OSSERVAZIONI SULLA NASCITA DEL CRISTIANESIMO -appendice: le prove dell’esistenza di Dio

Una tesi simile sulla pluralità di figure confluite in Gesù Cristo, per quanto prevalentemente improntata non a un esame storico-documentario, ma a una visione mistico-esoterica è quella formulata da Rudolf Steiner. Per il fondatore dell’antroposofia esistettero due Gesù: entrambi avevano genitori di nome Maria e Giuseppe ed erano discendenti di Davide, ma uno da Salomone, nel quale riviveva la sapienza regale del grande sovrano ebraico, che sarebbe nato a Nazareth, e del quale parla il vangelo di Matteo; l’altro invece era discendente di Nathan (1), venuto alla luce a Betlemme, che incarnava soprattutto la comprensione divina, ed è quello descritto nel vangelo di Luca. Quest’ultimo peraltro sarebbe stato anche la reincarnazione di Zarathustra (o Zoroastro che dir si voglia), e in tale qualità avrebbe ricevuto la visita e l’adorazione di magi persiani (o meglio mesopotamici, seguaci della religione sincretistica astrale zoroastriana diffusasi in Mesopotamia dopo la conquista persiana).

Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che, -come abbiamo segnalato nella parte precedente-, le genealogie di Gesù elencate nel vangelo di Matteo e in quello di Luca, per quanto riguarda la lista degli antenati da Davide in poi, sono pressoché totalmente diverse, tanto che appare ben difficile conciliarle e spiegarne la divergenza con inesattezze, sviste o diverse versioni accettate dagli evangelisti.

Gesù fanciullo insieme a Giuseppe.
Gesù fanciullo insieme a Giuseppe.

Notiamo inoltre che al vertice del novero degli antenati di Gesù, -anche “secondo la carne”- viene posto Dio stesso e che la lista è suddivisa in multipli di sette: ci sono 21 nomi da Dio a Tare, padre di Abramo, presenti solo nella narrazione di S. Luca; 14 da Abramo a Davide; da Salomone a Giuseppe vi sono 28 nomi in Matteo, e da Nathan a Giuseppe (che dovrebbe essere un altro Giuseppe rispetto a quello indicato da Matteo) 42 nomi in Luca. Un altro particolare significativo che differenzia il racconto dei due evangelisti è che mentre Matteo apre la sua narrazione con la genealogia di Gesù iniziando da Abramo per giungere a Giuseppe, Luca pone la lista dopo aver parlato del battesimo nel Giordano e procede a ritroso partendo da Giuseppe e arrivando niente meno che ad Adamo e a Dio stesso.

All’età di dodici anni il Gesù-Salomone si sarebbe fuso con il Gesù-Nathan e questo straordinario processo avvenne, secondo Steiner, durante la misteriosa scomparsa dopo la visita con i genitori al tempio di Gerusalemme durata tre giorni (2) di cui si parla nel vangelo di Luca, e che si concluse con il ritrovamento del fanciullo tra le mura del tempio che disquisiva con i dottori. Il Cristo vero e proprio, -ossia il Logos divino- discese nella persona di Gesù al momento del battesimo nel Giordano e ne abbandonò il corpo dopo la crocifissione, diventando lo “Spirito della Terra” (3); egli apparve poi come “luce” ai discepoli dopo tre giorni.

E’ più che evidente che la nascita verginale di Cristo, la resurrezione l’ascensione non possono essere in alcun modo “dimostrate” o “comprovate” attraverso ricerche, testimonianze e ricostruzioni storiche più o meno veridiche e attendibili, e tanto meno con argomentazioni di tipo logico-filosofico; e d’altro canto è altrettanto evidente che se si riduce la figura di Cristo, -ammettendone sufficientemente comprovata la realtà storica-, a quella di un semplice profeta o riformatore religioso, o addirittura a quella di una sorta di agitatore sociale o di restauratore della potenza del popolo ebraico, i fondamenti stessi della fede cristiana crollano miseramente: in altre parole è inevitabile che quanto più la figura di Cristo acquista, -o per meglio dire potrebbe acquisire in via ipotetica- in “storicità”, tanto più perde in “divinità”.

