L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -sesta parte (gli Asini di Maometto; le “Metamorfosi” di Apuleio)-

Stando a quanto riferiscono alcuni “hadit” (raccolte di detti e aneddoti relativi a Maometto), discendente dell’asina (o asino) cavalcato da Gesù al suo ingresso a Gerusalemme nella domenica delle Palme sarebbe stato a sua volta l’asino del profeta fondatore della religione islamica, il cui nome era Ya’fur (che significa “cervo”). Questo singolare animale, -il quale come Balio e Xanto, i cavalli di Achille- avrebbe avuto la facoltà di parlare, secondo il “Kitab al-Hadaya wa’l Tuhaf” (“Libro dei doni e delle cose mirabili”), -opera anonima risalente all’XI secolo-, sarebbe stato donato al profeta dal governatore bizantino d’Egitto, -qui chiamato al-Muqawqis (che alcuni identificano con Ciro, patriarca di Alessandria al momento della conquista araba dell’Egitto) (1)-.

In quella circostanza però il governatore non si sarebbe limitato all’asino, ma avrebbe mandato a Maometto diversi altri doni a dimostrazione della sua stima ed affetto, tra i quali il mulo (o mula) Duldul (“Dondolante”), -che sarebbe divenuto un’altra delle cavalcature predilette del profeta (2)- una cospicua quantità d’oro (1000 mithqàl -circa 4,250 kg-), un eunuco e quattro schiave, una delle quali, Marya al-Qubitiyya (Maria la Copta), divenne sua concubina -o per altri sua moglie- e gli diede un figlio, Ibrahim, morto in età infantile (18 mesi) nel 632 (3).

Sempre secondo gli “hadit”, Ya’fur sarebbe stato l’ultimo di sessanta generazioni di asini posseduti da profeti (tra cui l’asina di Balaam); allorché Maometto gli chiese come si chiamasse, egli -che, come abbiamo detto sopra sapeva parlare con umana favella- rispose che il suo nome era Yazid, ma il profeta preferì dargli il nuovo nome di Yafur, che sarebbe stato il medesimo dell’asino di Cristo. Questa creatura era così affezionata e devota al fondatore dell’islamismo che dopo la morte di lui (o meglio la sua assunzione in cielo sul mitico animale detto Buràq) si sarebbe suicidata gettandosi in un pozzo.

Sembra però che Maometto possedesse anche un altro asino detto Ufayr, e altri due muli, oltre a Duldul. Di quest’ultimo si tramanda che giunse ad età così avanzata che alla fine rimase del tutto privo di denti e i discepoli del profeta lo nutrivano imboccandolo con l’orzo, suo cibo preferito, macinato di modo che non ci fosse bisogno di masticarlo.

Ma asini che parlano con idioma umano compaiono anche in testi cristiani extra-canonici o apocrifi, come gli “Atti di Tommaso”, testo che abbiamo già citato nella parte precedente. In esso l’apostolo Giuda Tommaso, -che qui è di solito indicato con il nome di Giuda-, dopo la resurrezione viene inviato da Cristo a predicare in India, nonostante la sua iniziale contrarietà. Egli fu però convinto a intraprendere questa destinazione allorché il maestro incontrò un mercante indiano chiamato Habban, inviato dal re Gondofar (o Gudnafar)(4) nelle terre d’occidente a cercare un abile costruttore.

Infatti Giuda Tommaso, che viene detto assai esperto nella lavorazione sia del legno sia della pietra (5), viene venduto da Gesù al mercante indiano; essi si imbarcano per l’India e dopo una felice navigazione giungono nel porto di Sandaruk. Condotto davanti al re, riceve l’incarico di apprestare per lui uno splendido palazzo e tal fine all’apostolo è consegnata una notevole somma di denaro. Qualche tempo dopo il re Gondofar vuole sapere a che punto siano i lavori di costruzione del palazzo che desiderava, ma con suo grande disappunto scopre che del denaro che gli aveva dato Tommaso si era servito per aiutare i poveri e gli afflitti, e che inoltre egli guariva i malati e scacciava i demoni.

