L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -quarta parte (Seth; l’Asino presso Egizi ed Ebrei; le orecchie di Mida)-

Seth appare anche come uno dei protagonisti nel “Giudizio di Horo e di Seth”, un testo di carattere narrativo più che mitico in senso stretto, noto da un papiro risalente alla XX dinastia (1188-1069 a.C.). In questa storia davanti al tribunale presieduto dal “Signore Universale” Atum, somma divinità dell’Enneade Eliopolitana, nel quale sono presenti molte delle divinità egizie, Horo figlio di Osiride e di Iside e Seth si disputano l’eredità e l’ufficio del rispettivo padre e fratello.

Seth rivendica l’eredità di Osiride proprio adducendo l’indispensabile funzione di combattente in difesa della barca solare di Ra contro la forza e le insidie di Apophis; ma, dopo un interminabile processo che si protrae, con alterne vicende e molti colpi di scena, trasformazioni e sfide, per 80 anni, alla fine la corona bianca di Osiride viene assegnata ad Horo, che viene così acclamato re d’Egitto e signore di ogni paese per l’eternità. Quanto a Seth, egli non è condannato, ma Ra, -che ha sempre mostrato una certa simpatia per lui, forse a cagione del valido aiuto che ne riceve nella lotta contro Apep-, dichiara che siederà al suo fianco e urlerà dal Cielo quando vorrà fare udire la sua voce che annuncia il temporale.

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Horo con la corona doppia che riunisce le corone dell’Alto e del Basso Egitto, lo “pschent”.

Questa narrazione è una testimonianza del mutamento della mitologia avvenuto nell’epoca del “Nuovo Regno”, quando le figure divine, secondo un processo paragonabile a quello avvenuto poi anche in Grecia, e ravvisabile soprattutto nella letteratura, tendono a perdere il simbolismo mistico e la sacralità inaccessibile che avevano in origine, per assumere un carattere sempre più umano e popolare. Mentre nella speculazione sacerdotale gli dei tendono a farsi sempre più vaghi e inconoscibili, privi di tratti definiti, e ad apparire come ipostasi di una sola unità divina, che si manifesta con aspetti e con nomi diversi, il popolo mantiene, e talora accentua, in funzione rappresentativa e narrativa la personalità attribuita da una lunga tradizione a ciascuna figura divina; quanto negli antichi miti esprimeva e velava l’esposizione di verità metafisiche ed etiche attraverso un affascinante simbolismo diviene in queste tarde rappresentazioni elemento favolistico e psicologico (1).

In origine, come molti altri dei egizi, Seth aveva un aspetto del tutto ferino; in seguito la sua figura fu antropomorfizzata e fu rappresentato come uomo con la testa di un animale che è stato variamente identificato (sciacallo, cane levriero, asino, giraffa, okapi, orittèropo), ma mai in modo davvero convincente. Erano considerati appartenenti a Seth o con lui in relazione anche il maiale e diversi animali ritenuti temibili o nocivi (ippopotamo, coccodrillo rettili in genere) (2). A causa del suo legame con le tempeste, i terremoti e gli sconvolgimenti naturali fu assimilato in età ellenistica a Tifone, uno dei mostruosi figli di Gaia e del Tartaro, marito di Echidna, che lo rese padre di una numerosa progenie di mostri (tra i quali il cane tricipite Cèrbero, la Chimera e l’Idra di Lerna), con molti dei quali ebbe a che fare Eracle durante le sue eroiche imprese.

Rilievo che rappresenta Horo e Seth.
Rilievo che rappresenta Horo e Seth.

E Tifone è sempre chiamato Seth dagli autori greci, in specie da Plutarco, nel suo trattatello “De Iside et Osiride”, dove espone le credenze egiziane alla luce dell'”interpraetatio” ellenica. Secondo Plutarco, il quale afferma di riferire una tradizione della quale non cita la fonte-, Tifone -ovvero Seth-, dopo essere stato ripetutamente vinto in battaglia da Horo sarebbe fuggito in groppa a un asino verso occidente. Dopo una fuga durata sette giorni, egli giunse in Palestina, dove ebbe due figli (l’autore non precisa chi sarebbe stata la madre): Ierosolimo e Giudeo; nomi che con tutta evidenza richiamano gli Ebrei, ma che confermano anche il legame con gli Hyksos, dei quali Seth era il dio protettore.

