L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -settima parte-

Com’è noto, il fulcro della fiaba, -che nell’esuberanza inventiva rasenta la prolissità e precorre di molti secoli la prosa barocca-, è la trasgressione compiuta da Psiche al comando di Amore, che le aveva raccomandato di non osservarlo durante le sue visite notturne , che avvenivano nell’oscurità. La fanciulla, istigata dalle invidiose e perfide sorelle, cede alla curiosità e accosta la lucerna all’amato per poterne contemplare il sembiante. Ma per sua disgrazia, una goccia di olio bruciante cade sulla spalla di Amore, il quale destatosi, si invola alla vista della sposa.

Per poterlo riconquistare, Psiche deve sottoporsi a una serie di difficili prove impostegli da Venere, dopo aver superato le quali potrà infine ricongiungersi con l’amato (il che in termini allegorici significa che l’anima potrà riunirsi al Principio Primo).

Questa storia presenta delle indubbie affinità con altre presenti nelle mitologie di numerose civiltà: in India ad esempio, troviamo somiglianze con la leggenda di Urvashi e Pururavas, della quale esistono diverse varianti, di cui la più conosciuta è quella che costituisce la trama di un’opera teatrale di Kalidasa, insigne poeta indù del V secolo. Urvashi era un'”Apsara” (ninfa dell’acqua), nata dalla coscia del saggio Naraiana (ed infatti l’etimologia del nome, sebbene non universalmente accettata, dovrebbe significare “nata da una coscia”) durante la sua meditazione.

Un giorno la ninfa incontrò il re Pururavas, il quale non appena la vide si invaghì di lei. Urvashi accondiscese ad unirsi in matrimonio con il potente sovrano del regno di Pratishthana, ma solo alla condizione che i suoi due agnellini potessero sempre dormirle accanto e che lo sposo non si mostrasse mai a lei privo di vesti. Pururavas accettò queste condizioni e per un certo tempo il loro matrimonio fu felice: ma i “gandharva” (gli spiriti dei boschi, che erano l’equivalente maschile delle “apsaras” e si possono paragonare ai satiri e ai fauni della mitologia greco-romana), sentendo la mancanza della bella ninfa e gelosi per la sua relazione con un mortale, ordirono un piano per far sì che ella potesse tornare tra di loro. A tal fine una notte inviarono sulla terra uno di loro affinché rapisse i due agnellini tanto cari a Urvashi; la ninfa urlò di spavento invocando aiuto per impedire il rapimento.Urvashi-Pururavas_by_RRV Udite le sue grida, il marito accorse da lei, pur essendo svestito, poiché al buio la sposa non avrebbe potuto vederlo, ma in quel momento i gandharva lanciarono una folgore che illuminò la nudità di Pururavas e Urvashi allora vide il suo sposo senza vesti.

La promessa di Pururavas fu così infranta, sebbene senza dolo, e la sua sposa fuggì via da lui. Egli allora errò disperato per molti mesi fino a che, sulle rive del fiume Yamuna non ritrovò Urvashi che gli disse di aspettare un bambino e gli chiese di tornare da lì a un anno. E così avvenne: da allora i due sposi si incontrarono una volta all’anno per cinque anni e ogni volta Urvashi mostrava a Pururavas il figlio concepito nell’incontro precedente, il primo dei quali ebbe il nome di Ayu.

Per ricompensare la grande fedeltà dimostrata verso la ninfa, gli dei concessero infine a Pururavas di trasformarsi in gandharva e ricongiungersi definitivamente alla sua sposa nel paradiso vedico posto sulla sommità del monte cosmico Meru.

Questo mito è stato interpretato come allegoria dell’incontro tra l’Aurora, incarnata da Urvashi, -il cui nome in effetti ricorda quello di Ushas, la dea dell’aurora della mitologia indù, corrispondente all’Eos greca-, e il Sole, rappresentato da Pururavas: essi infatti si incontrano solo per un breve momento prima che il disco solare si innalzi nel cielo e l’aurora così si dilegui.

Questo mito è inoltre associato all’accensione del fuoco: i due bastoncini adoperati allo scopo sono chiamati in India “urvashi” e “pururavas”, come i protagonisti della storia che abbiamo testè riassunto, mentre il fuoco che scaturisce dallo sfregamento di essi è detto “ayu”, come il loro primo figlio.