Adirato per il comportamento dell’apostolo, lo fa rinchiudere in carcere con l’intenzione di condannarlo a morte, ma nel frattempo accade che il fratello del re sia colto da morte improvvisa. L’anima di Gad, -così si chiamava il fratello di Gondofar-, è guidata in cielo dagli angeli ed essi gli mostrano un grandioso palazzo, dicendogli che quella era l’opera compiuta da Tommaso. Dopo di che Gad torna alla vita terrena e chiede al fratello di vendergli l’edificio che egli possedeva in Cielo. Gondofar risponde che non può acconsentire alla sua richiesta, ma che lo straniero che si era dimostrato un profeta ne avrebbe costruito uno anche per lui. Colpiti dalla rivelazione entrambi i fratelli si convertono al cristianesimo.

In seguito Tommaso inizia la sua predicazione in India; mentre percorreva le strade del paese, si imbattè un giorno in un puledro d’asino che gli andava incontro. L’apostolo diede all’animale il dono della parola e questi lo invitò a fare di lui la sua cavalcatura, aggiungendo che egli discendeva dall’asina di Balaam e da quella che aveva trasportato Gesù. In un primo tempo Tommaso rifiuta di salire in groppa all’animale, ma davanti alle sue insistenze alla fine lo cavalcò per recarsi nella città ove si stava dirigendo. Una volta giunto a destinazione e smontato dall’asino, quest’ultimo cade morto. Allora i discepoli supplicarono Tommaso di far risuscitare l’asino, ma l’apostolo disse che se Dio aveva deciso che l’animale morisse, significava che questa era la cosa migliore per lui (6): pertanto comandò agli astanti di scavare una fossa dove l’asino defunto fu sepolto.

Ma un altro asino parlante, anzi predicatore e profeta, compare più oltre nella narrazione. Mentre l’apostolo si trovava su un carro per recarsi alla dimora di un generale che aveva convertito e che si trovava con lui, i cavalli che trainavano il cocchio, stanche per lunghezza del percorso, si arrestarono rifiutandosi di proseguire. Giuda, -ovvero Tommaso- vide proprio in quel momento un branco di asini selvatici che pascolavano non lungi dalla strada e disse al generale di chiedere loro di sostituire i cavalli nel traino del cocchio. Gli asini obbedirono alla richiesta e si avvicinarono all’apostolo ansiosi di farsi aggiogare; Tommaso ne scelse quattro tra i più robusti e congedò gli altri.

Giunti alla città del generale, furono avvertiti che dieci demoni tormentavano crudelmente due donne, madre e figlia. Allora Tommaso comandò a uno degli asini selvatici di entrare nel cortile della casa ove si trovavano le donne e di compiere l’esorcismo, che dopo un movimentato scambio di battute tra i demoni e l’apostolo, alla fine riesce. A questo punto l’asino parlante prorompe in una vibrante predica con la quale esorta l’apostolo a continuare senza indugio la sua missione e che conclude mettendo in guardia dai falsi apostoli corruttori e ipocriti.KONICA MINOLTA DIGITAL CAMERA

Ora non ci dilunghiamo nella narrazione di altri episodi degli “Atti di Tommaso”, -che esulerebbe dall’argomento della nostra ricerca-; ricordiamo soltanto che l’opera si conclude con il martirio dell’apostolo, che viene trafitto da una lancia per ordine di un re locale, chiamato Mazdai, -che alcuni ritengono appartenente alla dinastia degli Indo-Sciti, i Kushana, rivale di quella indo-partica di Gondofar-, di cui però egli aveva convertito la sposa Terza e il figlio Vìzan. Rileviamo inoltre che questo testo, di cui sono note alcune versioni in lingua siriaca ed altre in lingua greca (7), e nel quale sono presenti elementi fantastico-avventurosi che denotano un’influenza del romanzo ellenistico, si segnala per la presenza di parti poetiche, tra le quali il famoso “Cantico della Perla” (o “Inno dell’Anima”) (capp. 108-113), che per afflato lirico e profondità dottrinale, è considerato una delle pagine più belle della letteratura mistica.

