre il dio della Luna si chiama Tsukuyomi.

Nei complessi mitico-religiosi in cui entrambi gli astri sono simbolizzati e venerati come figure maschili, possiamo annoverare Utu (Sole) ed En-Zu (Luna) presso i Sùmeri, ai quali si sostituirono poi rispettivamente Shamash e Sin nella civiltà assiro-babilonese; e i due dei del Sole (Surya) e della Luna (Chandra) della religione indù.

IL TEMPIO DELLA “DEA SYRIA” A HIERAPOLIS

Un esempio in cui figure divine in origine diverse, pure se con alcune affinità, sono confluite sia nelle attribuzioni, sia nel simbolismo, sia nella liturgia e nei sacerdozi è quello della “Dea Syria”, nome con il quale fu conosciuta dai Greci e Romani la dea aramaica Atargatis -nome a sua volta ellenizzato di Atharath, o Attarattè-, il cui culto si diffuse poi nei primi secoli dell’era volgare in molte regioni dell’Impero Romano, favorito dal clima di misticismo sincretistico proprio di quel periodo, sovrapponendosi e mescolandosi spesso con quello di Cibele.

Di questa dea e del culto che si praticava in suo onore in uno dei più importanti templi a lei dedicati, quello sito nella città di Hierapolis Bambyke (4), sulla riva destra dell’Eufrate nella Siria settentrionale, abbiamo un’importante testimonianza in uno scritto di Luciano di Samosata (5). Alcuni critici moderni sono propensi a negare che il famoso scrittore sia l’autore di quest’opera, dato che la serietà e il rispetto, -pur non potendosi definire “devozione”, ma piuttosto rigore di studioso che riporta e descrive quanto ha visto e sentito- con i quali tratta dell’argomento sembrerebbero contrastare con l’intonazione fortemente satirica e grottesca, talora dissacratoria e decisamente “laica”, che contraddistingue la produzione letteraria del nostro. Lo spirito e il tono della narrazione ricordano quelli di Erodoto, anche per la presenza di aneddoti e novelle.450px-Roman_East_50-en_svg2

In questo libro si parla del tempio di Hierapolis come di una grande e venerabile costruzione, ricolma di statue di divinità, -delle quali alcuni semoventi e stillanti lacrime o sudore-, di ex-voto e di ornamenti magnifici; circa l’antichità e l’epoca di fondazione del tempio si davano differenti versioni. Alcuni la riconducevano addirittura a Deucalione, il Noè della mitologia greca, che al tempo del diluvio salvò il genere umano e le stirpi di tutti gli animali su un’arca. Luciano -o chiunque abbia scritto l’opera-, afferma che secondo gli abitanti della regione alla fine del diluvio le acque che ricoprivano il suolo sarebbero state inghiottite da una fenditura apertasi nel terreno, sulla quale Deucalione avrebbe costruito il santuario consacrandolo ad Hera. La fenditura era ancora visibile ai suoi tempi nel sotterraneo del tempio ed in memoria di tale evento due volte all’anno i sacerdoti vi portavano dell’acqua di mare  (il cui trasporto presumibilmente costava notevole fatica, dato che la città di Hierapolis dista parecchio dal mare) ed essa subito scendeva nelle fenditura che, nonostante fosse piuttosto stretta, riusciva ad assorbirne una grande quantità.

Altri invece sostenevano che il venerato edificio sarebbe stato fatto costruire dalla regina Semiramide, che lo consacrò alla dea Derketo (altro nome di Atargatis) (6), che era anche sua madre. Luciano precisa di aver visto in Fenicia un’immagine della dea raffigurata con la parte inferiore del ittiomorfa (ovvero con la coda di pesce) -così come avveniva ad Ascalona in Palestina, dove sorgeva l’altro grande tempio a lei dedicato-, mentre a Hierapolis appariva in forma interamente umana.

