L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -prima parte-

Com’è noto, della presenza di un bue e di un asino nel luogo della natività di Cristo non si fa cenno nei vangeli canonici. Pur tuttavia essi appaiono fin dalle prime rappresentazioni di questo episodio, ovvero fin dal IV secolo (1), per cui se ne deve dedurre che esistesse una tradizione extra-canonica nella quale era ricordata la partecipazione di bue e asino all’evento prodigioso.

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Immagine della natività con Bue e Asino in un sarcofago del IV sec. nella chiesa di S. Pietro a Boville Ernica (Fr).

Nel vasto campo dei testi extra-canonici che trattano in vario modo della figura di Gesù Cristo, della sua vita, dei suoi discepoli e della sua dottrina (o per meglio dire delle sue dottrine, poiché anche solo limitandosi ai vangeli canonici, emergono un gran numero di punti oscuri, di incoerenze e contraddizioni, dei quali non trattiamo in questa sede -ma che forse prenderemo in esame in futuro-), -ovvero gli apocrifi del Nuovo Testamento-, l’unico che parli espressamente del bue e dell’asino è il “Vangelo dello Pseudo-Matteo”. Esso a sua volta è collocato dagli studiosi nel gruppo dei cosiddetti “vangeli dell’infanzia”, che trattano sia delle vicende anteriori  alla nascita di Gesù (e relative ad Elisabetta, Anna, Gioacchino -genitori di Maria-, ecc.), sia della nascita di quest’ultimo e di episodi della sua infanzia e adolescenza, integrando così le scarne notizie che danno i vangeli canonici circa tali eventi e periodi della vita del protagonista. I più importanti e interessanti vangeli dell’infanzia sono il “Protovangelo di Giacomo”, l'”Evangelo dell’infanzia di Tommaso”, l'”Evangelo armeno dell’infanzia”, l'”Evangelo arabo dell’infanzia” e il già citato “Evangelo dello Pseudo-Matteo”, che è quello più pertinente alla nostra trattazione.

In effetti il titolo con cui questo evangelo è stato tramandato nei manoscritti latini attraverso i quali è noto è “Liber de Nativitate Beatae Mariae et de Infantia Salvatoris”; il nome con il quale viene ora di solito designato gli fu attribuito nell’800 dal celebre teologo e filologo Kostantin von Tischendorf (1815-1874), lo scopritore del “Codex Sinaiticus” della Bibbia, a cagione del fatto che esso viene citato in una lettera, anch’essa apocrifa, di S. Gerolamo, che in alcuni manoscritti viene premessa al testo. In essa si afferma, in polemica con i molti scritti erronei e dannosi che circolavano sull’argomento, che questo testo costituiva la vera narrazione di Matteo (per quanto essa non sia entrata nel vangelo canonico attribuito all’apostolo).

L’epoca alla quale risale questo evangelo, almeno nella redazione giunta fino a noi, è ritenuta non anteriore al VI secolo; ma esso è probabilmente una traduzione o una rielaborazione di un testo precedente, e comunque attinge a fonti assai anteriori, come è dimostrato dal fatto che la maggior parte degli episodi narrati si ritrovano pure in altri “evangeli dell’infanzia”, in specie il “Protovangelo di Giacomo” e l'”Evangelo dell’infanzia di Tommaso, filosofo israelita” (2), le cui prime redazioni greche risalgono al II secolo. Pertanto il particolare del bue e dell’asino non è stato certamente aggiunto dall’autore dello scritto, chiunque egli fosse, ma risale ad una tradizione consolidata e assai antica, come è confermato dalla presenza dei due animali nella scena della natività fin dalla sue prime attestazioni in alcuni rilievi su sarcofagi risalenti al IV secolo, vale a dire al periodo in cui fu introdotta la festa liturgica del Natale di NSGC. Tale festa venne a sovrapporsi e a sostituire il “Dies Natalis Solis Invicti” -o meglio ne fu la cristianizzazione-, ad opera di papa Giulio I (337-352), o comunque sotto il suo pontificato, e la sua celebrazione appare già ufficializzata nel “Cronografo Romano” del 354 (di tale testo abbiamo parlato nella sesta parte della trattazione sui più antichi codici miniati).