Non abbiamo finora fatto cenno ad uno degli asini più celebri della letteratura antica, che poi in realtà non è un vero asino, ma un uomo trasformato in asino, il protagonista del romanzo “Le Metamorfosi” (Metamorphoseon libri XI), noto anche con il titolo “L’Asino d’oro” (attestato in S. Agostino, De civitate Dei, XVIII, 18), dello scrittore latino Apuleio di Madaura vissuto nel II secolo e la cui opera letteraria si colloca durante il periodo di regno di Antonino Pio (138-161) e di Marco Aurelio (161-180). Com’è noto la storia è imperniata sulle vicende di un giovane scapestrato e attratto più dai piaceri della carne che dall’elevazione dello spirito il quale, a causa dell’errore di un’ancella, si ritrova in sembianze asinine.

In effetti egli intendeva trasformarsi in uccello, ad imitazione di una dama che aveva visto vivere l’inopinata (e temporanea) metamorfosi dopo essersi spalmata il corpo con un misterioso unguento; egli aveva chiesto all’ancella di poter ugualmente vivere la strana e affascinante esperienza, ma costei per sbaglio gli aveva portato un altro unguento e così Lucio, -così si chiama il protagonista del romanzo- anziché in volatile come bramava si trovò mutato in quadrupede (Met. III, 24). Tuttavia l’ancella, il cui  nome era Fotide, gli dice di non preoccuparsi poiché per riacquistare le sembianze umane gli basterà inghiottire dei petali di rose. Ma questo rimedio in apparenza semplice si rivelerà assai arduo da conseguire: infatti durante quella stessa notte in cui era avvenuta l’indesiderata metamorfosi la villa ove Lucio si trovava come ospite viene attaccata dai briganti per depredare le cospicue ricchezze in essa contenute; i bricconi per trasportarle si servono anche degli animali da soma ricoverati nella stalla, ove anche Lucio era stato condotto dopo la sua trasformazione, che così viene condotto nel covo dei lestofanti.

Da qui inizierà una lunga serie di peripezie, in cui l’asino vede e vive oppure sente narrare numerosi episodi, spesso poco edificanti, fino a che nell’ultima parte del romanzo egli disperato implora la dea Iside, la quale gli appare poi in sogno e gli dice che il giorno dopo durante la processione in suo onore, dovrà presentarsi al sacerdote: questi, a sua volta istruito dalla dea, gli avrebbe offerto una corona di rose con le quali avrebbe potuto finalmente riacquistare l’aspetto umano. Così avviene e Lucio profondamente rinnovato dalla drammatica esperienza che aveva vissuto e toccato dalla grazia della dea Iside decide di convertirsi alla religione isiaca e di seguire la via della spiritualità come prima aveva seguito il sentiero dell’abiezione.apu_asino

Da questa brevissima esposizione, -che non può certo dare un’idea della complessità e della ricchezza di quest’opera (che anche dal punto di vista linguistico e stilistico è assai originale)-, risulta come il senso e l’insegnamento della storia sia di tipo mistico: la conversione dallo stato di “bruto” prigioniero degli impulsi materiali alla libertà dell'”uomo nuovo”, fatto “per seguir virtute e canoscenza”; ovvero più in generale l’elevazione dell’anima umana dalle bassezze della sensualità alle vette dello spirito tramite l'”illuminazione” che viene da una divinità (divinità che però può essere vista anche come simbolo o manifestazione tangibile della “luce interiore”).

Tuttavia quest’opera pone non poche perplessità, proprio per lo stridente contrasto tra quello che dovrebbe essere l’ammaestramento in essa contenuto e il suo fine ultimo e il genere di narrazione attraverso il quale viene veicolato e proposto al lettore: infatti è del tutto evidente che, sia pure per mostrare lo iato tra la vita peccaminosa condotta dal protagonista prima della metamorfosi in asino e la sua redenzione, non era affatto necessario introdurre vicende e novelle che abbondano di licenziosità (oppure temperare tale licenziosità volendo mantenere l’inserzione tali episodi -poiché come vedremo sia la trama in generale sia la maggior parte delle digressioni novellistiche non sono state inventate da Apuleio ma derivano da opere precedenti-).