Luciano riporta altresì un’altra versione secondo la quale il santuario sarebbe stato costruito da Attis: egli, dopo essersi evirato, -come abbiamo visto in uno dei capitoli precedenti-, ed aver peregrinato a lungo per molte terre, giunto in questo luogo, decise di stabilirvisi e di fondare il tempio in onore di Cibele ( o Rea, come la chiama Luciano, poiché Cibele era stata identificata con la sposa di Crono e madre degli dei olimpici).

Frammento di rilievo proveniente da Dura-Europos con la testa di Atargatis affiancata da due colombe.
Frammento di rilievo proveniente da Dura-Europos con la testa di Atargatis affiancata da due colombe.

A conferma  di tale identificazione si portava la stessa iconografia della dea, rappresentata nel medesimo modo di Cibele, assisa su un carro trainato da leoni, con in capo una corona turrita e un tamburello in mano. Questa versione rende conto del fatto che i sacerdoti della dea Syria, così come quelli di Cibele, erano castrati ed abbigliati in modo femmineo.

Luciano per parte sua mostra di aderire all’opinione di coloro che reputavano il santuario opera di Dioniso, il quale di ritorno dall’India si trattenne alcun tempo in Siria. A conferma di tale attribuzione, secondo lo scrittore, i numerosi oggetti provenienti da paesi esotici, quali vesti strane, gemme indiane e zanne d’elefante che si trovavano in quel luogo e che il semidio, -e poi dio a tutti gli effetti- vi avrebbe portato dall’Etiopia e dall’India (che per Greci e Romani erano vicine).

In effetti però queste discordanti versioni dell’origine del tempio e del culto che vi si praticava mostrano una sovrapposizione di diversi miti e tradizioni religiose; in particolare quelle che ne attribuiscono la fondazione a Semiramide o ad Attis testimoniano la convergenza e poi l’identificazione che si ebbe fin dall’epoca più antica tra l’Attarattè (o Atargatis o Derketo) aramaica e la Kubaba (Cibele) anatolica in un’area dove le influenze delle due civiltà si incontravano e si sovrapponevano (tra l’altro si tenga presente che Kubaba (o Kybebe) era la dea principale e la patrona della città di Karchemish, non lontana da Hierapolis).

Lo scrittore non manca peraltro di sottolineare che l’edificio attuale, -cioè quello che egli visitò-, non era di certo quello originario, che nel corso dei secoli aveva subito distruzioni, rifacimenti e restauri. Quello che lui vide nel II secolo d. C. era stato ricostruito per ordine della regina Stratonice (=”Vittoria sugli eserciti”) agli inizi del III secolo a. C. Era costei la sposa di Seluco I Nicàtore (=Vincitore), uno dei “diadochi” di Alessandro Magno, al quale dopo la morte del condottiero furono assegnate le province, -o meglio le satrapie- più orientali dell’immenso impero che egli aveva conquistato (7).

A quanto Luciano narra, Stratonice una notte fece uno strano sogno nel quale Hera le chiedeva di innalzare un tempio a Hierapolis, ammonendola altresì che, ove la sua richiesta non avesse avuto seguito, ne sarebbero derivate per lei gravi disgrazie. Dapprima la regina non diede importanza al sogno, ma poi essendo caduta ammalata, rivelò al marito la visione avuta e promise solennemente alla dea che l’avrebbe accontentata. Non appena fu guarita, il re Seleuco la mandò nella “Città Santa” con una cospicua somma di denaro, scortata da un numeroso esercito e, fatto chiamare un giovane, il cui nome era Combabo, nel quale riponeva illimitata stima e amicizia, e che era di assai avvenente aspetto, gli chiese di accompagnare la sua sposa e di assumere il comando della spedizione.

Busto di Seleuco I Nicatore.
Busto di Seleuco I Nicatore.