Si ritiene inoltre che i testi originali più antichi siano stati successivamente “purgati” da elementi considerati eretici, in particolare gnostici e docetistici (3), dei quali peraltro rimangono tracce, soprattutto nel “Protovangelo di Giacomo”, tanto che nelle chiese occidentali questo scritto fu condannato come eretico, mentre in oriente ebbe un ampio utilizzo non solo in ambito devozionale, ma pure come testo liturgico.bue asinello

Leggiamo infatti che dalla grotta ove il divino infante viene partorito emana una luce sfolgorante che si diffonde all’intorno illuminando il luogo sia di giorno, sia di notte; nel momento della nascita di Gesù l’intero Cosmo sospende il suo incessante fluire, con grande stupore di Giuseppe: gli uccelli rimangono immobili nel cielo, degli operai che stavano consumando una parca refezione smettono di masticare e di portare il cibo alla bocca; un gregge di pecore che avanzava si ferma e il pastore che cerca di spingerle innanzi col bastone rimane con la mano a mezz’aria; un fiume arresta il suo corso e alcuni capretti che vi si stavano abbeverando toccavano con la bocca il pelo dell’acqua ma senza inghiottirla; poi tutte le cose ripresero il loro corso (è questa la cosiddetta “Visio Joseph” nel “Protovangelo di Giacomo”); alla levatrice Salomè, giunta ad assistere la partoriente, che non credendo alla nascita partenogenetica, vuole effettuare un’ispezione ostetrica, per punizione viene arsa la mano sacrilega.

In seguito il piccolo Gesù, già in età assai tenera (5 o 6 anni) compie diversi miracoli, tra i quali guarigioni ed esorcismi (ricordiamo per il suo afflato poetico quello dei dodici uccellini di creta, che di fronte alle rimostranze rancorose degli ebrei ortodossi che gli rimproverano di aver violato la sacralità del sabato, a un battito delle sue mani se ne volano via). Egli dimostra fin da precoce età una dottrina vasta e profonda, tale da confondere i suoi maestri, il suo precettore Zaccheo, al quale era stato affidato per apprendere le lettere greche ed ebraiche, al quale insegna la disposizione, i tratti e i significati delle lettere dell’alfabeto greco, così che il maestro è costretto a riconoscere che il suo discepolo ne sa ben più di lui (4)(5).

Secondo i vangeli canonici, Gesù non manifestò mai in alcun modo, o per meglio dire non viene mai affermato in modo esplicito che abbia manifestato, -né con miracoli, né con conoscenze eccezionali, segrete, o comunque di gran lunga superiori a quello che ci si poteva attendere dalla sua età e dalla modesta istruzione che aveva ricevuto-, la sua natura divina prima dell’inizio della sua vita pubblica e della sua predicazione che sarebbero avvenute all’età di trenta anni.

Tornando ai nostri animali, nel testo dello “Pseudo-Matteo” (XIV, 1) così si dice: “Tre giorni dopo la nascita di NSGC, la beatissima madre uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, depose il bambino in una mangiatoia, ove il bue e l’asino lo adorarono. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Isaia con le parole: -Il bue riconobbe il suo padrone, e l’asino la mangiatoia del suo signore-. Gli stessi animali lo tenevano tra di loro e di continuo lo adoravano. Si adempì allora quanto detto dal profeta Abacuc, con le parole: -Ti farai conoscere in mezzo a due animali-. Giuseppe e Maria rimasero nello stesso luogo per tre giorni”.

Scena della natività su un sarcofago conservato nel Duomo di Mantova.
Scena della natività su un sarcofago del IV secolo conservato nel Duomo di Mantova.

La presenza del Bue e dell’Asino, che mostrano di riconoscere immediatamente la divinità del fanciullo, è giustificata dall’autore dello scritto con la citazione di due profezie bibliche, la prima tratta da Isaia, I, 3, la seconda dalle profezie di Abacuc, -di cui però, almeno nelle forma citata dal nostro, non vi è traccia nel libro biblico-.

Da notare che nel prosieguo della narrazione si dice  (XIX, 2) che durante la fuga in Egitto buoi e asini procedevano insieme alla sacra famiglia, e con essi vari animali, non solo pecore e capre, ma pure bestie feroci, quali leoni, leopardi e lupi, venuti anch’essi ad adorare il bambino, i quali non solo non molestavano gli animali da soma e le greggi, ma facevano loro da scorta e da guida.