I nomi di Ierosolimo e Giudeo (quest’ultimo nella forma “Giuda”) sono citati anche da Tacito in Historiae, V,2, che non li presenta però quali figli di Tifone: egli afferma che al tempo in cui sull’Egitto regnava Iside, a causa dell’enorme aumento della popolazione, che non consentiva a tutti di sfamarsi, un gruppo di Egiziani sotto la guida dei due capi sopradetti emigrò verso oriente, dando origine al popolo ebraico. E’ evidente che il primo di questi nomi è un adattamento a nome di persona del toponimo Hierushalim, Gerusalemme (3). Sempre secondo lo storico romano (Historiae, V, 3) durante la migrazione dall’Egitto alla Palestina, mentre gli Ebrei andavano errando assetati nel deserto alla febbrile ricerca di sorgenti d’acqua, videro un branco di asini selvatici che si dirigevano verso un’altura ricoperta di alberi ombrosi. Essi li seguirono e qui scoprirono larghe polle d’acqua con le quali poterono dissetarsi. Per tale ragione, e per contrapporsi ai costumi e alla religione egizi essi avrebbero divinizzato (si veda quanto abbiamo detto al riguardo nella sesta parte della trattazione su “Le Amazzoni guerriere della Luna”), o comunque onorato l’asino, -nel quale in definitiva avrebbero onorato Seth- (4). Questa narrazione è accreditata anche da Plutarco in una delle Quaestiones Conviviales (SIMPOSIAKON BIBLIA, IV, 5, 2), -opera nella quale alcuni convitati trattano di svariate questioni storiche, filosofiche e scientifiche-, dove si parla dei costumi giudaici e si discute se l’astensione degli Ebrei dalle carni del maiale sia dovuta da rispetto o disprezzo per questo animale.

Uno dei convitati, Callistrato, sostiene che gli Ebrei non consumino carni suine per rispetto del maiale, e tale consuetudine deriverebbe dall’Egitto, donde essi provenivano, dove i suini, dopo l’inondazione del Nilo, condotti nei campi ricoperti di fertile limo, calpestando e rovistando con le zampe ed il muso il terreno lo dissodano, risparmiando agli uomini la fatica di arare. Della lepre invece Callistrato afferma che questo animale non è edibile per gli Ebrei perché considerato impuro, mentre per Lampria, un altro dei partecipanti alla discussione, sarebbe risparmiato per rispetto, poiché, a parte le dimensioni notevolmente inferiori, appare simile all’asino nel colore, nella brillantezza degli occhi e soprattutto nella grandezza delle orecchie; aggiunge inoltre che la velocità e l’acutezza della vista propri della lepre erano ritenuti dagli Egizi attributi divini, tanto che a suo dire il senso dell’udito sarebbe rappresentato  nei geroglifici da un orecchio di lepre, ed in questo dunque, così come per il maiale- gli Ebrei non si sarebbero allontanati dalle idee degli Egizi (5).

Al contrario per Lampria il maiale sarebbe considerato impuro per la sua abitudine di rotolarsi nel fango; ma d’altro canto egli ricorda anche che Adone era stato ucciso proprio da un cinghiale ovvero un maiale selvatico. E poiché Adone, per l’affinità dei miti di cui sono protagonisti, era assimilato a Dioniso, anche a questa ragione Lampria attribuisce agli Ebrei il tabù del maiale. Ed infatti nella questione seguente un certo Meràgene afferma che il dio degli Ebrei altri non sarebbe che Dioniso, e a sostegno della sua tesi cita il fatto che la “festa dei Tabernacoli”. -una delle più importanti del calendario ebraico-, veniva celebrata in autunno nel periodo della vendemmia, -precisamente dal 15 al 21 del mese di “Tishrì”-, corrispondente all’incirca a settembre-ottobre e durante tale ricorrenza essi costruivano delle capanne di fronde e di tralci di vite (6), usavano tenere in mano rami e tirsi (bastoni intrecciati d’edera e sormontati da una pigna, caratteristici delle feste dionisiache) e si abbandonavano a esuberanti manifestazioni di esultanza e copiose libagioni.

Anche nell’abbigliamento del sommo sacerdote ebraico Meragene vede delle affinità con i riti dionisiaci, in particolare nei numerosi campanelli posti all’estremità della sua tunica sacerdotale e che risonavano all’incedere del pontefice, in modo tale da rimembrare, secondo Meràgene, i campanelli usati nei misteri di Dioniso (7).