Combabo supplicò il sovrano di dispensarlo da questo incarico, che giudicava superiore alle sue capacità; ma in effetti egli temeva soprattutto la gelosia di Seleuco nei riguardi della leggiadra moglie, che avrebbe potuto rivolgersi contro di lui. Ma questi insistette e allora Combabo pregò il re di accordargli un termine di sette giorni entro i quali egli avrebbe provveduto ad assolvere ad alcuni impegni urgenti.

Ottenuta la dilazione all’inizio del viaggio, in preda allo sconforto, il giovane per prevenire possibili calunnie ed accuse, escogitò questa soluzione: si rese eunuco e mise le parti che aveva reciso da sé in un piccolo scrigno insieme a miele, mirra ed altri aromi che ne impedissero l’imputridimento, indi lo sigillò con il suo anello. Infine, quando la ferita si fu rimarginata, tornò dal re e gli consegnò lo scrigno, dicendogli che conteneva il tesoro a lui più caro, e pregandolo di custodirlo durante la sua assenza.

Dopo di che Stratonice e Combabo partirono per Hierapolis e si misero all’opera per la costruzione del tempio, per la quale occorsero tre anni. Durante questo periodo, accadde quanto Combabo aveva temuto: la regina si invaghì di lui e la sua passione andava sempre più aumentando. All’inizio Stratonice  cercò di nascondere il suo sentimento, ma poi non riuscì più a reprimere il dolore che le provocava quella passione insoddisfatta. Allora pensò un modo per palesare a Combabo l’irrefrenabile sentimento che egli aveva suscitato in lei senza mettere a repentaglio il suo pudore. A tal fine ebbe l’idea di presentarsi nella stanza dell’amato in preda ai fumi del vino così da poter attribuire allo stato di ebbrezza, in cui non era “compos sui”, la sua “dichiarazione d’amore” qualora non fosse stata gradita.

E così fece: confessò a Combabo l’amore ardente che provava per lui, lo supplicò, si gettò alle sue ginocchia, ma tutto fu inutile e il giovane respinse le profferte della donna. Allora minacciò di suicidarsi se egli avesse persistito nel rifiuto; a questo punto Combabo non può fare a meno di dichiarare alla regina che non avrebbe potuto corrispondere pienamente alla sua passione travolgente. Questa confessione placa gli ardori di Stratonice, ma non del tutto: infatti ella continuò a desiderare e a richiedere continuamente la sua compagnia.

Questa relazione, ancorchè platonica, non passa inosservata, e alcuni cortigiani invidiosi tornati dalla Siria a Babilonia (che era in quel tempo la capitale dello stato seleucide) riferirono al re Seleuco della presunta infedeltà dei due. Stratonice a sua volta scrive al marito per accusare Combabo di attentato alla sua virtù. Il monarca adirato convoca allora a corte il suo ex-favorito; questi peraltro, nonostante le testimonianze avverse dei cortigiani invidiosi, ha facilmente modo di dimostrare la sua innocenza. Venuto a sapere del sacrificio compiuto dal giovane, Seleuco non esita a mostrargli la sua riconoscenza ricolmandolo di ricchi doni e condannando a morte i suoi calunniatori.

Un po’ di tempo dopo, su sua richiesta, Combabo si recò di nuovo a Hierapolis dove portò a compimento il tempio, nel quale fu anche collocata una statua di bronzo che lo ritraeva, opera dello scultore Ermolao di Rodi. Si dice pure che alcuni amici di Combabo, per condividere la sua condizione, si evirarono a loro volta; oppure che la stessa Dea Syria abbia ispirato questa idea ad altri, così che il devoto giovane si potesse consolare della privazione. Da questo sarebbe derivato il sacerdozio praticato in questo tempio. Quanto all’abbigliamento femminile dei sacerdoti eunuchi, – anche nel nome (Galli) assimilati da Luciano a quelli di Cibele-, esso viene attribuito a questo fatto: una giovane straniera, venuta a Hierapolis per assistere a una festa, avendo veduto Combabo, -il quale ancora vestiva con abiti maschili-, rapita dalla sua bellezza, se ne innamorò; ma poi, saputo che egli era eunuco, per la disperazione si diede la morte. Afflitto da tale luttuoso evento, onde in futuro non si ripetessero simili disgrazie, il giovane decise da allora in avanti di vestirsi da donna.