Oltre che nel testo in esame, il Bue e l’Asino sono citati anche nel “Liber de Nativitate Mariae”, altro vangelo dell’infanzia, giunto però in un redazione latina assai tarda, non anteriore all’VIII-IX secolo, -e che è un probabile riassunto dei primi 25 capitoli dello “Pseudo-Matteo”-; nonché nel “Liber de Infantia Salvatoris”, la cui più antica redazione si trova nel “Codice Arundel” 404, del XIV secolo, ma considerato una variante del “Protovangelo di Giacomo”, risalente al II secolo (nel quale tuttavia non si parla del bue e dell’asino). In quest’ultimo si dice che il terzo giorno dopo la nascita di Gesù i due animali si trovavano genuflessi davanti al divino infante, intenti ad adorarlo con encomiabile fervore. Pure qui si adducono a giustificazione dell’evento le profezie di Isaia e di Ababcuc, precisando inoltre che il Bue e l’Asino si trattennero per tre giorni con il bambino.

In effetti bue ed asino (o talora buoi e asini) risultano essere citati insieme nell’A. T. per undici volte. Tra i passi in questione, possiamo ricordare: nel Deuteronomio -che in pratica è un codice di precetti morali e religiosi e di norme giuridiche civile e penali, e si può considerare un ampliamento e un’esegesi del decalogo mosaico-, XXII, 10 si proibisce di arare con un bue e un asino aggiogati insieme; nel “Libro di Giobbe”, XXIV, 3 troviamo: “[ I malvagi]… portano via l’asino agli orfani, requisiscono il bue alla vedova”; ancora in Isaia (XXXII, 20): “Beati voi che seminerete in riva a qualsivoglia rivo/ e che lascerete in libertà buoi e asini” (nel senso che nella futura rinnovata età dell’oro, non occorrerà lavorare la terra con l’ausilio gli animali) (6).

In linea di massima sembra che l’accostamento sia solo dovuto al fatto che entrambi gli animali erano adibiti ai lavori agricoli e dunque erano spesso associati. Per quanto riguarda la proibizione espressa nel passo del Duteronomio, essa rientra in un generale “tabu di commistione” che vieta di unire o accostare cose di genere diverso: quando si opera una mescolanza si viene meno al principio di distinzione e di separazione che ispira le norme di purezza e impurità e si rischia di tornare allo stato del caos iniziale, distruggendo l’ordine cosmico. Per questa ragione nel medesimo libro biblico si prescrive di non seminare nello stesso campo semi diversi, e di non produrre e non indossare vesti confezionate con tessuti derivanti da più di una fibra, -come di lana e di lino-. Il “tabu di commistione” si ritrova in gruppi umani e culture religiose di varie epoche e continenti -se ne trovano tracce anche pressi gli Etruschi e i Romani, ad esempio nel divieto di innestare e di mescolare coltivazioni di piante diverse (si veda al riguardo Plinio il Vecchio, Nat, Hist., XV, 57)-.

Possiamo dunque concludere che nell’AT e nella tradizione ebraica in genere non vi sia un particolare simbolismo legato al Bue e all’Asino, a differenza di quanto avveniva per le civiltà mesopotamiche e anatoliche, e ancor più quella egizia dove ai due animali, specie al primo, era invece assegnata un’importante valenza sia come attributo, sia talora come incarnazione di divinità. O per meglio dire anche presso gli Ebrei si riscontra l’importanza del toro o del bue nella rappresentazione del divino, che però secondo l’interpretazione ortodossa (vedi quanto abbiamo detto al riguardo nella parte sesta dell’articolo su LE AMAZZONI GUERRIERE DELLA LUNA) derivò solo da uno stravolgimento, da una corruzione del puro jahwismo israelitico dovuto all’influenza dell’idolatria praticata da popoli circonvicini.

Celeberrimo è l’episodio narrato nell’Esodo, XXXII, 1-6, nel quale Aronne, il fratello e principale collaboratore di Mosè, mente quest’ultimo si trovava sulla vetta del monte Horeb per ricevere le “tavole della legge”, fece fondere un vitello d’oro, che offrì al popolo festante come immagine del loro dio, che li aveva liberati e ne guidava il cammino. Secondo il libro biblico, il condottiero egizio-israelita si adirò alquanto quando vide il popolo che egli stava tentando di plasmare con le sue concezioni e la sua forte personalità venerare un simulacro divino simile a quelli egizi, poiché voleva creare una nazione che si distinguesse da tutte le altre, in cui il divino si incarnava solo nelle strutture sociali e politiche che egli intendeva dargli.