Si ha quindi l’impressione che l’insegnamento morale e mistico sia stato aggiunto in modo piuttosto estrinseco ad una storia che in sé non aveva nulla di spirituale, e che si conosce anche da altre fonti: in particolare essa è nota nelle sue linee principali da un altro romanzo della tarda antichità, “Lucio o L’Asino”, un tempo attribuita a Luciano di Samosata (perché tramandata insieme alle opere autentiche dello scrittore greco), ma ora concordemente dagli studiosi reputata spuria. Si suppone peraltro che quest’ultima sia a sua volta derivata da un altro testo, intitolato “Metamorfosi”, scritto da un certo Lucio di Patre -cioè l’attuale Patrasso in Grecia-, non altrimenti conosciuto e il cui nome -Lucio- potrebbe essere dovuto all’identificazione dell’autore con il protagonista della sua opera. Questo testo è andato perduto ma di esso parla il patriarca bizantino Fozio (820-890 circa) nel suo “Myriobiblon”, una raccolta di riassunti di opere greche, che abbiamo altre volte citato nelle nostre trattazioni.

Affresco di un ciclo pittorico rinascimentale ispirato alle "Metamorfosi" di Apuleio.
Affresco di un ciclo pittorico rinascimentale ispirato alle “Metamorfosi” di Apuleio.

La provenienza e l’antichità della vicenda principale narrata in questi romanzi antichi sono ignote. In effetti la storia dell’uomo che diventa asino e poi torna uomo si presta mirabilmente ad esprimere un significato allegorico ed è quindi improbabile che essa sia totale invenzione di un autore preciso -sia egli quel Lucio di Patre dalla dubbia identità di cui si è detto sopra, o un altro del tutto sconosciuto-. Più verosimile l’ipotesi che il nucleo della storia risalga a un arcaico mito di ambientazione egizia o anatolica, di cui non sono rimaste altre tracce.

Tenendo conto soprattutto del finale dell’opera di Apuleio, che è un’appassionata apologia della religione di Iside, annunciata come via salvifica e strumento di redenzione, molti commentatori hanno messo in relazione l’asino in cui si trasforma Lucio con Seth-Tifone, l’avversario di Osiride, e di riflesso anche di Iside, al quale, come abbiano visto nelle parti precedenti della presente ricerca, era associato l’asino; ma l’ipotesi non sembra attendibile poiché nella trama pre-esistente che lo scrittore latino ha utilizzato e rielaborato non v’è traccia alcuna del culto di Iside, e la redenzione ad opera della dea è un elemento da lui aggiunto per adattare ad essa il significato mistico e di propaganda della spiritualità isiaca -e in modo sottinteso neoplatonica, poiché la religione apuleiana ha sfumature decisamente filosofiche-, pur se non da escludere che tale circostanza abbia indotto a scegliere questa storia per esprimere il suo “messaggio spirituale”.

Ma dal punto di vista letterario il genere entro il quale, per esplicita dichiarazione di Apuleio (8), si può inquadrare questo romanzo è quello delle cosiddette “fabulae milesiae” (novelle di Mileto), -in greco “Mylesiakà” o “Mylesioi Logoi”-, novelle di carattere erotico, -talora assai licenzioso- e avventuroso, nelle quali spesso rientravano elementi magici e stregoneschi (trasformazioni, streghe, vampiri, lupi mannari, ecc.), com’è ovvio poco apprezzato dai filosofi e dagli intellettuali “impegnati”, essenzialmente popolare e “d’evasione” (come si direbbe ai giorni nostri). Tipico di queste narrazioni, di solito raccontate dal protagonista, il quale espone vicende che ha vissuto in prima persona o del quale è stato testimone o accadute a persone a lui ben conosciute, è la tecnica dell’incastro, per cui nell’interno di una novella ne viene inserita un’altra narrata da uno dei personaggi, -artificio peraltro non raro, che si ritrova ad esempio nelle “Metamorfosi” di Ovidio o nelle “Mille e Una Notte”-. Massimo esponente di questo genere fu Aristide di Mileto, -dalla patria del quale trassero il nome con cui sono designate-, vissuto nel I secolo a. C., che sembra abbia raccolto e messo per iscritto materiali novellistici tramandati prima per via orale, ma della cui opera non è rimasto quasi nulla (9).