Luciano descrive poi con dovizia di particolari i tempio e il culto che vi si pratica. Egli afferma che l’edifico per forma e struttura richiama quelli della Ionia (e per quanto non lo dica espressamente è lecito pensare soprattutto al santuario di Efeso). Esso si eleva da un basamento alto due cubiti l’ingresso è rivolto ad oriente e vi si accede per mezzo di una scala di pietra non molto larga. Le porte sono d’oro e anche l’interno sfavilla del prezioso metallo, oltre che essere soffuso di deliziosi effluvi, come quelli che si dice pervadano le terre d’Arabia. Il tempio consta di diversi recinti nel più riposto del quale l’accesso è consentito solo ai sacerdoti di più alto grado.

Nel “sancta sanctorum” si trovano anche le venerate statue di Hera e Zeus (lo scrittore usa i nomi di divinità greche, precisando però che là sono adorati con altri noi)(8): la dea è rappresentata assisa su un trono affiancato da due leoni, con una corona turrita dalla quale si diparte una raggiera splendente; in una mano tiene uno scettro e in un’altra una conocchia. Le sue vesti dorate sono costellate di pietre preziose, quali onici, giacinti e smeraldi che le vengono offerti in dono da pellegrini provenienti dai luoghi più lontani dall’Egitto, dall’Etiopia, dall’India, dall’Assiria, dalla Media, dall’Armenia…

Ma la cosa più meravigliosa è un diamante che la statua porta sulla testa e che viene chiamato “la lampada”: infatti durante la notte questa gemma irradia un chiarore così intenso che il tempio intero ne è illuminato come da molte torce accese. Ma un’altra meraviglia di questa statua eccezionale è la seguente: se la si guarda in viso, essa a sua volta si volge all’osservatore e se questi si allontana ne segue lo sguardo; e se più persone fanno l’esperimento in diversi punti del tempio, la statua segue ciascuna di esse (9).

Lo scrittore dice ancora che tra le due statue di Hera e Zeus (o per meglio dire di Atargatis-Derketo e di Hadad) era posto un altro simulacro, sulla cui identificazione i pareri dei fedeli erano discordi -ma che comunque doveva raffigurare uno dei personaggi legati alla storia del tempio-; Luciano ritiene che si tratti di Semiramide, la leggendaria regina d’Assiria, che sarebbe stata figlia della Dea Syria, a motivo della colomba d’oro posta sul suo capo: infatti ella sarebbe stata nutrita nel deserto dalle colombe -uccelli sacri alle divinità siro-fenice della maternità e della fecondità (e che in Grecia fu attribuita ad Afrodite)-, quando la madre si gettò in un lago per disperazione e si mutò in divinità pisciforme, -tranne la testa, il busto e le braccia- (10). Questa statue due volta all’anno veniva condotta al mare quando vi si andava a rifornirsi dell’acqua occorrente per il rito di rievocazione del diluvio di cui si è detto sopra.

Ma nel santuario trovavano posto numerose altre immagini di divinità, salvo quelle del Sole e della Luna, a cagione del fatto che essi, a differenza degli altri numi, si mostrano continuamente agli occhi di tutti quando sfavillano nel cielo e non vi è dunque necessità di raffigurali con simulacri artefatti.