Questa associazione è dovuta a una variante del mito, -narrata nel “Vishnu Purana, IV, 6-, in cui Pururavas chiese ai gandharva di riavere la sua sposa, ma essi gli diedero solo una coppa piena di fuoco, dicendogli che meditando davanti ad essa il suo desiderio sarebbe stato esaudito. Mentre tornava al suo palazzo, Pururavas si pentì di aver accettato la coppa al posto di Urvashi: così la depose in mezzo a una radura di una foresta che stava attraversando e si diresse alla sua dimora a mani vuote. Ma in seguito gli rincrebbe di quanto aveva fatto e tornò alla radura. Qui però scoprì che il recipiente era scomparso e nel punto ove l’aveva lasciato si trovavano ora due alberelli uno accanto all’altro. Li portò al suo palazzo e sfregandoli insieme produsse una fiamma davanti alla quale meditò e offrì i suoi doni: in tal modo divenne anch’egli un gandharva e potè riunirsi a Urvashi.

Secondo lo studioso Max Muller questa leggenda indù sarebbe in relazione oltre che con il mito di Amore e Psiche, pure con quello di Orfeo ed Euridice. Tuttavia in questo racconto, che pure si incentra sul tema della separazione, seguita poi dal ricongiungimento dopo dolorose prove, le parti sono invertite rispetto alla “fabella” di Amore e Psiche.

In una versione cinese invece, la triste storia di Zhin-hu e di Niu-Lang, -ovvero della Tessitrice e del Guardiano di Buoi-, la separazione non è provocata da una colpa, volontaria o involontaria di uno dei due amanti, ma dal risentimento della madre della fanciulla. la Regina del Cielo -che dunque riveste qui la parte di Venere con Psiche-.

Zhin-hu, figlia dell’Imperatore e della Regina del Cielo, abilissima tessitrice (la stella Vega -alpha Lyrae-) mentre si stava riposando sulle rive di un fiume, udì una sera una soavissima melodia che proveniva dall’altra sponda del fiume. Era il giovane bovaro Niu-Lang (la stella Altair -alpha Aquilae-) che, dopo la sua quotidiana fatica, sonava il flauto; da allora continuarono ad incontrarsi in quel luogo, fino a che decisero di unirsi in matrimonio. Ma da quel momento essi cominciarono a trascurare la loro missione: Zin-hu aveva smesso di tessere le luminose albe e gli infocati tramonti che abbellivano i cieli; Niu-Lang non custodiva più i suoi buoi, -ossia le altre stelle della costellazione dell’Aquila-, che erravano senza controllo, addentrandosi anche nella costellazione vicina, ed anzi uno di essi entrò perfino nella camera da letto della Regina del Cielo, facendo cadere per terra le sue preziose spille d’argento.tessitrice e mandriano

Ella allora si adirò moltissimo con i due sposi: presa una spilla tracciò una linea che attraversava tutto il cielo e con quel gesto diede vita all’impetuoso “Fiume d’Argento”, -che è il nome che i Cinesi danno alla Via Lattea-: in tal modo i due giovani furono separati, trovandosi confinati ciascuno su una delle sue sponde del grande fiume che la Regina del Cielo aveva creato. Per quanto disperati tuttavia i due da allora ripresero i loro rispettivi compiti: Zin-Hu tesseva di nuovo le sue splendide tele e Niu-Lang conduceva al pascolo i suoi buoi.

L’Imperatore del Cielo però, impietosito per l’inconsolabile dolore della figlia, decretò che in un breve periodo dell’anno, il settimo giorno del settimo mese (1), i due sposi avrebbero potuto incontrarsi. Zin-Hu chiamò in suo soccorso alcune gazze che giunsero in volo dalla terra e si disposero in modo da fare un ponte, -presso la stella Deneb -alpha Cygni-, nella costellazione del Cigno-, con il quale la fanciulla potè attraversare il profondo Fiume d’Argento: ella infatti passò sulle loro schiene piumate, così come un tempo aveva saltato sulle pietre affioranti sul ruscello per raggiungere l’amato, e, sia pure per un solo giorno si riunì con Niu-Lang.

Di questa storia esistono molte varianti, e quello sopra esposto è un riassunto assai sintetico (2); tra di esse, ve n’è pure una giapponese, nella quale la fanciulla si chiama Orihime, figlia di Tentei, Re delle Stelle, anch’ella abilissima e instancabile tessitrice. In questa versione è il padre stesso che le sceglie come sposo un mandriano che viveva oltre un fiume, e il cui nome è Kengyu.