Una tendenza costante nel cristianesimo, -specie in quello occidentale, molto meno in quello orientale-, è il tentativo di “dimostrare” per via logico-razionale, e/o di “comprovare” attraverso prove documentali, -come testimonianze e “reliquie”-, e quindi su un piano storico le “verità di fede”.

In effetti da un punto di vista logico tali tentativi sono delle aporie, perché è, o dovrebbe essere ovvio, che se venisse “dimostrato” un contenuto di fede, esso non sarebbe più tale, e dunque da un lato ne risulterebbe di fatto negata la libertà umana, -dato che non si potrebbe negare l’assenso a tale contenuto (4)-, dall’altro verrebbe meno qualunque merito del fedele dovuto alla sua cooperazione attiva all’opera pur gratuita di redenzione della divinità.

Tuttavia in gran parte tutta la filosofia cristiana occidentale del ME, -quella che fu detta “filosofia scolastica” (cosiddetta per il fatto che essa era coltivata nelle scuole, prima quelle episcopali e monastiche, e in seguito nelle università), e in specie la “seconda scolastica” caratterizzata dalla “riscoperta” di Aristotele, e dalle forti influenze del pensiero islamico- ebbe il fine dichiarato di fornire una base razionale alla fede cristiana, -secondo il principio mirabilmente sintetizzato ed enunciato da S. Anselmo d’Aosta della “fides quaerens intellectum”-, avvalendosi non solo degli strumenti logici e dialettici della filosofia greca, ma anche dei suoi principi metafisici. Attraverso l’ausilio degli antichi maestri, prima Platone, e poi soprattutto Aristotele, – il cui pensiero nei secoli VII-XII era spesso mediato da fonti neoplatoniche, ma in seguito fu conosciuto nella sua forma originaria, oltre che nelle interpretazioni e sviluppi dati sia in età ellenistica sia dagli Arabi- ci si sforzò sia di far apparire i contenuti della rivelazione come i più convincenti e rispondenti alle esigenze non solo dello spirito, ma  pure dell’intelletto, sia di dimostrare se non la fede in sé -che evidentemente non poteva e non doveva essere dimostrata per i motivi anzidetti- i “preambula fidei”, ovvero le premesse della fede, per cui quest’ultima doveva considerarsi del tutto ragionevole, e non fondarsi esclusivamente su un atto della volontà o essere un’esperienza emotiva (5).

Tra questi ultimi ricordiamo in particolare le “cinque vie” per giungere a dimostrare l’esistenza di Dio, proposte ed enunciate da S. Tommaso d’Aquino, ciascuna delle quali a sua volta porta a determinare uno degli attributi di Dio: atto puro; causa prima; ente necessario; somma perfezione; governatore intelligente del mondo. Nel determinare queste vie egli utilizza e riprende argomenti e concetti desunti dalla fisica e dalla metafisica aristoteliche: il moto, -per cui Dio risulta il “motore immobile”, fonte e causa di qualunque altro movimento; il principio di causa efficiente, per cui all’origine della catena di cause ed effetti, -a loro volta cause di altri effetti)-, presenti e in cui anzi si manifesta il mondo e il suo divenire presuppone l’esistenza di una causa prima, che non è effetto di alcuna altra causa precedente; la constatazione nel mondo sensibile della presenza del possibile e del contingente, oltre che del necessario, che porta a concludere che se vi fossero solo enti possibili o contingenti, -e che quindi potrebbero esistere o non esistere-, non vi sarebbe più alcuna realtà e di conseguenza deve esistere un ente necessario; i gradi di perfezione che si riscontrano nell’Universo, per cui deve esservi un grado di perfezione sommo quale riferimento per gli altri e che dà ad essi valore; la finalità presente in tutti gli enti naturali, anche quelli privi di pensiero e sensibilità, e che dunque non hanno un fine individuale e autonomo per il loro dinamismo, per cui se ne deduce che il fine della loro esistenza derivi da un ente esterno e superiore.