Ma in effetti  è più che probabile che questa parte della narrazione risalga all’epoca in cui i testi del Pentateuco furono redatti, vale a dire nell’epoca successiva all’esilio babilonese, nel V secolo a. C., quando il giudaismo acquisì la sua fisionomia rigidamente monolatrica e jahwistica; infatti risulta chiaramente dagli stessi testi biblici (per quanto essi la presentino in modo negativo) che l’idea e l’immagine del dio d’Israele come “toro celeste” era normale e corrente sia nel periodo dei Giudici, sia in quello della monarchia. Dal primo libro dei Re (X, 18-20) apprendiamo che il trono di Salomone era decorato con protomi taurine poste sullo schienale che simboleggiavano la protezione divina, mente nello stesso libro (XII, 28-32) si ricorda che il re Geroboamo, allorché dopo la morte di Salomone fu sancita la separazione del regno di Israele da quello di Giuda, -nel 930 circa-, stabilì di far fondere due torelli d’oro e disse al popolo: “Non salirete più a Gerusalemme! Israele ecco il tuo dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!”. Quindi ne collocò uno a Bethel (che significa “Casa di Dio”) e l’altro a Dan.

Il toro presso le popolazioni del Vicino Oriente era per eccellenza il simbolo e l’incarnazione della maestà dei grandi dei del Cielo, specie quando connessi al fulmine, al tuono e alla tempesta, emblema della forza benefica, ma pure tremenda della Natura. Hadad aramaico e siriaco era raffigurato stante sopra un toro, e così pure il Teshub (o Teshup) hurrita e ittita, il quale talvolta prendeva egli stesso l’aspetto di un toro, mentre in altre rappresentazioni appariva su un carro trainato da due tori, chiamati Serish e Hurrish (il “Giorno” e la “Notte”).

Rilievo raffigurante Teshub stante su un toro.
Rilievo raffigurante Teshub stante su un toro.

Attributi costanti di queste divinità, che brandivano come loro armi principali -così come lo Zeus greco, con il quale furono poi identificati-, erano le folgori, che brandivano come loro arma principale, oltre che simbolo del loro potere e della loro maestà divina; ad esse si accompagnavo di solito l’ascia, spesso bipenne, e la mazza ferrata. Ma pure EL, il sommo nume semitico, identificato o equiparato con lo Iawhè ebraico, oltre che con Baal- Shamin, dio del Cielo, – e chiamato anche Zeus Hypsistos in età ellenistica e romana (“Dio Altissimo”) era invocato con l’abituale appellativo di “Toro misericordioso”, appellativo che, coma abbiano detto sopra, era proprio anche del dio ebraico.

Abbiamo visto, trattando della Dea Syria ( “Le Amazzoni guerriere della Luna” settima parte)) che nella statua d’oro che lo rappresentava posta nel tempio di Hierapolis Bambyke, accanto a quella della dea, Zeus -Zeus Adados come lo chiamavano gli ellenizzati- era regalmente assiso su un trono sostenuto da possenti tori (Luciano, De Dea Syria, 31). Ma ancora più significativa ai fini delle nostra ricerca è l’iconografia di Jupiter Dolichenus, spesso, -pur se non sempre- raffigurato stante sopra un imponente bovino, poiché la sua paredra, Iuno Regina -o Iuno Dolichena-, ovviamente un’altra incarnazione, o per meglio dire denominazione della Grande Madre divina, era a sua volta rappresentata sopra un asino, molte volte in coppia con il compagno, l’uno a destra e l’altra a sinistra (Juppiter a sinistra dell’osservatore e Iuno a destra) in un quadretto in cui i due animali appaiono affrontati; ma su questo torneremo in seguito.

Jupiter Dolichenus prese il nome dalla città di Doliche, nella Commagene (compresa nell’attuale Turchia sud-orientale), ed era una forma locale dell’antico dio hurrita Teshub a cui si era sovrapposto il consimile dio siriaco Hadad. Il suo culto si affermò nell’Impero Romano soprattutto dal II secolo ed ebbe particolare diffusione sotto la dinastia dei Severi, dai quali sembra sia stato protetto; è attestato per la prima volta al di fuori dell’area siro-anatolica di origine in un’iscrizione su di un’ara rinvenuta a Lambaesis in Numidia (nell’odierna Algeria) risalente al 125 a. C. dedicata al dio da un comandante romano.