Dopo il matrimonio però Orihime e Kengyu, distratti dai loro amori, trascurarono i propri doveri: fu così che Tentei decise di separarli e li relegò ciascuno su una sponda del grande fiume che scorreva nel Regno delle Stelle (e che era ovviamente la Via Lattea, chiamata in giapponese “Ama no Gawa”). Ma per la tristezza che la pervadeva, la fanciulla non smetteva di piangere, così che le sue lacrime macchiavano i vestiti che stava tessendo. Allora il padre per rimediare a questa situazione stabilì che una volta all’anno il barcaiolo della Luna avrebbe traghettato Orihime oltre il fiume per incontrare il suo sposo (sempre nel settimo giorno del settimo mese). Tuttavia se la principessa non adempie con diligenza al suo compito, Tentei fa piovere così tanto da provocare lo straripamento del fiume e il barcaiolo della Luna non può esercitare la sua missione. In tal caso però le gazze del Giappone volano sul fiume e si dispongono a fare un ponte sul quale Orihime può camminare per recarsi da Kengyu.

Per celebrare la ricorrenza in Giappone si celebra tuttora una festa, denominata “Tanabata”, durante la quale adulti e soprattutto bambini scrivono i loro desideri su strisce o foglietti di carta colorata, i “tanzaku”, che vengono poi appesi insieme ad altre decorazioni di stoffa o carta, come le caratteristiche lanterne, a canne di bambù, poste davanti alle case o nei giardini.

Ma la fiaba che presenta le maggiori affinità con quella di Amore e Psiche, e che soprattutto, provenendo dal folklore berbero dell’Africa settentrionale, è stata ritenuta la testimonianza della derivazione della storia, almeno in parte, dalle tradizioni locali, è quella di Chiaro di Luna e Bocciolo d’Oro. Infatti si presume che Apuleio, il quale era nativo della città di Madaura, nella provincia romana dell’Africa proconsolare, al confine con la Numidia, abbia attinto dal patrimonio mitico e novellistico delle popolazioni autoctone dell’Africa settentrionale, -quali i Mauri, i Numidi, i Garamanti, i Getuli, i Nasamoni, e altre, da cui discendono gli attuali Berberi-, e alle quali egli stesso, pur essendo di cultura latina, apparteneva per nascita.

Il racconto inizia parlando di due fratelli, dei quali il maggiore era ricco ed aveva sette figli, mentre il minore era povero e si guadagnava da vivere andando a tagliare legna in un bosco per poi rivenderla al mercato. Questi aveva sette figlie delle quali la più piccola era più bella della Luna e delle stelle messe insieme.

Un giorno mentre come al solito si trovava al lavoro nella foresta, udì una voce adirata che gli chiedeva di smettere di tormentare gli alberi. Il boscaiolo replicò protestando che non avrebbe saputo in che altro modo mantenere la sua famiglia; allora la voce gli disse: “Ti darò un piatto magico, che ha la virtù di riempirsi da solo tutte le volte che vorrai” e il piatto uscì davvero dal tronco che il taglialegna si apprestava ad abbattere.

In tal modo il pover’uomo potè sfamare la moglie e le figlie senza dover tagliare alberi. Ma la cognata notò che egli aveva smesso di andare nel bosco a far legna e si chiedeva come potesse continuare a nutrire la sua famiglia. Per questo con una scusa si recò dalla congiunta e si fece prestare il piatto di cui la donna gli aveva svelato la virtù. Ma nelle sue mani il recipiente non si riempiva e per questo stizzitasi lo ruppe.

Così il boscaiolo dovette riprendere ad andare a tagliare legna nella foresta, ma ancora una volta essa si lamentò gli offrì una macina che dava farina senza grano. Ma come in precedenza vi fu l’intervento della cognata, la quale anche stavolta rovinò l’oggetto miracoloso che nelle sue mani non aveva effetto scusandosi falsamente che le era caduto di mano.

