L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -decima parte (Evangeli dell’infanzia; Decani Astrologici; l’Ogdoade ermopolitana)-

Questo re-sacerdote dopo la morte fisica si sarebbe incarnato altre tre volte (1) e l’ultima fu quella in cui apparve sulla terra come Hermes Trismèghistos -a cui sono attribuiti gli scritti che costituiscono il “Corpus Hermeticum”; secondo una tradizione diversa dalla precedente, sarebbe proprio durante codesta incarnazione che gli avrebbe redatto e inscritto i suoi insegnamenti sulle tavolette definite “di smeraldo”, ma che in realtà sarebbero fatte con un materiale di ignota costituzione, creato tramite una complessa operazione alchimistica. Esse sono incise con i caratteri dell’antica lingua di Atlantide, e tenute insieme con cerchietti dorati.

Le tavolette di smeraldo di Thoth sarebbero riapparse, -non si sa bene né dove, né come- agli inizi del secolo XIX e nel 1925 furono tradotte, e in seguito pubblicate nel 1930, ad opera di un certo Maurice Doreal, pseudonimo di Claude Doggins (1898-1963) studioso e veggente americano, fondatore della fantomatica “Fratellanza del Tempio Bianco”.

Una riproduzione moderna di quella dovrebbe essere una delle "tavole di Thoth".
Una riproduzione moderna di quella dovrebbe essere una delle “tavole di Thoth”.

Nonostante la dubbia provenienza e le probabili manipolazioni ad opera del suo preteso scopritore, il testo contenuto nella tavole di Thoth si rifà senza dubbio, almeno nelle linee essenziali, alle conoscenze e ai principi della spiritualità egizia, poi rielaborata alla luce di influenze ellenistiche, ed è ispirato ad una profonda saggezza. Esso insegna che l’essenza del mondo è spirituale, che la materia è un’apparenza illusoria a cui ci si deve sottrarre e che l’uomo non deve identificarsi nell’involucro corporeo nel quale si trova, proponendogli di riscoprire la via della luce dentro di sé (2), sullo sfondo di un’epica lotta tra “figli della Luce” e “figli delle Tenebre”, che ricorda la concezione etica e metafisica di gnostici e manichei.

La teologia di Thoth appare anche simile a quella espressa nel “Papiro di Anana”, del quale abbiamo citato un brano nella nota n.1, e che così prosegue: “Negli antichi tempi, avanti che i sacerdoti fissassero i pensieri umani nei blocchi di pietra e innalzassero altari a una moltitudine di dei, molti sostennero che […] Dio è uno solo. Agli occhi dell’uomo Dio ha numerosi volti, e ciascuno giura che quello che egli vede è del vero dio; ma tutti hanno torto, perché tutti sono veri”. Da questo si deduce che in Egitto l’idea di Dio come essenza eterna anteriore a tutte le manifestazioni della quale gli dei venerati dalle religioni positive storiche sono solo aspetti, espressioni o ipostasi, è di molto precedente al “monoteismo solare” introdotto da Akenaton, per cui almeno il nucleo essenziale delle concezioni esposte in questo testo si può fare risalire senza dubbio all’ambiente egizio, per quanto in esso siano state recepite influenze neoplatoniche e gnostiche (3).

Continuiamo la nostra lunga trattazione sul bue e sull’asino, coprotagonisti del “presepe” -che, ricordiamo, in latino (“prae-saepe < prae, davanti, saepes, recinto, siepe) significa propriamente greppia o mangiatoia-, rimanendo in Egitto: qui torniamo agli “Evangeli dell’Infanzia”, dai quali avevano iniziato la ricerca. Infatti, come sappiamo anche dai vangeli canonici, Gesù trascorse in quel paese almeno una parte della sua infanzia (4), quando vi si recò con i genitori per sfuggire alla persecuzione di Erode.

Secondo il “Vangelo Arabo dell’Infanzia”, la “sacra famiglia” giunta in Egitto (cap. 10), si ferma in una “grande città”, della quale non viene citato il nome, ove ergevasi un tempio in cui stava il simulacro di un dio al quale “offrivano doni e voti tutti gli altri dei dell’Egitto”. Il figlio del sacerdote di quel tempio aveva un figlio di tre anni, il quale era posseduto da alcuni demoni e si comportava, -così come sogliono fare coloro che siano afflitti da tale disgrazia, in modo alquanto strano e aggressivo (si strappava le vesti; inveiva e tirava sassi contro gli astanti). Alla venuta di Cristo, la statua del dio (che evidentemente era solita dare oracoli) parlò e disse che era giunto lì il vero “Figlio di Dio”; allora il bambino prese una delle fasce che Maria aveva usato per avvolgere il piccolo Gesù e che ella aveva lavato e steso ad asciugare, e se la pose sul capo: dopo aver compiuto tale gesto, immediatamente i demoni uscirono da lui “in forma di corvi e serpenti”.