Jupier Dolichenus e Iuno Regina in un rilevo del III secolo.
Jupier Dolichenus e Iuno Regina stanti rispettivamente sopra un toro e sopra un asino in un rilievo del III secolo.

A Roma si hanno testimonianze del culto di tale divinità a partire dal regno di Marco Aurelio (161-180), ma aumentò enormemente sotto i suoi successori, tanto che nella capitale dell’impero sembra che al dio orientale e alla sua paredra fossero consacrati non meno di 19 templi.

Juppiter Dolichenus era venerato soprattutto  dai militari (tanto che egli era quasi sempre effigiato in veste di centurione romano, con la lorica), tanto da fare concorrenza a Mitra, anch’esso assai popolare tra i legionari: ed infatti luoghi di culto a lui consacrati e rappresentazioni plastiche (in genere rilievi, molto raramente sculture a tutto tondo) sono stati rinvenuti nei moderni scavi archeologici soprattutto in aree di confine (e segnatamente il “limes” renano-danubiano) dove erano dislocate le legioni romane in difesa dell’Impero (Germania, Norico, Pannonia, Dacia).

Anche in Egitto i bovini rivestivano notevole importanza nella religione, ma a differenza di quanto accadeva nell’area siro-palestinese e mesopotamica, essi non solo erano associati nel simbolismo e nell’iconografia agli dei, ma talora animali veri e vivi erano venerati come incarnazione terrena della divinità. I più conosciuti tori sacri dell’Egitto sono: Apis -il più famoso-; Merwer -o Mnevis-; Buchis e Bata.

Di Apis sappiamo che fu oggetto di venerazione fin dalle età più antiche, ed è citato e raffigurato già in monumenti risalenti alla IV dinastia (2625-2510 a. C. circa)-quella a cui appartennero Cheope e Chefren-, come ad esempio nei “Testi delle Piramidi”; ma fu soprattutto durante il “Nuovo Regno” -o “Nuovo Impero”- (1552-1069 a. C. circa) che divenne una delle divinità più importanti e tale rimase anche nelle epoche successive, fino alla fine delle religioni “pagane” nel IV secolo.

Il bue Api.
Il bue Api.

Questo toro era ritenuto un’incarnazione di Ptah, il dio supremo di Menfi, identificato dai Greci con Efèsto e  dai Romani con Vulcano, per le sue caratteristiche di dio artefice e patrono degli artigiani, rappresentato con aspetto mummiforme (7); ma dalla fine del Nuovo Regno Apis fu assimilato sempre più anche ad Osiride, così che le due figure divine si fusero in Osirapis e nel periodo romano, quando ormai la religione egizia era incentrata solo sulle figure di Osiride, Iside e le divinità minori ad esse legate nel mito e nel significato simbolico ad esse attribuito (ossia a quella che in antico era la “teologia eliopolitana”), divenne a tutti gli effetti un’incarnazione di Osiride.

I Greci quando conobbero la civiltà e la religione egizie, lo identificarono in Epafo, il figlio che Io, figlia di Inaco, tramutata in giovenca da Zeus; ella, dopo una lunga peregrinazione durante la quale era incessantemente tormentata da un fastidioso tafano mandatole come castigo dalla gelosa Hera, giunta in Egitto vi si fermò e partorì suo figlio (8); ma Claudio Eliano, -che scrisse nel II secolo d. C.-, precisa che gli Egiziani respingevano tale identificazione sostenendo che Api esisteva già molti secoli prima di Epafo.  Erodoto -che ne parla in Storie, II, 153 e III, 28-, afferma che secondo gli Egiziani il divino vitello viene concepito da una mucca illibata per mezzo di un fascio di luce che si posa su di lei (quindi una “immacolata concezione”). Allorché un bue Api moriva (o di morte naturale, o perché, secondo quanto asseriscono altri autori, superata un certa età sarebbe stato ucciso dai sacerdoti, che dunque l’avrebbero considerato un dio “a tempo determinato”), subito si dava inizio in tutto l’Egitto alle ricerche per trovare il successore.apis-segreto Questi, secondo quanto riferisce lo storico greco, oltre a essere interamente nero, doveva avere alcuni segni particolari: un quadratino bianco sulla fronte, l’immagine di un’aquila sul dorso, i peli della coda doppi e sotto la lingua una sorta di nodulo a forma di scarabeo (è lecito pensare che questi segni fossero piuttosto approssimativi e non nitidissimi).