Egli inoltre riconnette, con una falsa etimologia, il nome dello “shabbat”, il giorno festivo ebraico (che in effetti significa “settimo -giorno-“) con il greco “sebesis” = adorazione.

Plutarco in questi passi dimostra, pur se con lacune e inesattezze, di possedere una buona conoscenza dei costumi e della religione ebraica.

Peraltro, sebbene qui non sia detto espressamente, in effetti alcune comunità ebraiche avevano identificato il dio di Israele, -del quale uno degli appellativi più usati era Sabaoth (“dio degli eserciti”)- con Sabazios, dio della vegetazione di origine traco-frigia, il cui culto dal IV secolo a. C. si era ampiamente diffuso nella penisola anatolica e in Grecia, dove a sua volta questa figura divina fu assimilata a quelle di Adone, Attis e Dioniso. La fusione tra i due ambiti religiosi, -studiata da Franz Cumont (1868-1947) insigne filologo e storico delle religioni- avvenne con tutta probabilità nella popolosa diaspora giudaica sviluppatasi in Lidia e in Frigia dopo la deportazione di Ebrei avvenuta ad opera di Antioco III il Grande, re di Siria, dopo che con la battaglia di Panion del 199 a. C. egli ebbe conquistato la Palestina, in precedenza sotto il governo dei Lagidi d’Egitto, che avevano sempre dimostrato benevolenza e protezione verso i Giudei.

Sabazio assunse così il titolo di “Hypsistos”= Altissimo (già attribuito ad El, il dio supremo cananaico, distinto da Baal, chiamato in età ellenistico-romana Zeus Hypsistos), divenendo così il dio salvatore, santo, purificatore, onnipotente. In Italia il culto di Sabazio fu introdotto in epoca repubblicana proprio dagli Ebrei, -tanto che nel 139 a. C. il “praetor peregrinus”, secondo quanto narra Valerio Massimo, (“Factorum ac dictorum memorabilium libri” IX, I, 3, 2), intimò ad alcuni di essi di tornare in patria perché “Sabazi Iovis cultu Romanos inficere mores conati erant” (avevano cercato di contaminare i costumi romani con il culto di Giove Sabazio)-, ma ebbe la massima diffusione nel  III sec. d. C.: a Roma ad es. si hanno testimonianze di tale culto nelle catacombe di Pretestato. Caratteristici del culto di Sabazio sono i cosiddetti “pantei” , mani, in genere di bronzo o altro metallo, disposte nel gesto della “benedictio latina” (ovvero con tre dita distese e anulare e mignolo piegati) e adorne di pigne, serpenti, testine di ariete, ecc., usate come segno della protezione del dio.

Il tempio di Gerusalemme riedificato da Erode il Grande.
Il tempio di Gerusalemme riedificato da Erode il Grande.

Ma, nonostante queste testimonianze in senso contrario, una credenza popolare sugli Ebrei, che pure alcuni intellettuali greci e latini mostrano di accettare, e rappresentata in particolare da Apione nel mondo greco-egizio e da Tacito in quello romano, voleva che essi venerassero o comunque raffigurassero il loro dio con una testa di asino. Il grammatico Apione, -la cui opera anti-giudaica è andata perduta ma è nota dalla confutazione che ne fecero Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe-, afferma infatti nella sua “Storia d’Egitto”, che allorché Antioco IV Epifane dopo aver conquistato Gerusalemme nel 167 a. C. entrò nel tempio di Salomone vi avrebbe trovato nel “sancta sanctorum” una testa d’asino d’oro (vedi Flavio Giuseppe, “Contra Apionem”, II, 7).

Apione peraltro avrebbe ripreso una notizia data dallo scrittore Mnàsea di Pàtara (8) vissuto tra il III e il II secolo a. C., il quale per primo, -per quanto se ne sa, ma egli potrebbe a sua volta averla trovata in una fonte precedente non conosciuta-, sembra abbia parlato del culto di una testa asinina nel tempio di Gerusalemme. Secondo Mnasea, -riportato sempre nel “Contra Apionem” di Flavio Giuseppe (II, 9)-, durante una guerra avvenuta in epoca imprecisata tra Giudei e Idumei (considerati degli Ebrei i discendenti di Edom,  il fratello di Giacobbe che rinunciò ai diritti di primogenitura per un piatti di lenticchie -vedi Genesi, XXV, 29-34-),  un uomo proveniente dalla città di Dora, custode di un tempio di Apollo, si presentò ai Giudei. Egli disse di chiamarsi Zàbido e promise che avrebbe consegnato loro una statua di Apollo, nume tutelare di Dora, se gli assedianti si fossero ritirati. Fu creduto e tornò a Gerusalemme con uno strano macchinario con tre ordini di lumi, con cui voleva simulare una costellazione celeste che si avvicinava alla terra. I Giudei, stupefatti alla vista di quell’inatteso spettacolo, si tennero a debita distanza e così Zabido potè entrare nel tempio, sottrarre la testa dell’asino e tornarsene in fretta alla città di Dora.