Nella versione riportata nel “Vangelo dello pseudo-Matteo” la città nella quale la sacra famiglia prende dimora una volta arrivata nel paese delle piramidi è Sotine, una piccola città che, -come viene espressamente precisato nel testo-, si trovava non lontano da Ermopoli, nel Basso Egitto, nella zona del delta occidentale del Nilo (5)(6). Il piccolo gruppo entra in un tempio, che viene descritto come una sorta di “pantheon”, dove si trovavano le statue di 355 divinità; non appena il divino infante varca la soglia del tempio, tutti gli idoli si prostrano a terra e si frantumano. Il governatore della città, Afrodisio, venuto a conoscenza dell’evento, si precipita al tempio, ma dopo aver constatato quanto era accaduto, afferma che se Gesù non fosse stato “il dio dei nostri dei, essi non si sarebbero prostrati dinanzi a lui”. Strano è il numero degli dei, -355-, che sono presenti nel santuario: in effetti il loro numero dovrebbe corrispondere e rappresentare il numero dei giorni dell’anno (365) o dei gradi dello zodiaco (360), per cui si potrebbe pensare a un errore di trascrizione.ABRAXAS (2)

Infatti queste due cifre avevano un’importanza capitale sia nella tradizione egizio-ermetica, sia nel cristianesimo gnostico, nonchè nel simbolismo astrologico (a sua volta strettamente legato e presente in entrambi i filoni di pensiero): nel sistema di Basilide e dei discepoli 365 è il numero dei cieli ai quali corrispondono altrettanti ordini angelici, promananti dagli Arconti discesi da Sophia (Sapienza) e da Dynamis (Potenza), generati nell’ordine da Phrònesis (Prudenza), dal Logos (Pensiero), figlio del Nous (Intelletto), nato dal Padre ingenerato e increato; quest’ultimo è talvolta chiamato con un nome, ABRAXAS (in greco ABPAΞAΣ), -il cui impiego talismanico è attestato da un’epoca precedente a quella del teologo gnostico (II secolo)-, ma che fu scelto proprio perché la somma dei valori numerici corrispondenti alle lettere che lo costituiscono è di 365 (A = 1; B = 2; P = 100; A = 1; Ξ = 60; A = 1; Σ = 200); Abraxas è di solito raffigurato come un uomo con la testa di gallo e due serpenti al posto delle gambe, avente una frusta -talora una spada- nella mano destra e uno scudo in quelle sinistra (7) (8).

L’aspetto di questo essere, -che ha una probabile origine, o è stato comunque influenzato da quello egli dei egizi- si può interpretare alla luce di un simbolismo mistico: il gallo è animale solare, legato al sorgere del Sole, che rappresenta la vigilanza e l’attenzione necessarie a chi intenda seguire la via dello spirito; inoltre, -un po’ come il pavone-, è anch’esso simbolo di resurrezione: la testa di gallo di Abraxas vuole dunque esprimere l’essenza spirituale dell’universo. I serpenti che sostituiscono le gambe incarnano invece le forze ctonie, terrene, istintive, che però sono governate dallo spirito. Le prime tre lettere del nome sarebbero le iniziali delle parole ebraiche  AB  = padre; BEN = figlio; RUAH = spirito, e indicherebbero quindi la trinità divina; mentre le sette lettere che compongono il suo nome alluderebbero ai sette cieli-angeli-eoni da lui emanati (si veda al riguardo anche quanto abbiano detto nella nota n. 7 dell’articolo su Malak Taus, l’Angelo-Pavone, del 29 settembre 2014).

Questo ente supremo può peraltro equipararsi o identificarsi con AIΩN, il Tempo infinito e cosmico, -oggetto delle speculazioni della filosofia greco-egizia alessandrina, nonché essere primigenio della religione mitraica, in cui corrispondeva al persiano Zurvan- (9), da cui promanano, in analogia con l’Uno pitagorico e platonico, numerosi altri dei, che incarnano le divisioni del tempo terrestre durante l’anno (ore, giorni, decadi, mesi) e a loro volta corrispondenti ai “cronocratori” dell’astrologia egiziana -dei quali ciascuno corrisponde ai decani in cui si suddividono i segni zodiacali (in origine estranei all’astrologia egizia e derivati dalla Mesopotamia) e i singoli gradi-.