Le argomentazioni di S. Tommaso vanno oltre la cosiddetta “prova ontologica” dell’esistenza di Dio proposta da S. Anselmo più di due secoli prima, -ovvero che l’Essere perfettissimo non può non avere anche la perfezione dell’esistenza- e che lo stesso Aquinate ricusa, ma rimangono sempre limitate ad un’idea puramente razionale della divinità, e non potrebbe essere diversamente dato il carattere equivoco di tale nozione e polivalente del termine che la designa -“dio”-, che in effetti acquista un reale significato solo se inserito in determinato contesto culturale e/o dottrinale ( ma potremmo dire anche psicologico e antropologico). E il dio impersonale platonico, aristotelico e stoico appare comunque ben lontano dal dio della Bibbia -e pure del Corano-.

Il “dio dei filosofi” può sì essere concepito (quale Essere assoluto, Principio universale, Energia pura, Sommo Bene, Io cosmico) e in un certo senso dimostrato con la ragione, ossia con gli strumenti logici della mente; ma, come insegnano i neoplatonici, solo con un’esperienza personale e uno slancio interiore, per quanto imperfetto e mai del tutto adeguato, “per lampi” si può tentare di penetrarne l’essenza.

E in effetti l’ambiguità di voler usare la ragione, cioè le facoltà logico-critiche, per giungere forzatamente a conclusioni predeterminate (“credo ut intèlligam”) condusse spesso i pensatori della scolastica, anche contrariamente alle loro intenzioni, a porsi in contrasto con l’ortodossia cattolica. E inevitabilmente l’assunto iniziale della filosofia scolastica, -che la rivelazione e la fede offrono dei contenuti che la ragione e la filosofia devono solo approfondire e chiarire nella certezza che non potrà esservi reale conflitto tra i due ambiti-, finì per indebolirsi vieppiù e si manifestarono presto interpretazioni, tendenze e sviluppi dottrinali di sapore panteistico, naturalistico e razionalistico, che talora si congiungevano a tematiche mistiche giudicate eterodosse.

Già il neoplatonismo panteistico di Giovanni Scoto Eriugena, vissuto nel IX secolo, il più importante filosofo dell’Alto ME, aveva suscitato diffidenze e condanne ecclesiastiche durante la sua vita e ancor più dopo la morte, -anche perché in seguito spesso pensatori consapevolmente eterodossi si richiamarono alle sue tesi sulla sostanziale identità tra Dio e Natura-. Per Pietro Abelardo (1079-1142) la teologia e la filosofia non possono giungere a conclusioni definitive sulla natura di Dio e del mondo e dunque non è possibile dimostrare in modo inconfutabile le “verità di fede” e in ultima analisi qualunque altra verità o presunta tale.

Ugualmente orientata a concezioni neoplatoniche e panteistiche (tra cui spicca l’identificazione dell’Anima del Mondo con lo Spirito Santo), in cui però all’interesse per il mondo naturale si congiunse una forte vena mistica fu la scuola di Chartes, fiorita nel XII secolo, i cui più insigni rappresentanti furono Teodorico di Chartres e Guglielmo di Conches.

L’approccio razionale-filosofico investì pure tematiche squisitamente teologiche, come la presenza di GC nell’eucarestia (la “transustanziazione”) che si cercò di giustificare o sulla quale si espressero dubbi applicando anche in questo ambito le categorie aristoteliche, -come fece Berengario di Tours che sembra ne abbia dato un’interpretazione solo simbolica-.

In altre parole sempre più dalla “fides quaerens intellectum”, la fede che trova una spiegazione più o meno razionale (6) in una ricerca filosofica che presuppone e si muove nell’ambito della rivelazione e della fede, e che rifiuta quanto eventualmente non si accordi con essa, si passa all'”intellectus quaerens fidem”, una filosofia che si muove in modo indipendente dalla fede e non accetta quanto di quest’ultima sia in contrasto con il suo sforzo speculativo e le sue risultanze: non vale dunque più il principio del “credo ut intèlligam”, ma piuttosto dell'”intèlligo ut credam”, seguendo il quale diversi pensatori e teologi sfociano in concezioni palesemente ereticali. Su questa linea si sviluppa il panteismo naturalistico di Amalrico di Bene, -il cui pensiero anche a causa delle condanne ecclesiastiche che subì non è conosciuto con precisione, ma che potrebbe essere riassunto nelle due formule “Deus est omnia” e “Omnia sunt Deus”- e di Davide di Dinant.