Giuseppe Flavio non manca di sottolineare le incoerenze  e le puerilità di questa narrazione (dalla circostanza che la sola città di Dora conosciuta non si trovasse in Idumea, ma in un luogo assai più distante da Gerusalemme, e precisamente in Fenicia; al fatto che i Giudei, di solito accusati di non venerare gli dei greci, avessero accettato la protezione di Apollo; all”inverosimiglianza della trovata della finta costellazione), che porta come esempio dell’infondatezza dei pregiudizi anti-ebraici.

Nella “Bibliotheca Historica” di Diodoro Siculo (XXXIV, 1, 1-5) (9) è invece riportata una diversa versione, secondo la quale Antioco Epifane nel tempio di Gerusalemme avrebbe trovato non già una testa d’asino bensì la statua di un uomo barbuto cavalcante un asino e con un libro in mano che lo storico con fondamento identifica con Mosè.

La venerazione per una protome asinina sembra sia stata talvolta attribuita più tardi anche ai cristiani, ma in effetti le testimonianze letterarie, epigrafiche e iconografiche al riguardo sono molto scarse e incerte.  Famoso è il graffito scoperto nel 1857 a Roma nel “Paedagogium” (una sorta di collegio dove venivano istruiti giovani schiavi destinati a prestare la loro opera presso la “domus” imperiale) sul Palatino.alexamenos-worships-his-god-300x345 In tale graffito, risalente al III secolo (per alcuni agli inizi, per altri alla metà) appare una figura umana, a sinistra di chi guarda, che adora -nel senso letterale del termine, cioè in atto di compiere l'”adoratio”, consistente nell’inviare un bacio portando le dita sulle labbra rivolti ad un’immagine sacra- un uomo con testa animale sovrapposto a una croce a “tau” con la scritta in greco “ALEXAMENOS SEBETE THEON” (Alessàmeno adora Dio).

Questa  epigrafe è stata ritenuta una sorta di caricatura spregiativa o derisoria del culto cristiano; ma su di essa si devono fare alcune considerazioni: innanzitutto essa è un “unicum”, poiché finora non sono state rinvenute altre immagini similari; dal punto di vista linguistico e ortografico osserviamo che la forma del verbo “sebomai” (adorare, venerare, provare reverenza) alla terza persona singolare del presente indicativo qui usata è “sebete” anziché “sebetai”, il che fa pensare che, almeno nella pronuncia popolare, il dittongo “ai” si fosse già chiuso in “e” -come è proprio del greco bizantino e moderno-. La testa del personaggio posto sulla croce, di solito interpretata come asinina, non è affatto identificabile con certezza con quella di codesto animale; anzi le orecchie piccole, ben diverse da quelle grandi e lunghe che sono proprio l’elemento caratterizzante dell’asino per definizione, inducono a credere che si tratti piuttosto di un cavallo, o addirittura di un bovino con corna corte.

A questo si aggiunga che, a parte questa dubbia testimonianza, le prime raffigurazioni certe del Cristo crocifisso non si hanno prima del V secolo: nell’arte catacombale non vi è alcun esempio di quello che, insieme alla natività (che anch’essa, come abbiamo rilevato all’inizio della nostra trattazione, risulta assente nelle prime manifestazioni dell’iconografia cristiana), sarà il tema di gran lunga più importante dell’arte cristiana; pertanto risulta strano che venga ridicolizzata un’immagine che non era abituale per i cristiani in quel periodo e diventerà simbolo della religione cristiana solo assai più tardi.