E nella tradizione astrologica ermetica, -quale appare in opere del filone “operativo” delle rivelazioni attribuite alla leggendaria di Thoth- Hermes Trìsmegihistos, come ad esempio il “Liber Hermetis Trismegisti”-, grandissima importanza è attribuita alle divisioni minori dello zodiaco, -decani, termini, dodecatomorie e i singoli gradi-, che sono tutti in figure mitiche che si riallacciano alle antiche divinità egizie: e dunque è più che fondato interpretare gli idoli del tempio che si prostrano dinanzi alla divinità di Gesù l’incarnazione dei geni astrali -di cui ciascuno governa uno dei gradi zodiacali-, che incarnano le forze costrittive del fato, che l’uomo illuminato deve riuscire a vincere, o, meglio, ad incanalare e sottomettere alla sua volontà rigenerata dalla gnosi redentrice.

Questa concezione è particolarmente evidente nel cosiddetto “Calendario Tebaico”, un testo in cui ciascun grado dello zodiaco è qualificato in base a determinate categorie (delle quali le principali sono “maschili”, “femminili”, “luminosi”, “tenebrosi”)  ed è rappresentato da un’immagine che ne incarna in forma simbolica le qualità e le caratteristiche che conferisce a chi ne sia influenzato (perché nel suo tema natale è occupato dal Sole, da un pianeta importante, da Ascendente, Medio Cielo, Parte di Fortuna, ecc.). Questo calendario sarebbe stato inciso su una tavola d’oro di forma circolare, che fu però trafugata (e in seguito probabilmente fusa) dopo la conquista dell’Egitto da parte di Cambise II di Persia nel 525 a. C. Secondo la testimonianza dello storico Diodoro Siculo (Bibl. Historica, I, 49), questa sorta di “ruota” (era forse il favoloso “Stargate”, reso celebre da certi film di fantascienza?), che era collocata nel sepolcro del faraone Ozymandias (nome ignoto nelle liste degli antichi sovrani egizi, ma che alcuni identificano con Ramses II) presso la città di Tebe (e dunque presumibilmente nella “Valle dei Re”), aveva una circonferenza di 365 cubiti e uno spessore di un cubito; era suddivisa in 365 settori, aventi la larghezza di un cubito, ciascuno dei quali indicava un giorno dell’anno; vi erano inscritte inoltre le ore del sorgere e del tramonto degli astri e tutti i significati e i pronostici che gli astrologi egiziani attribuivano ad essi (10)(11).

Immagini di costellazioni e decani nel tempio di Hathor a Denderah.
Immagini di costellazioni e decani nel tempio di Hathor a Denderah.

Ma pure su molti sarcofagi di legno risalenti al primo periodo intermedio e del Medio Regno (dal 2200 al 1750 circa), -e quindi collegati alle formule funerarie proprie di quel periodo chiamate appunto “testi dei Sarcofagi”,- appaiono raffigurazioni dei decani astrologici. In origine doveva trattarsi delle immagini riferibili a una sorta di “orologio solare” notturno, che indicava per una decade l’ora della comparsa in cielo di una determinata stella. In seguito però da queste osservazioni astronomiche si svilupparono le “figure dei geni”, ovvero delle “anime delle stelle degli dei”, personificazioni delle scansioni temporali legate ai moti celesti, che assunsero un loro potere magico-religioso, fino a giungere alla concezione espressa in un’iscrizione  del tempio di Kom Ombo in onore di un re lagide (probabilmente Tolomeo VIII): “I decano brillano dopo il Sole. Essi camminano in cerchio, levandosi uno dopo l’altro; ai mostrano alla loro ora […] secondo la stagione”.

Da queste immagini derivò con tutta probabilità la “Sphaera Barbarica”, ovvero una rappresentazione della volta celeste di derivazione egiziano-caldea diversa da quella propria dell’astronomia greca -che era stata esposta in modo sistematico in particolare dall’astronomo Eudosso di Cnido (408-350 a. C. circa) e dal poeta Arato di Soli (315-240 a. C. circa), autore del poema di argomento astronomico “Phaenomena”-, nella quale rivestono fondamentale importanza le tavole dei decani e dei gradi  Questo testo sarebbe stato conosciuto (anche con il nome di “Myriogenesis, che però non è certo sia da identificare con la “Sphaera Barbarica”) dagli astrologi greci e romani, che lo citano nelle loro opere; in particolare Firmico Materno nel suo trattato di astrologia -“De nativitatibus” o “Matheseos libri VIII”-, nei capitoli 22 e 23 del IV libro tratta dei decani, di cui fa i nomi, e dei gradi zodiacali, esponendone le qualità, ma senza descrivere le immagini ad essi collegate.

L’uso dei decani in astrologia viene però fatto risalire da filosofi antichi quali Porfirio di Tiro e dall’erudito bizantino Michele Psello (1018-1078) a un certo “Teucro il Babilonese”, -del quale peraltro nulla si sa-, il quale avrebbe scritto un trattato “sugli influssi dei decani e delle stelle che sorgono con essi”.