La chiave di interpretazione è forse contenuta in una brevissima frase che conclude l’introduzione della “Metamorfosi”: “Lector, intende: laetaberis!”. Essa infatti potrebbe avere il senso più semplice e ovvio di “Lettore, stai attento: avrai di che divertirti!”, grazie al diletto e al riso suscitato dalle “sollazzevoli istorie” che l’autore si appresta a narrare (10); ma d’altro canto potrebbe anche significare: “lettore, presta molta attenzione a quanto stai per leggere, poiché ne trarrai proficui insegnamenti!”. E naturalmente le due interpretazioni possono coesistere, ed anzi questo doveva essere l’intento di Apuleio: offrire una storia leggibile su due livelli: uno più immediato proprio del lettore profano, che non va oltre il significato immediato, divertendosi con i molti episodi fantasiosi e licenziosi che contiene; l’altro invece più profondo, destinato al lettore “filosofo”, che sappia cogliere sotto la vernice del romanzo avventuroso un drammatico cammino di iniziazione alle verità supreme e al senso autentico dell’esistenza.

Secondo Ettore Paratore, le peripezie di Lucio e di alcuni dei personaggi secondari dell’opera possono essere lette quali tappe di un itinerario di espiazione, fino alla finale salvezza, e le turpitudini degli uomini tormentati dai vizi e dalle passioni più distruttive (soprattutto dall’avidità e dalla lussuria), mostrate in modo impietoso nelle vicende che si intrecciano nel romanzo avrebbero proprio lo scopo di suscitare la nausea e il disgusto verso il modo terreno, che induce a sua volta alla “conversione”, ad un’ascesa verso l’assoluto, l’Uno divino e immutabile, in una prospettiva neoplatonica, verso il “regno dei Cieli” in una concezione evangelica.

Mosaico con Eros e Psiche proveniente da Zeugma in Asia Minore.

Questo non toglie che, come si è detto, i due aspetti più che fondersi, -cosa peraltro assai difficile, data l’enorme distanza tra di essi,- rimangano giustapposti, fino alla conclusione mistica che dovrebbe illuminare e mostrare in una luce di superiore moralità anche le parti precedenti che paiono ben poco in linea con gli intenti dell’autore; si potrebbe dire che si parte con una prospettiva e si arriva con un’altra: l’ipotetico lettore-tipo, che aveva cominciato a interessarsi alla storia di Lucio solo per divertimento e curiosità (come “curiosus” è detto Lucio), alla fine si trova a riflettere su un profondo insegnamento morale e spirituale dal quale potrà trarre giovamento. E questo è quanto succede a Lucio (e probabilmente ad Apuleio stesso, sebbene sulla profondità e la sincerità della sua “conversione” sia molto azzardato dare dei giudizi dal momento che ben poco si sa di lui, escludendo quello che egli stesso dice di sé nelle sue opere)(11): se la sensualità, la curiosità e il desiderio di esperienze strane ed eccitanti lo mettono nei guai e lo precipitano in una dolorosa condizione, tuttavia sarà proprio attraverso questa “caduta” che troverà il mezzo di redimersi e imboccare la via verso il divino.

I critici e gli storici della letteratura latina (R. Merkelbach, E. Paratore, A. Mazzarino, P. Scazzoso e altri) invero hanno spesso sostenuto che la sintesi o il punto di incontro tra i due piani dell’opera sia il celeberrimo racconto la (“bella fabella”) di Amore e Psiche, che occupa proprio la parte centrale del romanzo (tra il libro IV e il libro VI), e che dovrebbe per così dire riassumere ed esprimere il significato profondo dell’opera: essa viene narrata da una vecchia domestica che doveva sorvegliare Carite, la fanciulla rapita dai briganti, per tranquillizzarla.