Al contrario una delle rarissime raffigurazioni di contenuto religioso in cui appaia un uomo crocifisso è la cosiddetta “gemma di Berlino”, -risalente con ogni probabilità al II secolo-, una medaglietta su cui è incisa una figura umana in croce sormontata da un crescente lunare e da sette stelle con l’iscrizione in greco OPΦEOΣ BAKXIKOS (Orpheos Bakchikos): in questa figura, la cui origine è incerta, vien senza dubbio operata una identificazione o una fusione tra Dioniso-Baccho, -che come sappiamo è una delle principali divinità salvifiche del mondo antico, che manifesta la sua azione redentrice attraverso il ciclo passione-morte-resurrezione- e Orfeo, il vate-profeta della religione orfica, che sulla figura di Dioniso, -liberato dalle sue caratteristiche originarie violente e assurto a simbolo cosmico- si fondava e della quale era stato il maestro e il martire.MORTE-FIGLIO-7 Quanto del Cristo si sia innestato su di esse è difficile dirlo, poiché, come abbiano prima rilevato, le rappresentazioni del crocifisso e della croce nei primi secoli del cristianesimo sono eccezionalissime.

Inoltre, come abbiamo detto più volte, il cristianesimo nelle sue variegate manifestazioni non fu un fenomeno avulso dalla società e dalla cultura dell’Impero Romano, ed esistevano molti gruppi diversi, in seguito classificati come eretici o anche non cristiani, talora mal conosciuti, di incerta posizione dottrinale (10).

Per le popolazioni di origine indoeuropea, in particolare per quelle anatoliche, come gli Ittiti,  e caucasiche, l’Asino aveva invece una valenza altamente positiva ed era simbolo di regalità e di saggezza. Le lunghe orecchie delle quali la natura ha dotato questo animale ingiustamente disprezzato erano considerate segno di regalità e di saggezza, collegato alla sacralità dell’orecchio che, secondo la dottrina brahamanica, -poi accolta in questo aspetto anche nel simbolismo buddista-, è la sede del “brahaman” (il supremo principio spirituale e metafisico) e organo attraverso il quale si accede alla conoscenza del mondo invisibile. Non a caso le figure dei grandi maestri spirituali, come il Buddha Sakyamuni, e i vari Buddha e Bodhisattva venerati dalle scuole del buddismo mahayanico, sono spesso rappresentati con orecchie dai lunghi lobi penduli.

In un notissimo mito, il re frigio Mida, per essersi espresso in favore di Pan in una gara musicale svoltasi tra il dio caprino, che sonava il suo tipico flauto, e Apollo, il quale si accompagnava con la cetra, sarebbe stato punito da Apollo: e il castigo del nume irritato sarebbero state appunto un bel paio di orecchie asinine spuntate ai lati del capo di Mida. In effetti quella fu poi considerata una punizione doveva essere in origine un segno di saggezza e di divinità, proprio di qualche antica divinità anatolica, ma anche dei Sileni, coi quali, come vedremo, la figura di Mida aveva strette relazioni (11). La studiosa Sarah Morris ha scoperto che le orecchie di asino sono un attributo di Tarkasnawa (“Tarcondemos” in greco) re di Mira, -un antico regno dell’Anatolia occidentale vassallo degli Ittiti-, scritto in ittito e in luvio.

Secondo quanto tramandano Erodoto (Storie, VIII, 138) e Ateneo (I Deipnosofisti, XV, 683b), Mida sarebbe stato discepolo di Orfeo e re della città di Bromio in Macedonia: qui egli avrebbe avuto uno splendido giardino dove fiorivano rigogliose delle profumatissime rose le cui corolle erano composte ciascuna da ben sessanta petali. Fu in questo giardino che un giorno egli trovò Sileno, il maestro di Dioniso, che si era smarrito a causa dell’ebbrezza quasi perenne in cui versava (12). Dopo averlo ricondotto a Dioniso, per riconoscenza ebbe dal dio il dono da lui richiesto di poter mutare qualunque cosa toccasse in oro. Resosi conto di quanto fosse infausto tale potere, implorò Dioniso di revocarglielo, cosa che avvenne allorché Mida su consiglio dello stesso dio si lavò le mani nel fiume Pattòlo.

Solo in seguito Mida si sarebbe traferito in Frigia, dove fu adottato da Gordio, sovrano di quel paese (si veda la nota n. 5): ed in effetti un’altra versione del mito lo fa rampollo di Cibele e di un sileno (pertanto le orecchie asinine sarebbero state una qualità congenita ed ereditata dal genitore). E in Anatolia ebbe luogo la disfida musicale tra Apollo e Pan, con Tmolo, il dio tutelare dell’omonimo monte della Lidia, e Mida in qualità di giudici (si veda al riguardo Ovidio, Metamorfosi, XI, 146-194); disfida che assomiglia senza dubbio a quella analoga che il dio della poesia dovette sostenere con il satiro Marsia (che infatti alcuni mitografi, -ad es. Igino, Fabulae, 191-, sostituiscono a Pan nella gara, fondendo probabilmente i due miti -o forse il mito era in origine uno e poi si sdoppiò-), sebbene la conclusione nel caso di Mida sia meno tragica.