Tra le immagine divine si segnala, al dire dello scrittore, quella di Apollo assiso in trono, il quale diversamente dalle rappresentazioni che di solito se ne facevano in forme giovanile, aveva l’aspetto grave di un uomo anziano e barbuto. Questa statua di Apollo aveva la particolarità di dare oracoli di propria iniziativa: allorché intendeva manifestare il suo volere, cominciava ad agitarsi sul trono; i sacerdoti lo sollevavano e lo trasportavano sulle spalle di qua e di là fino al punto del tempio ove  mostrava di volersi fermare. Allora gli si avvicinava il sommo sacerdote ponendogli vari quesiti: se il responso era negativo, egli arretrava, se era positivo faceva avanzare i portatori come se li guidasse per mezzo di redini (11).

CONTINUERA’ NELL’OTTAVA PARTE

Note

1) si tenga presente che nelle lingue semitiche si scrivono solo alcune vocali lunghe, mentre le altre non vengono segnate, per cui se non si conosce la lingua è difficile stabilire l’esatta pronuncia di un termine.

2) si trovano riferimenti al dio nel “papiro di Ani” (“O Primo, luminoso come la Luna-dio Iah! O Primo, o lucente come Iah…”); e nel “papiro di Auf-ankh (o Ef-ankh)” (“O unico, splendente della Luna! Possa tu uscire tra la moltitudine…”). Il papiro di Ani, lungo 23,7 metri, cosiddetto dal nome dello scriba che lo compose, risalente alla fine della XVIII dinasti, fu trovato nel 1888 ed è conservato al British Museum di Londra, contiene precetti tolti dal “Libro dei Morti” e dai “Testi delle Piramidi”; il papiro di Auf-ankh fu scritto in età tarda, saitica o forse tolemaica, è lungo m19,12 ed è custodito al Museo Egizio di Torino.

3) la dea Bastet era figlia di Ra, dio del Sole, e sorella della dea leonessa Sekhmet: mente quest’ultima incarnava la calura sferzante del Sole meridiano nel pieno dell’estate, la dea gatta era l’espressione del tepore vivificante del Sole primaverile e mattutino, assumendo pure un simbolismo lunare, tanto che dai Greci fu assimilata ad Artemide. Si deve peraltro osservare che il culto per questa divinità e di conseguenza la considerazione per i gatti, animali a lei sacri, aumentarono alquanto nella Bassa Epoca e poi nell’età tolemaica e romana, quando la sua figura e il suo culto assorbirono quelli di Sekhmet e di altre dee leonesse, quali Pakhet e Mafdet.

4) nell’antichità nell’Anatolia ed in Siria vi erano diverse città che portavano il nome di “Hierapolis” (= Città Santa), così chiamate perché sede di qualche famoso santuario. Tra le più celebri, oltre a quella di cui stiamo parlando, vi era Hierapolis in Frigia, presso l’odierna Pamukkale, una località dove pure si venerava la Grande Madre degli Dei e altre divinità, quali Apollo Archegetes (“che porta il principio” = fondatore) e che era, -ed è tuttora-, ricca di sorgenti termali, ma ben nota anche per una misteriosa grotta, chiamata “Plutonion” o “Charoneion” (dai noni di Plutone e di Caronte), che, causa delle esalazioni mefitiche era ritenuta essere una delle porte di ingresso agli Inferi. Il più antico nome aramaico della città era Mabog, -come è attestato da Plinio il Vecchio (Nat. Historia, V, 81), nome che evidentemente non fu mai del tutto abbandonato nell’uso locale, poiché rivive in quello (Mambij) della cittadina che sorge attualmente nel luogo ove si trovava la “città santa”.

5) la città di Samosata, donde proveniva Luciano, non era lontana da Hierapolis, sebbene si trovasse nella regione della Commagene,-della quale era anzi il capoluogo-, mentre la “Città Santa” era sita nella subregione della Cirrestica (così detta dalla citta di Cyrrhus. La Commagene fu sede di un piccolo regno tributario degli Assiri, chiamato Kummukhi, che si ricostituì nel 162 a. C. sotto una dinastia indigena, resasi indipendente dal regno seleucide di Siria, e durò fino al 72, quando fu annessa alla provincia romana di Siria.