In questa sede non analizzeremo la trama della lunga novella che tratta delle peripezie di Psiche (l’Anima), -nome che già denota senza alcun dubbio che la figura e la vicenda della protagonista adombrano il ritorno dell’anima individuale all’unità divina-. Ci limitiamo a dire che in essa si trovano elementi narrativi che torneranno spesso nella tradizione fiabistica popolare, a cominciare della stesso “incipit” della storia, “c’erano una volta un re e una regina” (Erant in quadam civitate rex et regina), (la rivalità delle sorelle malevole, l’ostilità di una “matrigna” -che qui è Venere, e quindi la “suocera” di Psiche-, le prove che l’eroina deve superare, tra le quali dover separare semi di diverse specie, -come Cenerentola, ma a differenza di quest’ultima, aiutata dalle colombe, Psiche ottiene l’ausilio delle formiche per compiere l’ingrato lavoro-, ecc.).

Ignota è la fonte di questa storia, che per la sua struttura si può definire una vera fiaba nel senso moderno; di certo non fu inventata di sana pianta da Apuleio, il quale però è probabile che abbia combinato insieme temi ed elementi di varia provenienza, inserendovene altri di sua ideazione, adattandoli ad esprimere un contenuto mistico-filosofico (tenendo conto peraltro che i miti -di cui è proprio esprimere complesse concezioni per immagini, e non attraverso ragionamenti-, ai quali deve essersi ispirato dovevano certamente, come tutte le narrazioni di questo tipo, avere anch’essi un significato simbolico-allegorico).

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) Ciro, patriarca di Alessandria dal 630 alla morte nel 641, fu poi nominato anche governatore civile quando gli Arabi guidati da Amr ibn al-As si apprestavano a invadere l’Egitto. Fu un sostenitore della dottrina “monotelita” (o “monoteletita”), una forma attenuata di monofisismo -o se si vuole un compromesso tra quest’ultimo e l’ortodossia- che, pur non attribuendo al Cristo la sola natura divina, ammetteva un’unica volontà, quella divina, che non poteva quindi dal essere in qualche modo contrastata, anche solo in potenza, da quella umana. Questa soluzione teologica era stata escogitata da Sergio, patriarca di Costantinopoli dal 610 al 638, anche per favorire il riassorbimento dei monofisiti, numerosi in Egitto e in Siria, nell’ortodossia, in un momento critico per l’Impero Bizantino, sottoposto ai duri attacchi dei Persiani Sassanidi e poi degli Arabi, e che avrebbe avuto bisogno di ritrovare la sua compattezza. In effetti lo stato bizantino fu spesso lacerato da contrasti religiosi e da controversie teologiche che non di rado veicolavano anche proteste politiche e inquietudini sociali e che propiziarono la conquista arabo-islamica delle sue regioni sud-orientali.

2) tra i quadrupedi di cui il profeta si servì quale mezzo di trasporto si annoverano il cavallo roano Murtajaz (“Irruente”), il cavallo nero Sakb (“Veloce”), la cavalla bianca Faddah (“Argento”, che in arabo è femminile), donatagli da Farwah al-Judamhi, governatore bizantino, e il dromedario Kaswa  -o Qaswa- (“Dalle orecchie fesse”), ma in varie fonti e tradizioni sono ricordati i nomi di altri undici cavalli, appartenuti a Maometto o che hanno comunque alcun rilievo nell’esistenza terrena del profeta. Tra questi ultimi uno dei preferiti fu Zuljanah, che il fondatore dell’islamismo donò poi a suo nipote Husayn Alì, che fin da bambino aveva una particolare predilezione per il cavallo, il quale a sua volta mostrava una singolare devozione al futuro califfo, stando inchinato allorché questi lo volesse cavalcare. Zuljanah ha una certa importanza nella processione che si svolga annualmente a Karbala in Iraq pe rievocare il martirio di Alì nel decimo giorno del mese di muharram, -il primo dell’anno lunare islamico-, in cui, com’è ovvio, viene “interpretato” da un cavallo vivente.