Più tardi con l’irrompere nelle università europee della conoscenza delle opere del filosofo arabo Averroè (Abu al-Walid Muhammad ibn-Rushd -1126-1198-), e soprattutto dei suoi commenti ad Aristotele, si sviluppò la corrente dell’averroismo latino (sebbene le dottrine del grande pensatore arabo abbiano esercitato la loro influenza su quasi tutti i filosofi latini del periodo), nella quale spicca in special modo la figura di Sigieri di Brabante, l’acuto avversario di S. Tommaso d’Aquino.

La disputa dottrinale riguardò in specie il problema dell’intelletto: Averroè non solo ritiene l’intelletto attivo -o agente- sostanza separata da quello passivo -o possibile-, per quanto universale, ma inferiore a Dio (per mantenere la trascendenza di Allah), ma divide pure l’intelletto passivo, anch’esso ingenerato, incorruttibile e immortale- da quello individuale, che è dunque generato e mortale (7).

La concezione averroistica aveva avuto il suo più importante precedente nell’antichità nel pensiero di Alessandro di Afrodisia, il quale, oltre a ritenere l’intelletto attivo universale e trascendente (in pratica coincidente con Dio stesso), concepì anche l’intelletto passivo unico e infuso negli individui umani, ma lo sdoppiò in uno puramente predisposto alla conoscenza (i, fisico o potenziale) e uno che accoglie in concreto i contenuti della stessa (i. acquisito).

Anche Sigieri di Brabante, seguendo Averroè, reputa che l’intelletto possibile sia unico per tutta la specie umana; ma, a differenza del maestro, pensa che esso solo nell’operazione dell’intendere si congiunga all’anima individuale tramite la fantasia, per mezzo della quale l’intelletto agente universale fa in modo che l’intelletto possibile si renda dalla potenza all’atto; così l’atto dell’intendere avviene in ogni singola anima individuale mediante specie immaginative da individuo a individuo, pur essendo l’intelletto che acquisisce il sapere unico.

Il corollario delle posizioni come quella alessandrinista e averroistica, che concepiscono intelletto attivo e int. passivo, -e solo quest’ultimo congiunto in modo essenziale o accidentale all’anima umana individuale-, è che si verrebbe a negare l’immortalità dell’anima. Per tale motivo esse furono confutate da S. Tommaso d’Aquino nel “De unitate intellectus contra averroistas”, ove riprendendo la tesi di Temistio, filosofo aristotelico del IV secolo, sostenne che l’intelletto è unico: esso è una facoltà dell’anima, che a sua volta è immortale (8)(9).

Con il dissolversi della Scolastica, le vie della filosofia e della teologia si separarono, pur se talvolta tornarono ad incrociarsi; questo non significa però che la chiesa cattolica, in questo spalleggiata dal potere civile, non abbia perseguitato con accanimento e spesso con crudeltà tutt’altro che evangelica tutti coloro che osassero esprimere opinioni e concezioni filosofiche da essa considerate in contrasto con la sua dottrina.

Ma per “dimostrare” agli increduli o “corroborare” la fede dei credenti nelle sublimi verità della religione cristiana, ancor più che le argomentazioni filosofiche, furono considerate “prove” di indiscussa validità le numerosissime reliquie, i miracoli compiuti dai santi o addirittura da Gesù o Maria per il tramite dei loro simulacri, e le apparizioni, specie mariane.

CONTINUA NELL’APPENDICE SECONDA (28 febbraio 2018)

Note

1)anch’egli figlio di Davide e Betsabea del quale si parla nel secondo libro di Samuele (V, 14, 1) e nel primo libro delle Cronache (III, 5 e XIV, 4). Non si deve confondere questo Nathan con l’omonimo profeta vissuto sempre al tempo di Davide.