La storia si ripetè per la terza volta, ma in quella circostanza la foresta chiese al boscaiolo di darle la sua figlia minore e in cambio ella avrebbe provveduto a nutrire la sua famiglia con un raggio di Sole. Il taglialegna accettò e, seguendo le istruzioni ricevute, disse a Chiaro di Luna di andare in cortile a prendere degli stecchi. Non appena uscì, la fanciulla fu rapita da un grande uccello che la portò in alto. Chiaro di Luna era svenuta per lo spavento, e quando riprese i sensi si trovò in una magnifica stanza, risplendente di gemme e metalli preziosi, dove vide anche una tavola sontuosamente imbandita (3).

Da quel momento inizia la sua vita in quel luogo ove lo strano essere che la tiene prigioniera, di cui non vede altro una sorta di fiore dorato e fiammeggiante – e per tanto chiamato Bocciolo d’Oro- con il quale manifesta la sua presenza, non le fa mancare nulla.

Amore e Psiche in un cubicolo nelle catacombe di Domitilla a Roma.
Amore e Psiche in un cubicolo nelle catacombe di Domitilla a Roma.

Ma un giorno la fanciulla sente la nostalgia della sua famiglia e Bocciolo d’Oro le accorda il permesso di farle visita. Tornata a casa, ha modo di constatare che, come la voce nella foresta aveva promesso a sua padre, i genitori e le sorelle non devono più vivere in ristrettezze. Ma prima di ripartire sua madre, -alla quale aveva confidato il suo desiderio di vedere alfine il volto del suo benefattore- le consiglia di nascondere una lucerna dietro di sé quando sentirà che Bocciolo d’Oro sta arrivando e accostarla a lui quando le sarà vicino.

Chiaro di Luna ascoltò il consiglio della madre ed eseguì quanto ella le aveva detto, ma, come accadde a Psiche, il suo tentativo di vedere in viso lo sposo fu causa della sua disgrazia. Bocciolo d’Oro, dopo espresso il suo rammarico, si trasformò in un uccello nero e volò in cielo mentre sulla terra si abbatteva una tremenda tempesta, in cui alla pioggia torrenziale si mescolavano vento impetuoso, tuoni e fulmini, e che durò per sette giorni.

Infine Chiaro di Luna decise di andare alla ricerca del suo sposo e partì dalla sua dimora. Dopo aver a lungo camminato (4), giunse infine davanti a una casa, bussò alla porta e una voce rauca le disse di entrare. Una volta entrata nella casa la fanciulla si trovò di fronte una terribile orchessa, chiamata Tseriel, la quale dichiara di essere la madre di Bocciolo d’Oro e per riparare la sua colpa le impone alcune difficili prove: pulire per bene tutta la casa; suddividere un mucchio di granaglie nei semi di diverso tipo; riempire di piume cinque cuscini vuoti; e infine svuotare di nuovo i cuscini senza che rimanesse intorno nemmeno una piuma.

Chiaro di Luna supera tutte queste prove con l’aiuto di Bocciolo d’Oro che le suggerisce il modo con cui potrà assolvere ai compiti ardui che le erano stati imposti da Tseriel (sollevare una lastra di pietra donde sgorga una fonte d’acqua che lava il pavimento della casa; chiamare in suo aiuto le formiche che separeranno i semi; invocare dalla finestra gli uccelli che le doneranno le piume onde riempire i cuscini, e poi richiamarli affinché si riprendano le piume che avevano dato e che si riattaccano a loro come se non le avessero mai perse).

L’orchessa aveva però compreso che Chiaro di Luna era riuscita a compiere queste imprese con l’assistenza di Bocciolo d’Oro e voleva darla in pasto alle sue sei figlie; ma il suo sposo, rivestite di nuovo le spoglie di un volatile nero e fiammante la porta in salvo, conducendola al suo palazzo posto tra il Cielo e la Terra. Qui finalmente torna nel sembiante di bocciolo d’oro, che però poco dopo si schiude, lasciando apparire un giovane radioso come il sole che sorge.

Così termina la storia di Chiaro di Luna e Bocciolo d’Oro. L’inizio della narrazione ricorda moltissimo quello di “Alì Babà e i quaranta ladroni sterminati da una schiava”: come in quest’ultima vi sono due fratelli, uno ricco e uno povero, il quale ultimo esercita la professione del taglialegna, con la quale riesce a mantenere con fatica una numerosa famiglia. Anch’egli nella foresta ove abitualmente si reca per procurarsi di che vivere, trova la sua fortuna, che non è però il tesoro nascosto da una banda di ladroni, bensì i doni che il bosco stesso, -che sembra quindi una sorta di divinità-, stanco di essere ferito dai tagli inflitti dal boscaiolo ai suoi alberi, gli elargisce onde egli non sia costretto a prendere la sua legna per assicurare la sopravvivenza alla moglie e alle figlie. Come nella celebre fiaba inserita nel ciclo delle “Mille e Una Notte”(5), la cognata curiosa scopre la ragione dell’improvviso e ingiustificato benessere dell’uomo e della sua famiglia.