3) le fonti più accreditate e autorevoli (ibn-Ishaq; ibn-Hisham; al-Tabari) attribuiscono al profeta fondatore della religione islamica non meno di undici mogli -tra le quali le principali sono Kadija bint-Khuwalid, -la prima delle donne da lui sposate-, Aisha bint-Abu Bakr (figlia del futuro primo successore di Maometto e califfo dell’Islam Abu Bakr, almeno per i sunniti, -mentre per gli sciiti il primo califfo è Alì, genero di Maometto-) e l’arabo-ebrea Safiyya bint-Huwayy-. Maometto avrebbe avuto tre figli maschi e tre figlie, -tutti dalla prima moglie Kadija-, ad eccezione del citato Ibrahim, da Marya al-Qubitiyya. Quasi tutti morirono prima del padre: l’unica che gli sopravvisse fu Fatima, moglie di Alì; si noti però che per gli Sciiti l’unica figlia femmina sarebbe stata quest’ultima.

4) Gondofar, o Gondofare, -Vindafarna in persiano e Gandapharna in sanscrito (“Possa egli trovare gloria”)-, fu il fondatore del regno Indo-partico: egli infatti nel 20 d. C. si rese indipendente dall’Impero dei Parti Arsacidi, costituendo con le province più orientali di quest’ultimo uno stato che comprendeva l’odierno Pakistan e parte dell’Afghanistan dove si incontravano e si fondevano le civiltà persiana e indiana, con rilevanti influenze greche e mesopotamiche. Il territorio di questo regno, che aveva come capitale la città di Taxila, venne però rapidamente eroso dall’espandersi dei Kushana, di stirpe indo-scitica, provenienti dall’Asia centrale, i quali avevano fondato un vasto impero nell’India centro-settentrionale, finchè non scomparve del tutto intorno al 135. Secondo Ernest Herzfeld dal nome di Gondofar sarebbe derivato quello della città di Kandahar, nell’attuale Afghanistan; tale toponimo è però da ritenere con maggiore probabilità una deformazione di “Iskandar”, poiché tale città era stata fondata o rifondata da Alessandro Magno con il nome di Alessandria d’Aracosia (ed era dunque una delle tante città che si denominarono dal celebre condottiero macedone). Osserviamo inoltre che Gondofar, tramite la forma armena “Gastaphar”, sarebbe all’origine del nome attribuito dalla tradizione ad uno dei Magi, Gaspare, che sarebbe stato appunto un re dell’India.

5) nei vangeli e negli altri testi canonici nulla viene detto della professione dell’apostolo Tommaso e di lui non si trova più alcun cenno né negli “Atti degli Apostoli”, né nelle “Lettere” del NT. Secondo antiche tradizioni, si sarebbe recato in Mesopotamia e sarebbe poi morto a Edessa, capitale dell’Osroene, dove veniva mostrato il suo presunto sepolcro; per Eusebio di Cesarea si sarebbe spinto fino in India, confermando così la notizia dell’apocrifo.

6) in effetti si potrebbe obiettare che per la medesima ragione non si dovrebbero neppure guarire le malattie o compiere comunque azioni che modificano il destino delle creature umane e non, dal momento che se le condizioni negative sulle quali si interviene erano volute da Dio, non sarebbe lecito né opportuno operare contro di esse.

7) la redazione originaria sembra però fosse in siriaco.

8) “Sermone isto Milesio varias fabulas cònseram” proclama infatti Apuleio nell’introduzione della sua opera (I,1).

9) a questa tradizione novellistica attinse probabilmente anche Erodoto, il quale, com’è noto, inserì nella sua opera storica alcuni racconti avvincenti e fantasiosi, come quelli di Gige e Candaule (Storie, I, 8-12) e di Rampsinito (II, 121), quest’ultimo degno de “Le Mille e una Notte”.