2) si osservi che questa sparizione e il successivo ritrovamento dopo tre giorni richiamano in modo incontestabile la morte e resurrezione del Gesù adulto.

3) si tenga presente che per Steiner, -come abbiamo precisato nella XIV parte della precedente ricerca sul Bue e sull’Asino nel presepe-, i corpi celesti attraversano processi di incarnazione ed evoluzione analoghi a quelli delle entità angeliche e umane, per cui la Terra in cui ora viviamo è la reincarnazione di altri pianeti che l’hanno preceduta e a sua volta alla fine del ciclo attuale si incarnerà in un altro corpo celeste.

4) in questo il problema si lega in generale a quello della “conoscenza” umana, dei suoi limiti e del suo carattere, sia pur parzialmente, oggettivo, o del tutto soggettivo, e se la soggettività vada in senso del tutto individuale, -cioè del singolo-, o in senso specifico -ovvero sia connesso all'”umanità” in quanto tale-.

5) è bene precisare che mentre l’apologetica e la patristica dei primi secoli, -soprattutto quelle orientali- miravano a sostenere la compatibilità tra fede cristiana e filosofia greca, e vedevano anzi in quest’ultima, nelle sue forme più elevate, una sorta di “rivelazione indiretta” fatta da Dio ai filosofi greci, specie ad alcuni di essi, -massime Platone-, tramite gli strumenti dell’intelletto, e dunque fede e filosofia, in parte coincidevano (e questa è in sostanza la concezione del rapporto tra filosofia e religione, tra ragione e fede rimasta prevalente nelle chiese orientali), ma con la differenza che la prima andava oltre la seconda, i filosofi scolastici intendevano giustificare la fede con gli strumenti della filosofia. Anche nell’ambito dell’Islam si svilupparono scuole filosofiche che miravano a giustificare la fede nel Corano con argomentazioni logico-filosofiche e che si possono qualificare come “scolastica islamica”.

6) non si confonda però “razionale”, cioè che si sviluppa secondo procedimenti logici che garantiscono la correttezza interna e formale del ragionamento, con “razionalistico” ovvero con la posizione propria delle filosofie razionalistiche, come il cartesianesimo, per le quali la “ragione”, -che in questo senso corrisponde piuttosto alla “dianoia” di Aristotele che al “nous”-, oltre che essere la fonte privilegiata, -se non unica-, di conoscenza, è lo strumento perfettamente in grado di comprendere e interpretare il reale, e dunque non è solo strumento o mezzo, ma fonte di conoscenza, e ha un valore gnoseologico assoluto.

7) sul modo di intendere i due intelletti ipotizzati da Aristotele si svilupparono due gruppi di tesi: quelle di coloro che ritennero che l’intelletto attivo una entità completamente distinta da quello passivo, con carattere trascendente e non propria del singolo individuo, che in pratica viene a indentificarsi con Dio (tra ci ricordiamo Alessandro di Afrodisia, il quale sdoppiava a sua volta l’intelletto passivo in una parte puramente disponibile alla conoscenza (“I. fisico”) e una che ne riceve i contenuti (“I. acquisito”). E quelle dei filosofi, come ad esempio Temistio, che sostengono invece che i due intelletti sono due parti una medesima sostanza, la quale a sua volta è la componente principale dell’anima intellettiva umana.

8) osserviamo che, nonostante le sue concezioni eterodosse, Dante pone Sigieri in Paradiso, nel cielo del Sole ove appaiono al poeta gli spirti sapienti di filosofi e teologi, ed anzi ne mette le lodi in bocca proprio a Tommaso d’Aquino che in vita era stato il suo grande avversario (Par. X, 136-138: “Essa è la luce eterna di Sigieri,/ che, leggendo nel vico degli strami [la via della paglia, dove in Parigi avevano sede le scuole di filosofia]/, sillogizzò invidiosi veri”).

9) una ripresa in forma originale della tesi alessandrista si ebbe in età rinascimentale con l’opera di Pietro Pomponazzi (1462-1525), il quale giunse a negare l’immortalità dell’anima, pur trovandosi al confine tra gli enti materiali e quelli immateriali (scrisse che “profuma di immortalità”).

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