Mentre Tmolo decretò la vittoria del dio del Parnaso che aveva modulato con insuperabile grazia le sue eccelse melodie, Mida si pronunciò in favore di Pan: per questo Apollo, indignato dal suo giudizio, dotò il re di Frigia con orecchie d’asino con le quali in futuro potesse udire bene i suoni. Per nascondere le sue nuove orecchie Mida le coprì con un berretto frigio; ma non potè celare quel dono indesiderato al barbiere che di solito gli scorciava la chioma. Quest’ultimo promise sotto minaccia di morte di mantenere il segreto; ma poi, non resistendo più al desiderio di dire quanto aveva scoperto sul sovrano, andò in un campo deserto, scavò una buca per terra e accostate ad essa le labbra mormorò che Mida aveva le orecchie d’asino. Il destino beffardo volle però che su quella buca germogliasse un cespuglio di canne, che, una volte cresciute, quando venivano scosse dal vento sussurravano la frase detta dal barbiere. “Mida ha orecchie d’asino!”: fu così che tutti seppero della sua disavventura.

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1)come abbiamo già detto, l’interpretazione allegorico-mistica degli dei e dei miti si ebbe in Grecia fin dal VI-V secolo a. C. con le opere (perdute) di Teàgene di Reggio, ed ebbe poi notevole sviluppo nelle scuole pitagoriche, neoplatoniche, ermetiche e gnostiche nei primi secoli dell’era volgare. Anche nell’ambito del cristianesimo in alcune correnti più aperte, sebbene ortodosse (basti pensare a Dante Alighieri), si diffuse l’interpretazione allegorica della mitologia “pagana”. Si veda a questo proposito quanto abbiano detto nella quinta parte dell’articolo sui più antichi codici miniati pubblicata il 9 agosto 2013.

2) peraltro il coccodrillo era anche l’incarnazione del dio Sobek (chiamato Suchos in età greco-romana), il quale, nonostante l’aspetto poco rassicurante era venerato come protettore dei pericoli provenienti dal Nilo e dalle acque in genere, e poi invocato e raffigurato in immagini e amuleti a scopo apotropaico (volto cioè ad allontanare disgrazie e pericoli -poiché tale è il significato di questo aggettivo dal greco “apò”= via da e “trepo, -ein” volgere, indirizzare-), divenendo in epoca tarda una delle divinità più popolari. Abbiamo già ricordato come fosse venerato soprattutto ad Ombos (sede pure del culto di Seth) e in alcune località nei pressi del lago Meride, nell’oasi del Fayyum: la città di Shedet, -poi ribattezzata dai Greci “Crocodilopolis”, appunto a cagione di tale culto-, e la citta di Karanis; in queste città si potevano osservare due coccodrilli, denominati rispettivamente Petosuchos e Pnèpheros, ritenuti incarnazioni di Sobek, che venivano allevati in una vasca nei templi a loro dedicati, che erano adorni di monili preziosi e ai quali i visitatori, ad imitazione di quanto avveniva per i tori sacri dei quali abbiamo parlato, offrivano leccornie per impetrare le grazie del dio. Alla loro morte questi animali venivano mummificati e sepolti in tombe nel “Labirinto” di cui abbiamo detto nella terza parte della presente ricerca, mentre il loro posto era preso da altri coccodrilli. Secondo i “Testi delle Piramidi” Sobek era figlio di Seth e della dea Neith, e quindi aveva uno stretto legame il fratello di Osiride, ma a differenza di quest’ultimo continuò ad essere venerato anche nelle ultime fasi della civiltà egizia. Quanto all’ippopotamo, possiamo segalare che nel “Giudizio di Horo e di Seth” si trasformano entrambi in ippopotami per sfidarsi nelle acque di un fiume. In generale tuttavia mentre l’ippopotamo maschio era malvisto per la sua irascibilità e la facilità con la quale poteva far vacillare e affondare le imbarcazioni nel Nilo (abbiamo già ricordato però che già almeno dal IV secolo non esistevano più ippopotami in Egitto), maggior simpatia godevano le femmine della specie: aspetto di ippopotamo femmina, con mammelle di donna e talora coda di coccodrillo aveva la dea Ta-Urt (Tueret, Tueris), patrona delle partorienti, -dalle quali veniva invocata per lenire e abbreviare le pene del travaglio-, e dei lattanti.