Poi però la trama prende un’altra direzione e si avvicina al tipo di racconto che nell’occidente europeo ha trovato la sua consacrazione letteraria nella fiaba “La Bella e la Bestia” di Jeanne Marie Leprince de Beaumont (6): la richiesta del bosco -che corrisponde alla “bestia”- che venga mandata preso di lui la figlia del boscaiolo; la successiva vita di quest’ultima, contrariamente ai suoi timori, che trascorre in un ambiente lussuoso e magnifico, dove ogni suoi desiderio viene soddisfatto; la nostalgia di Chiaro di Luna per la famiglia e la richiesta di tornarvi almeno per un certo tempo.

Delle quattro prove nelle quali la protagonista si deve cimentare solo una, quella della divisione dei semi, è la medesima in entrambe le fiabe; ma nella prima della storia di Bocciolo d’Oro, -la pulizia della casa che viene compiuta per mezzo di una sorgente che sgorga da sotto una lastra del pavimento-, si può vedere, sia pure alla lontana, una corrispondenza con la terza prova assegnata a Psiche -riempire un’ampolla di acqua prelevata dalle fonti dello Stige, il fiume infernale-.

Tuttavia, al di là del confronto tra storie di epoca e provenienza geografica diversa che si presentano simili nella trama in generale o in singoli particolari, quello che emerge senza alcun dubbio dallo studio comparato della novellistica popolare, -sia nelle sue forme grezze, sia in quelle più o meno elaborate letterariamente e modificate dall’inventiva personale degli scrittori che le hanno tramandate-, è il ricorrere, in aree geografiche vastissime e per periodi di tempo che vanno dalla remota antichità alle soglie dell’età moderna, dei medesimi motivi, di numero relativamente limitato, ma che combinati e variati con grande fantasia e originalità hanno dato vita a una straordinaria fioritura di storie e di fiabe.

Ma la storia di Amore e Psiche, quale è narrata da Apuleio nelle Metamorfosi, risente senza alcun dubbio del romanzo greco ellenistico, che, negli esempi che sono stati tramandati integri, o attraverso riassunti o frammenti abbastanza ampi, era incentrato sulle vicende di una coppia di innamorati, i quali, separati al principio della narrazione, dopo una lunga serie di eventi tragici, avventurosi e talvolta fantastici, alla fine si ritrovavano e dopo tante traversie potevano felicemente ricongiungersi (7). A sua volta poi la “bella fabella” è inserita in un’altra situazione tipica del romanzo ellenistico: il rapimento di uno o di entrambi i protagonisti ad opera di pirati o briganti, i quali presumono di potersi arricchire con la vendita come schiavi delle loro vittime, che sono sempre dotate di insuperabile avvenenza. Infatti i briganti che avevano assaltato la casa di Milone, -l’amico di Lucio, presso il quale egli era ospite al momento della trasformazione in asino, e che l’avevano sottratto per poter trasportare gli oggetti preziosi trafugati-, dopo aver compiuto questa impresa brigantesca, avevano rapito anche una fanciulla, Carite (= Grazia), a cui, come abbiamo detto sopra, la vecchia incaricata di farle la guardia racconta la fiaba per tranquillizzarla.

Quando la vecchia ha terminato di narrare la storia, i banditi, che si erano allontanati per compiere rapine e saccheggi, tornano al covo carichi di bottino; ma per recuperare una parte di quanto avevano depredato, che avevano nascosto in una grotta, spingono fuori l’asino e il cavallo (che era stato la cavalcatura di Lucio). A causa delle bastonate con le quali i lestofanti cercano in tutti i modi di affrettare il passo degli animali, il povero Lucio cade e si azzoppa. Per tale ragione, i briganti una volta arrivati al covo, decidono di sbarazzarsene; ma l’asino, che comprende i loro discorsi, cerca di liberarsi; del suo tentativo approfitta Carite, che gli salta in groppa sperando di riuscire a fuggire, ma l’evasione fallisce perché i ladroni riescono a bloccarli.