10) peraltro non si deve dimenticare che nelle “Metamorfosi” apuleiane non mancano diverse parti tragiche o tristi come la storia di Carite, la fanciulla rapita dai briganti,il cui fidanzato, Tlepolemo, che l’aveva liberata, viene assassinato dal rivale Trasillo; la fanciulla, avvertita in sogno da Tlepolemo di essere stata uccisa da Trasillo, finge di acconsentire a sposare quest’ultimo, ma poi trovatasi sola con lui gli trafigge gli occhi con uno spillone e, poi si suicida dopo aver confessato quanto era successo (VIII, 1-14); o come nel libro IX (12-13) la realistica descrizione delle durissime condizioni in cui erano costretti a condurre la loro misera esistenza sia gli schiavi umani sia gli animali da soma che lavoravano senza sosta in un mulino, sottoposti a uno spietato sfruttamento.

11) in età medioevale Apuleio godette fama di “sapiente” e “mago” paragonabile, sebbene inferiore, a quella di Virgilio. Tuttavia egli, -come risulta dalle sue opere-, di certo non fu un filosofo originale e profondo, e tanto meno un taumaturgo o un profeta, ma un intellettuale sensibile e ricettivo alle molteplici e talvolta contraddittorie correnti culturali e spirituali della sua epoca, che cercò di combinare in modo non sempre felice nelle sue opere. Si potrebbe affermare che come letterato fu senza dubbio geniale, come filosofo molto meno; ma un “maestro spirituale” non lo fu per nulla. Lo stesso XI libro delle Metamorfosi, quello “mistico”, mostra delle evidenti cadute di tono: ad esempio nel capitolo 23, Lucio accenna a quanto ha assistito durante la sua iniziazione ai misteri di Iside (accenna soltanto perché gli adepti dei culti misterici erano tenuti a tenere segreti i riti a cui partecipavano), dicendo di essere stato trasportato attraverso tutti gli elementi del cosmo, di essersi presentato a tutti gli dei del cielo e degli inferi, ecc.: in effetti è poco verosimile che un intellettuale smaliziato come Apuleio potesse dar credito ai trucchetti da baraccone di luna-park a cui si ricorreva durante le iniziazioni alle “chiese” misteriche, che si svolgevano di solito in camere sotterranee, per impressionare gli iniziandi. Inoltre l’iniziazione di Lucio ai misteri alla fine della sua avventura intesa come esperienza del tutto nuova, appare in contrasto con quanto si legge in III, 15, dove Fotide nel fare appello alla sua riservatezza sui segreti magici che si appresta a svelargli, gli ricorda i molti sacri misteri dei quali già era stato partecipe: se ne deve dunque dedurre che, nonostante le numerose “iniziazioni”, il libidinoso Lucio non avesse fatto molti progressi spirituali! E’ evidente che tra questi misteri non rientravano quelli di Iside (“arcana purissimae religionis secreta” gli arcani segreti della più santa delle religioni -XI, 21-), -nei quali entrerà alla fine della storia-, ma le religioni misteriche non erano certo esclusiviste, e i seguaci di una non respingevano le altre, anzi era normale, specie in certi ambienti altolocati, essere adepti di parecchie di esse (forse più per moda che per convinzione), per cui egli anche prima di accostarsi alla spiritualità isiaca, non avrebbe dovuto essere considerato del tutto “profano”. Inoltre gli ultimi capitoli (26-30) appaiono decisamente pleonastici e tolgono più che aggiungere intensità a quel processo di ascesa spirituale prima descritto: in essi l’autore parla della sua partenza per Roma dove fissa la sua dimora e comincia la carriera forense, poi dell’iniziazione ai misteri di Osiride, che lo stesso dio aveva sollecitato apparendogli in sogno, infine della sua “professione religiosa” con la quale diviene sacerdote; ma il tutto si risolve in una descrizione piuttosto stanca e monotona, che offre ben poco interesse sul piano letterario e ancor meno su quello dottrinale.

 

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