6) l’origine del nome “Derketo”, -che si trova solo presso gli autori greci e latini- e incerta; tuttavia la seconda parte (“-keto”) è probabilmente da mettere in relazione con il greco “ketos” =grande pesce, cetaceo (termine che deriva da questo), ed esprime quindi l’aspetto pisciforme della dea.

7) Stratonice, figlia di Demetrio Poliorcete e di Fila, aveva sposato Seleuco vedovo della prima moglie, Apama, -nonostante questi avesse un’età assai più avanzata di lei (almeno  anni in più, forse 40)-. In seguito però accadde che Antioco, il figlio che Seleuco aveva avuto dal precedente matrimonio, si innamorò della matrigna: per questo il padre sciolse la propria unione con Stratonice e acconsentì a che la sua ex-consorte sposasse suo figlio (che gli successe poi nel regno nel 281 a.C.).

8) nell’antica religione aramaica lo sposo di Ataratteh-Atargatis era Hadad, dio del cielo e della folgore, poi identificato con Zeus, rappresentato di solito stante sopra un toro e armato di un’ascia bipenne. Nel tempio di Ascalona, nel territorio filisteo, dove la dea era sempre rappresentata in aspetto pisciforme, formava una coppia divina con Dagon, altro dio celeste, che veniva anch’egli di solito raffigurato con coda di pesce (come Tritone, figlio di Poseidone e di Anfìtrite nella mitologia classica). Dagon era un’antica divinità cananea, già presente nel pantheon di Ugarit, che divenne anche il dio supremo dei Filistei, quando essi acquisirono la religione e i costumi cananei.

9) il testo sembra piuttosto contraddittorio, o forse l’autore non si è espresso con sufficiente chiarezza: da quanto detto in precedenza, sembrerebbe che le statue si trovassero nella parte segreta del tempio accessibile solo agli alti sacerdoti, mentre la descrizione fattane lascia supporre che esse fossero visibili a tutti i fedeli.

10) secondo il racconto fatto da Diodoro Siculo nella Biblioteca Storica  (II, 4) Derketo per aver offeso Afrodite fu unita dalla dea che le ispirò una irrefrenabile passione per un giovane siriaco. Dal colpevole amore tra i due nacque una figlia, ma vergognandosi dell’illecita relazione, Derketo abbandonò la neonata in un deserto e si gettò in un lago nei pressi di Ascalona dove venne trasformata in pesce. La pargoletta fu allevata dalle colombe che la nutrivano portandole nel becco sorsi di latte che rubavano ai pastori e ai bovari quado essi dalle loro capanne e la riscaldavano coprendola con le ali. Un giorno, -come sempre accade agli infanti abbandonati della leggenda e della mitologia-, la fanciullina fu invenuta da alcuni pastori che la consegnarono al sovrintendente delle mandrie reali, un certo Simmias, il quale la tenne come figlia propria dandole il nome di Semiramide, nome che, -a detta di Diodoro Siculo-, significa “colomba” -secondo l’erudito e orientalista francese Samuel Bochart (1599-1667) tale nome deriverebbe dal siriaco “sera” =montagna e “hama” =colomba-. Si ritiene che nella figura della regina assira, leggendaria fondatrice di Babilonia, -che approfondiremo in un futuro articolo-, sia adombrata la regina Shammuramat, moglie di Shamsi-Adad V, re di Assiria dall’823 all’810, e madre di Adad-Nirari III. Poiché quando salì al trono il figlio era ancora in tenera età, ella governò in suo nome dall’809 all’806.

11) si tenga presente che la consultazione degli oracoli non aveva finalità divinatoria, di previsione del futuro, ma mirava a conoscere la volontà degli dei e in particolare se essi approvassero o meno quanto intendeva fare il consultante.

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