Ma per altri autori più tardi, come Claudio Eliano, -che tratta di Api e di Mnevis nella sua opera “Perì zoon idiòtetos” (Sulla natura degli animali), XI, 10-11-, i segni che contraddistinguevano il vitello erano ben 29, ciascuno dei quali rispondeva a un preciso simbolismo mistico (uno la piena del Nilo, un altro il mondo, un altro le tenebre prima della luce, un altro ancora la figura della Luna, e così via). Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VIII, 184) e Ammiano Marcellino (Storia di Roma, XXII, 14, 7) sottolineano che doveva avere il disegno di un crescente lunare sui fianchi.

Una volta trovato, si costruiva per il vitellino una casa apposita, con la fronte rivolta ad oriente, nel quale era ospitata anche sua madre e dove veniva allattato per quattro mesi. Una volta svezzato, il piccolo bovino, in coincidenza con la Luna Nuova veniva solennemente trasportato su una lussuosa imbarcazione che navigava sul Nilo, e condotto al tempio di Menfi. Prima di giungere alla sua dimora definitiva, al momento de plenilunio, faceva però una sosta di 40 giorni a Nilopoli, dove riceveva la visita di donne che gli chiedevano il dono della fertilità. A quanto narra lo storico latino Svetonio (Vitae Duodecim Caesarum, Titus, V, 3) Tito, futuro imperatore, nel 69 durante un soggiorno in Egitto, assistette alla consacrazione di un Api.

Anche alla madre di Api, la mucca che l’aveva partorito venivano tributati onori divini, essendo identificata con Hathor, la mucca celeste, e, secondo quanto ci fa sapere Strabone, dimorava in una stalla accanto a quella di suo figlio, nel tempio di Ptha a Menfi; lo stesso autore ci informa che davanti al ricovero ove il sacro bove abitualmente dimorava si apriva un ampio cortile, nel quale a una certa ora del giorno Api veniva liberato e ove egli poteva passeggiare e scorrazzare, dando così modo ai numerosi pellegrini e visitatori di vederlo (Geografia, XVII, 31) (9). Talora però veniva condotto in processione, bardato di splendidi ornamenti, -una gualdrappa rossa costellata di punti azzurri, e un disco solare tra le corna sormontato da due piume di struzzo-, e circondato dalle guardie che lo scortavano tra due ali di popolo festante, mentre cori di fanciulli intonavano inni di lode.0705a92e08884cf794eda627ebaf9faa

Come i buoi sacri suoi colleghi, Api dava anche oracoli, ad esempio accettando o rifiutando il cibo (presumibilmente i dolcetti al miele che gli venivano preparati) che il consultante gli offriva: celebre è il responso negativo che diede a Germanico, figliastro di Tiberio, durante la sua visita in Egitto, quando non gradì il cibo che questi gli offriva, -come è attestato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VIII, 185)- preannunciandogli la sua prossima morte che sarebbe avvenuta il 10 ottobre 19 ad Antiochia dopo dolorosa malattia. Se invece il bovino leccava la mano o i lembi degli abiti del consultante, il presagio era positivo a metà, nel senso che gli pronosticava un’esistenza lieta, ma non molto lunga. Un altro modo con il quale manifestava la volontà divina, in merito a questioni di ordine collettivo e nazionale, era scegliendo una di due stanze del tempio: se entrava in una la soluzione che gli veniva sottoposta era approvata e il suo esito ritenuto propizio; se invece entrava nell’altra il presagio era funesto. Si diceva pure che il suo fiato avesse la virtù di guarire le malattie, e che alitando su una persona ammalata l’avrebbe guarita.

Tutti gli anni si celebrava solennemente il compleanno di Api con grandi festeggiamenti, che si protraevano per sette giorni, durante i quali il bue veniva condotto su un isoletta in mezzo al Nilo, chiamata “Fiala” a cagione della sua forma (ovvero piuttosto larga, piatta e concava al centro, -poiché tale era il recipiente a cui i Greci davano il nome di “phiale”-) e gli venivano offerte una coppa d’oro e una d’argento: in quei giorni -cosa mirabile- i coccodrilli perdevano la loro aggressività e si mostravano del tutto innocui; ma non appena terminava la festa, dal mezzodì dell’ottavo giorno tornavano ad essere feroci.