Carite fugge in groppa all'asino insieme a Tlepolemo (affresco rinascimentale nel castello di San Secondo).
Carite fugge in groppa all’asino insieme a Tlepolemo (affresco rinascimentale nel castello di San Secondo).

A questo punto si presenta nel covo dei briganti un uomo dall’aspetto assai aitante e vigoroso, il quale afferma di essere un famoso bandito di origine tracia, che infestava in quel tempo le contrade della Macedonia, il cui nome era Emo, e che chiede di potersi aggregare alla banda, dal momento che la sua era stata annientata dai soldati di un procuratore romano che lui e i suoi avevano pensato incautamente di rapinare. Il nuovo venuto narra con dovizia di particolari le sue presunte prodezze, tanto che i ladroni, -che a loro volta erano stati decimati durante le loro scorrerie, ed avevano perso il loro vecchio capo-, decidono di eleggerlo come loro comandante (8).

Ma in realtà il nuovo capo altri non è Tlepolemo, il fidanzato della prigioniera, il quale era ricorso a questo espediente per liberare la fanciulla. Egli, dopo aver fatto ubriacare i briganti, le lega per bene e poi si allontana con Carite e con l’asino, tornando alla loro città dove i due sono accolti con grandi manifestazioni di giubilo e di affetto da tutta la cittadinanza. Il dì seguente, Tlepolemo organizza una spedizione per punire i delinquenti, le cui cospicue ricchezze frutto di rapine vengono consegnate ai magistrati.

Sembrerebbe che i tormenti e i pericoli che l’asino Lucio ha dovuto subire siano finalmente finiti e sia giunto anche per lui il momento della gioia: Carite infatti mostra per lui la più sentita riconoscenza e gli offre cibo in abbondanza e una vita priva di sforzi e fatiche. Ma purtroppo non è così! Si decide infatti di lasciar condurre all’asino una vita più consona alla sua natura e mandarlo in campagna dove potrà correre liberamente pei prati. A tal fine viene affidato a un mandriano che dovrebbe averne la massima cura; ma purtroppo la moglie di costui si rivela un pessimo soggetto e non esita ad aggiogare l’animale a una mola con la quale deve faticare duramente per macinare il grano.

Ricominciano così le disgrazie dell’asino Lucio, che deve passare da un padrone all’altro, costretto spesso a subire angherie e a vedere situazioni tristi o scabrose, fino a che, come si è detto nella parte precedente, non giungerà la sospirata liberazione per intervento della dea Iside.

CONTINUA NELL’OTTAVA PARTE

Note

1)si tenga presente che il calendario luni-solare cinese inizia dalla prima Luna Nuova nel segno dell’Acquario (tra il 22 gennaio e il 21 febbraio) e dunque “il settimo giorno del settimo mese” può cadere tra il 30 luglio e il 29 agosto del calendario solare gregoriano.

2) ad esempio Niu-Lang ha un vecchio bue che lo assiste e gli consiglia di andare al fiume dove incontrerà Zin-Hu; dalla loro unione nascono due bambini maschio e femmina; ecc.

3) il testo è qui molto sintetico e poco preciso, ma in pratica presenta una situazione simile a quella de “La Bella e la Bestia”, salvo il fatto che il misterioso ospite qui è una figura che romane invisibile, mentre nella celebre fiaba di M.me J. M. Leprince de Beaumont (1711-1780) è appunto una “bestia” con aspetto mostruoso. Come avremo modo di vedere più avanti nel testo principale, la tradizione narrativa, orale e scritta, in cui si inserisce la fiaba della “bella” e della “bestia” a cui si ispirò la scrittrice e pedagogista francese deriva dalla medesima da cui derivarono sia “Amore e Psiche” sia “Chiaro di luna e Bocciolo d’Oro”.

4) durante il cammino incontra dei pastori, delle sorgenti e dei frassini che le ricordano il suo errore e la potenza di Bocciolo d’Oro.