3) di questa città e di questo nome si hanno le prime menzioni intorno al 1450 a. C., quando sembra fosse abitata da una tribù amorrea. La forma più antica, sumerico-accadica, del toponimo è attestata come “Urusalim”, “fondazione di Salim”, nel senso di “dimora di Shalim”; Shalim o Shalem era il dio che incarnava la “stella del tramonto” ovvero Venere vespertina (greco Hèsperos e latino Vesper), gemello di Shahar, la “stella del mattino”, Venere mattutina (greco Phosphoros e latino Lucifer): talora erano ritenuti tutti e due maschi, talaltra Shahar era una dea. Erano chiamati gli “Dei Graziosi e Belli”, protagonisti di un poemetto ritrovato tra le iscrizioni di Ras-Shamra, l’antica Ugarit. Com’è noto, divenne capitale del regno ebraico quando fu conquistata dal re David. Questa coppia di gemelli divini corrisponde a quella analoga costituita da Azizu e Arsu, venerata dagli Aramei e dagli Arabi pre-islamici (ai quali abbiamo accennato nella nota n.10 della quinta parte dell’articolo sulle Amazzoni guerriere della Luna del 26 ottobre 1015).

4) Tacito accenna pure ad altre ipotesi sulla provenienza dei Giudei, tra le quali insolita è quella che farebbe di Creta la loro terra di origine. Secondo questa versione, essi avrebbero tratto il nome dal monte Ida: infatti il loro etnonimo sarebbe stato dapprima “Idaei”, che sarebbe divenuto in seguito Iudaei.

5) in effetti in Levitico, XI dove viene esposto un elenco degli animali puri (e di cui era quindi consentito il consumo alimentare) e di quelli impuri (non edibili e dei quali si doveva anche evitare uno stretto contatto) la lepre, insieme al coniglio, al cammello e a diversi altri animali, rientra nella seconda categoria. Quanto ai geroglifici, il disegno che rappresenta la lepre (intera, non solo l’orecchio) era impiegato, oltre che per indicare l’animale, come segno fonetico per “UN” e pertanto compare in diverse parole, tra le quali ricordiamo “Un -Nefer”(letteralmente “Bella Lepre”), appellativo attribuito ad Osiride: dal che si può dedurre che la lepre era considerata un manifestazione di tale divinità, pur non godendo di venerazione.

6) si tratta di “Sukkot”, una delle principali feste ebraiche che commemora la lunga peregrinazione degli Israeliti, durante la quale essi si ricoveravano in ripari provvisori (“sukkot”). La celebrazione di tale festa sarebbe stata raccomandata da Dio stesso a Mosè, che avrebbe pure ricevuto precise istruzioni in merito alla sua celebrazione -peraltro come per le altre principali feste ebraiche- (Levitico, XXIII, 33-43). Nella “Bibbia dei Settanta” è chiamata “Eortè Skenòn” e nella “Vulgata” di S. Girolamo “Feria Tabernaculorum” (festa delle tende). Ricordiamo che il termine “tabernaculum” (da cui l’italiano tabernacolo) è un diminutivo di “taberna”, termine di provenienza etrusca (come tutti quelle che terminano in “-erna”, “-enna”, “-erva”) che significava in origine capanna, baracca, tenda. In effetti le piante i cui rami sono prescritti per questa festa sono soprattutto la palma e il salice (Lev. XXIII, 40: “prenderete frutti degli alberi migliori: rami di palma, rami con dense foglie e salici di torrente”). La “festa dei Tabernacoli” era anche una festa del raccolto e della fine dell’estate. Essa in effetti agli occhi di un greco presentava analogie con la festa delle “Antesterie” celebrate in Attica in onore di Dioniso (festa della quale abbiamo parlato nella prima parte dell’articolo su “La festa di Halloween e la commemorazione dei defunti” (12 ottobre 2014).

7) la più probabile ragione della presenza dei campanelli che adornavano la veste del sacerdote è quella di avvertire gli astanti del suo arrivo, poiché alla figura del sacerdote era intrinseca una forte sacralità. Dei paramenti sacerdotali si parla in Esodo, XXVIII, 33-34 e XXXIX, 24-26.