Quando il sacro bue lasciava questo mondo (10), gli venivano tributate onoranze funebri degne di un faraone; il corpo veniva mummificato in modo non dissimile dai defunti umani e poi deposto, -per quanto attiene le età più antiche (sebbene la sepoltura degli Api non sia documentata prima del Nuovo Regno)- in un sarcofago di legno dorato; e dalla XXVI dinastia in poi in vasche di granito di imponenti dimensioni: circa 4 metri lunghezza per 2,5 di larghezza e più di tre di altezza e dal peso di 70 tonnellate.

Completata l’imbalsamazione un corteo di sacerdoti in lutto, preceduto da un drappello di soldati accompagnava il feretro alla “Tenda della Purificazione”, dove riceveva le offerte funebri. La mummia era poi trasportata nella necropoli reale di Saqqarah, dove sorgeva il mausoleo destinato alla sepoltura dei sacri bovini su un carro a quattro ruote sormontato da un baldacchino. Arrivata la processione davanti al mausoleo, -che in epoca tarda era chiamato “Serapeum” (11), dal nome del dio Serapide, che sotto i sovrani Lagidi si era fuso con Osiride e del quale parleremo in seguito-, si procedeva al rito dell'”Apertura della Bocca”, che veniva praticato anche sulle mummie umane. Si svolgeva allora una danza sacra che doveva essere eseguita da un danzatore nano, dopo di che la mummia veniva deposta nell’enorme sarcofago, trascinato indi nella camera sepolcrale sita nella cripta del tempio, che veniva poi murata. Nessuno poteva più accedere alla cripta fino alla sua riapertura che avveniva solo in occasione dei funerali di un altro Api. Da quel momento tutto l’Egitto era immerso nell’afflizione e nel lutto, fino alla scoperta del nuovo bue sacro (12). Anche alla madre di Api erano riservate solenni onoranze funebri.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1)nell’arte catacombale si trovano raffigurazioni di Maria con il bambino in grembo,- che arieggiano quelle di Iside con il piccolo Horo-, ma la vera e propria scena della natività, nelle forme divenute usuali dal ME in poi, non è mai rappresentata, forse perché l’evento non aveva particolare rilevanza teologica e liturgica. Infatti fu solo nel IV secolo che venne introdotta la festa del Natale di Cristo, in sostituzione del “Dies Natalis Solis Invicti”, -come abbiano detto in altri articoli-, in conseguenza di un  processo che mirava da un lato ad estromettere appropriandosene gli antichi culti, e dall’altro a perseguire, pur se non in modo dichiarato, una sorta di identificazione del simboli cristiani con quelli delle religioni “pagane” e della figura di Gesù Cristo con quella degli dei salvatori a lui precedenti: e il Cristo-Sole è senza dubbio una delle metafore più sfruttate ed evidenti. Questo processo è particolarmente evidente nell’arte figurativa, -che doveva avere in origine un significato e un fine più didascalico che decorativo o devozionale (anche se in seguito questo secondo aspetto prevalse)-, dove i principali tipi iconografici si richiamano in modo lampante ai moduli dell’arte classica e alla rappresentazione degli dei propria di quest’ultima.

2) non si confonda codesto “Evangelo dell’infanzia di Tommaso”, con l'”Evangelo di Tommaso”, appartenente al gruppo degli “evangeli gnostici”, che non hanno carattere narrativo (o solo in minima parte) e contengono esposizioni dottrinali, o raccolte di detti (“logia”) di Gesù, che a volte richiamano gli insegnamenti contenuti nei vangeli canonici, a volte non hanno paralleli in questi ultimi.

3) il docetismo (dal greco “dokeo, -ein” = sembrare) non è un sistema teologico, ma l’idea, presente in modo più o meno accentuato in correnti dottrinali dei primi secoli, in particolare di tendenza gnostica, che il corpo di Cristo fosse solo apparente, poiché un’entità divina non poteva contaminarsi con la materia. Questo non significa peraltro che fosse da loro concepito come un fantasma o un ologramma, ma che lo consideravano privo di pulsioni e limitazioni umane e terrene.