5) com’è noto la storia di Alì Babà e dei quaranta ladroni non compare nella raccolta originaria delle “Mille e Una Notte”, ma nella versione tradotta in francese da Antoine Galland (1646-1715) e pubblicata per la prima volta tra il 1704 e il 1717; tuttavia approfondite ricerche e il ritrovamento agli inizi del XX secolo del testo originale hanno dimostrato che essa non fu inventata dall’arabista francese, ma faceva parte della novellistica orientale. In particolare si suppone che tale racconto, nella forma consacrata nella versione del Galland, sia di probabile origine anatolica, o persiano-anatolica, sebbene contenga elementi provenienti da diverse e ampie tradizioni. Riguardo alle “Mille e Una Notte” e le fonti dalle quali fu tratto il ricco materiale novellistico di cui è costituita la celebre opera, si veda quanto abbiamo detto nell’articolo su “GLI UCCELLI NEL MITO -l’uccello RUKH- terza parte”.

6) versioni letterarie precedenti della storia sono quelle presenti nei “Racconti delle Fate” di M.me Marie Cathrine d’Aulnoy, -“L’ariete”, dove il futuro sposo della protagonista, chiamata “Merveilleuse”, è un ariete delle corna d’oro- e quella, ugualmente intitolata “La Bella e la Bestia”- di Gabrielle Susanne Barbot de Villeneuve (1695-1755), compresa nella raccolta “La giovane americana e altri racconti di mare”. Ma una somiglianza ancora più stretta con la fiaba berbera, -salvo la parte iniziale- ha il trattenimento quarto della quinta giornata del “Pentamerone” di G. B. Basile (“Lo turzo d’oro”, -il tronco d’oro), dove la protagonista, Parmetella, deve anch’essa affrontare le ire di un’orchessa e superare prove pressoché identiche a quelle imposte a Chiaro di Luna.

7) i romanzi di questo tipo giunti completi sono solo cinque, distribuiti in un periodo di tempo che va dal I sec. a. C. al IV d. C.: di questi presentano analogie con la storia di Carite e di Tlepolemo (e in parte con quella di Amore e Psiche) “Le avventure di Cherea e di Calliroe” di Caritone di Afrodisia; “I racconti di Abrocome e Anzia” di Senofonte di Efeso; “Leucippe e Clitofonte” di Achille Tazio; e le “Etiopiche” di Eliodoro di Emesa, soprattutto per quanto riguarda il sequestro ad opera dei briganti; la fedeltà degli sposi, per la quale essi sono disposti a sacrificare anche la vita; l’importanza dei culti religiosi, in particolare di quello isiaco. Il quinto di questi romanzi, “Gli amori pastorali di Dafni e Cloe” (del quale fu fatta un pregevole traduzione in italiano dal celebre letterato Annibal Caro), per le sue caratteristiche si distacca in modo abbastanza netto dagli altri: infatti, pur non mancando alcuni degli “ingredienti” tipici del genere, come l’abbondono da neonati dei protagonisti e il rapimento di Dafni, da parte dei pirati, gli elementi che contraddistinguono l’opera sono l’ambientazione agreste e pastorale, l’atmosfera idillica e l’analisi psicologica dei protagonisti e dei loro sentimenti.

8) si tenga presente che la piaga del brigantaggio era endemica in diverse parti dell’Impero Romano, al punto che talvolta le bande dei briganti, spesso molto numerose ed organizzate militarmente, dominavano alcuni territori, che erano una sorte di zone franche, sottratte di fatto all’autorità statale, e riuscivano a tenere in scacco le stesse truppe romane. Questa piaga si aggravò nel III secolo, in conseguenza della profonda crisi economica e politico-sociale dell’Impero Romano (si veda al riguardo quanto abbiamo detto negli articoli sul declino dell’Impero Romano, pubblicati tra giugno e luglio 2015), tanto che vi furono bande di ladroni che riuscirono ad occupare e tenere per qualche tempo intere città, come ad esempio avvenne nel 276 a Cremna in Pisidia, che fu conquistata dal capo-brigante Lydius, originario dell’Isauria (altra regione dell’Asia Minore), e diede filo da torcere ai Romani, fino a che fu sconfitto dall’imperatore Tacito (episodio narrato dallo storico greco Zosimo, -Historia Romana, I, 69-). Sembra da alcune testimonianze che uno dei tratti esteriori distintivi dei briganti, almeno in certi luoghi e periodi, fosse un ciuffo di capelli più lunghi e ricadenti sulla fronte, -un po’ come i “bravi” manzoniani- (si veda ad esempio Eliodoro di Emesa, “Etiopiche”, II, 20).

 

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