8) autore di un “Periplo”, opera geografica sui paesi di Europa, Asia occidentale e Africa settentrionale, e di altri scritti, dei quali rimangono solo scarsi frammenti e citazioni in altri testi, da cui si ricava che, diede un’interpretazione evemeristica dei miti e dei culti religiosi.

9) dei 40 libri di cui constava l’opera storica di Diodoro Siculo sono a noi giunti interi solo quelli dal primo al quinto e dall’undicesimo al ventesimo. Gli altri libri sono conosciuti grazie agli “Excerpta Costantiniana”, estratti di alcune parti dell’opera eseguiti per ordine dell’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito -regnante dal 912 al 959-,(“porfirogenito”, letteralmente “nato nella porpora”, ossia la porpora imperiale, era l’appellativo dato ai principi e principesse bizantini nati mentre il padre era regnante) e dei riassunti contenuti, insieme a quelli di molte altre opere antiche, nel “Myriobiblion” del patriarca di Costantinopoli Fozio (827-893 circa), nei quali si trova il passo a cui si fa qui riferimento.

10) sappiamo che il nome di Gesù veniva impiegato su amuleti e talismani, e in formule magiche come “nome di potenza”, in grado di evocare o scacciare i demoni: ad es. in una “tabella defixionis” (una tavoletta con iscritte formule di maledizione contro qualcuno di solito inserita in una tomba per arrecare disgrazia alla persona “defissa”) del principio del II sec. ritrovata a Megara in Grecia il nome di Gesù è accomunato a quello di Kore-Persèfone, Ecate e Selene. Su un’altra tavoletta proveniente da una tomba di Cartagine si legge: “Ti invoco, chiunque tu sia demone della morte, nel nome del dio che ha creato la terra e il cielo; […] nel nome del dio che domina le regioni sotterranee, Neicharoplex; … del sacro Ermete… Iao, … Sabaoth, …il dio di Salomone, Souarmimoouth,…di Gesù”; e in una formula magica per ottenre una rivelazione in sogno  (PGM, XII, 192) il fedele si rivolge “al dio della stella polare, a Gesù, ad Anubi”.

11) la figura di Mida ha un sicuro fondamento storico, poiché, nella forma “Mita”, il suo nome è quello di diversi sovrani della Frigia, tra i quali l’ultimo, che soccombette all’invasione dei Cimmeri tra il 680 e il 670 a. C. Il dominio di questi ultimi durò fino al 600 circa a. C., allorchè Aliatte, re di Lidia, riuscì ad espellerli conquistando così la Frigia, che rimase sotto il regno di Lidia fino a quando nel 546 il re persiano Ciro annettè l’Asia Minore occidentale e centrale all’Impero Achemenide. Mita era anche il nome di un re dei Moschi, -altra popolazione dell’Asia Minore che si affermò dopo la caduta dell’Impero Ittita (intorno al 1200 a. C.)-, negli ultimi decenni dell’VIII secolo a. C., il quale prima combattè contro Sargon d’Assiria, poi, da questi sconfitto, divenne suo alleato nella campagna contro i Cimmeri: pertanto è forse da in identificare con il precedente. Secondo Pausania (Periegesi, I, 4, 5) Mida sarebbe stato il fondatore della città di Ancyra (l’attuale Ankara). Sul personaggio storico si innestò poi, – come spesso avviene nei miti-, una figura divina o semidivina, e Mida, immaginato figlio Gordio -anch’esso nome ricorrente tra i monarchi della Frigia- e della Grande Madre Cibele, assunse i tratti di una divinità legata alla cerchia di quest’ultima.

12) Sileno aveva zampe e orecchie equine, in genere di cavallo, ma che potevano anche essere di asino: inoltre la sua cavalcatura abituale era proprio una vecchia asina. Nonostante il suo legame col vino era considerato anche un saggio che conosceva i segreti dell’universo (si veda ad esempio l’ecloga VI di Virgilio): pertanto l’ebbrezza abituale che lo contraddistingueva, che mal si concilia con la saggezza e con la spiritualità, potrebbe essere interpretata come una forma di estasi mistica e di rapimento extra-mondano. Non si dimentichi che il “vino” di Dioniso, come il “vino” sangue di Cristo, deve essere visto come una bevanda mistica, come il “sangue”, cioè l’essenza della divinità che si dona agli uomini. Nella figura di Dioniso il vino è un simbolo mistico, non certo una volgare forma di gratificazione edonistica, che si può paragonare alla bevanda sacra “haoma” degli Iranici e “soma” degli Indù.

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