4) nel “Vangelo arabo dell’Infanzia” (48; 51 e 52) il piccolo Gesù incontra pure astronomi, medici e filosofi con i quali discute e ai quali mostra la sua perfetta padronanza dell’astrologia, della fisica e della metafisica. Nel vangelo canonico di Luca (II, 42-53) è narrato l’episodio in cui Maria e Giuseppe, recatisi al tempio di Gerusalemme e ripartitine senza il figlio, tornano indietro e lo trovano in mezzo ai dottori del tempio (ovvero teologi e giuristi esperti nella legge mosaica) “intento ad ascoltarli ed interrogarli”: l’interpretazione cattolica però è che con queste parole si voglia esprimere l’interesse e il desiderio di apprendere del giovinetto, le sue “domande intelligenti”, e non già affermare che egli dimostrasse delle conoscenze approfondite, poiché non avrebbe dato alcuna manifestazione della sua divinità prima dell’inizio della sua missione e della sua vita pubblica all’età di 30 anni.

5) l’accenno ai significati occulti delle lettere dell’alfabeto potrebbe essere un indizio delle dottrine mistiche legate alle lettere a ai numeri, proprie di alcune scuole gnostiche, in particolare quella di Valentino, e ancor più di alcuni discepoli di quest’ultimo, come un certo Marco, originario dell’Asia Minore, che si riallacciavano da un lato alle teorie pitagoriche, dall’altro a certe correnti platonizzanti ebraiche, che avrebbero poi dato luogo in età medioevale alla “Qabbalah”.

6) dobbiamo peraltro precisare che nel testo greco della “Bibbia dei Settanta” per “bue” si trovano sia “boos”, sia “moschos” (propriamente vitello), mentre per “asino”, oltre il più usuale “onos”, viene impiegato talvolta il termine “ypozyghion”, -propriamente “animale da soma”-; nella “Vulgata” di S. Gerolamo si trovano invece sempre “bos” e “asinus”. Nell’originale ebraico non so se siano usati termini differenti. Talora, ad esempio nel passo di 1Re, XII, 28-32 citato oltre, appare il termine “damaleis” =giovenchi. Nel testo originale ebraico l’abbinamento tra bue e asino è sottolineato dall’assonanza tra i due termini SWOR (schin, vau, resh -shwr-) = Bue e HAMWOR (heth, mem, vau, resh -hmwr-) = Asino.

7) Epafo divenuto adulto sposò la ninfa Menfi, figlia del Nilo, in onore della quale fondò l’omonima città (si veda “Biblioteca di Apollodoro”, II, 1; Igino, Fabulae, 145). Secondo David Rohl Epafo sarebbe da identificare nel faraone Hyksos Apophis.

8) Ptah era il dio creatore “teologia menfita”, così come Atum lo era in quella eliopolitana; dallo Ptah cosmico primordiale vengono generati, o si differenziano, altri otto Path, ai quali nel linguaggio profano si attribuiscono nomi differenti da quello unico e vero. Oltre a queste due, le principali sistemazioni sacerdotali erano quella tebana e quella ermopolitana. Poi nell’età tarda questi sistemi mitico-teologici tesero a confluire, ad armonizzarsi e a unificarsi in un unico sistema.

9) l’autore precisa peraltro che il divino animale poteva essere ammirato anche attraverso una finestra praticata nella sua stalla, ma che i visitatori preferivano vederlo muoversi liberamente.

10) come abbiamo accennato sopra, sembra (ma al riguardo le testimonianze sono piuttosto incerte) che, se non fosse deceduto prima, giunto all’età di 28 anni, -l’età che aveva Osiride al termine della sua vita terrena-, il povero bue fosse fatto annegare dai sacerdoti in un pozzo apposito, che però era tenuto rigorosamente segreto.

10) il “Serapeum” di Saqqarah fu scoperto dal famoso egittologo Auguste Mariette (1821-1881) (il fondatore del Museo Egizio del Cairo) il 1 novembre 1851.

11) secondo alcuni il “lutto nazionale” per la morte di Api durava 70 giorni -quelli durante i quali il cadavere eviscerato era fatto disidratare in una vasca di “natron” prima di essere imbalsamato e fasciato-; secondo altri fino alla scoperta del suo successore.

 

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