Dopo un lungo periodo in cui se ne persero le tracce una tavola simile al “calendario” apparve II libro di un’opera scritta da Abraham ibn-Ezra, filosofo ebreo di Spagna vissuto nel XII secolo, intitolata “i principi della sapienza”. Da questo libro dichiarò di averla tratta l’eminente umanista e filologo Giuseppe Scaligero (1540-1609), il quale aveva effettuato approfonditi studi sui calendari e usi cronografici degli antichi, esponendone i risultati nel suo “De emedatione temporum”. Più di due secoli dopo la tavola del calendario tebaico fu ripresa dall’esoterista francese Paul Christian (al secolo Jean Baptiste Pitou) nel suo manuale romanzato di occultismo “L’Uomo rosso delle Tuileries”, uscito nel 1863. Dalla versione, da lui modificata, che ne diede nel suo testo derivano tutte le varianti che si possono reperire attualmente in diversi libri di astrologia e di scienze occulte -varianti che peraltro non cambiano di molto, poiché per molti gradi le immagini date sono identiche, per la maggior parte degli altri differiscono solo in alcuni particolari e in pochi casi sono del tutto diverse-.

Nella concezione egiziana originaria la strada che il Sole nel suo cammino quotidiano e annuale percorre non è circonferenza come l’eclettica, ma una larga fascia che si stende da un tropico all’altro e della quale l’equatore costituisce la linea mediana e in cui si susseguono i geni che presiedono alle ore, ai giorni, ai mesi. Si  potrebbe dunque dire a buon diritto affermare che Gesù è il Sole, il principio spirituale, a cui i geni che occupano le varie stazioni, -poi inquadrate nel sistema zodiacale greco- si sottomettono, riconoscendone la suprema autorità (e quindi “gli idoli del tempio si prostrano davanti a lui”): come il Sole fisico attraverso lo zodiaco illuminandolo, così il Sole spirituale attraversa lo zodiaco interiore per illuminarne le potenze e proiettarle in una dimensione superiore (e dunque “sublimarle” per usare un’espressione legata alla psicologia del profondo).Dendera_Deckenrelief_02_d

E certamente non casuale è il fatto che la località ove la sacra famiglia si ricovera dopo il suo arrivo in Egitto si trovi ni pressi della città di Ermopoli: come abbiamo detto nella nota n. 6 diversi erano i centri del paese delle piramidi dove godeva di particolare venerazione Thoth, dio delle scienze e della sapienza in senso lato, dai greci identificato con Hermes, e che pertanto ricevettero in età tolemaica (anzi talvolta già prima da parte dei Greci che visitavano l’Egitto) il nome geco di ‘Ηρμου πòλις, “città di Hermes”. di questa la più importante era, -come si è precisato in nota-, quella che era capoluogo del XV nomo dell’Alto Egitto (i “nomi” erano i distretti amministrativi in cui il paese era suddiviso, dei quali 22 nel Basso Egitto e 22 nell’Alto Egitto, i quali nelle età più arcaiche avevano ciascuno i propri dei e i propri culti, che dopo l’unificazione del paese furono progressivamente coordinati in vaste sintesi ad opera delle gerarchie sacerdotali, pur se in essi continuavano ad essere adorati gli dei locali, oltre a quelli assurti ad importanza nazionale e a un significato metafisico più profondo). Questa città aveva un grande importanza religiosa poiché lì fu elaborato uno dei principali sistemi teologici, la cosiddetta “teologia ermopolitana”.

Secondo questa dottrina, da una collina di fango emersa dalle acque primordiali nacquero otto divinità, quattro maschili con le testa di rana e quattro femminili con la testa di serpente, le quali costituivano quattro coppie: Nun (12) e Nunet -la sostanza primordiale-; Heh e Hehet -lo spazio infinito-; Keku e Keket -l’oscurità-; e Amon e Amaunet -le realtà ineffabili e nascoste-. L’ultima coppia fu sostituita in età più recente con Niau e Niauet, -il vuoto, ovvero l’aria e il vento-.

La coppia Amon- Amaunet divenne però importante, anzi assurse al vertice della gerarchia divina nella teologia tebana, che nelle grandi linee rispecchia quella ermopolitana, -dove peraltro Amaunet fu chiamata Mut- e alla coppia fu attribuito un figlio, Nefertum, personificazione del fiore di loto -il loro egiziano (Nymphaea lotus e N. caerulea, da non confondere con il loto asiatico)(13).518298336_3de4c00e98_o

Il gruppo degli otto dei fu chiamato in egiziano “Ashmunein”, che significa appunto “Otto Dei”, e che fu attribuito anche alla città sorta nel luogo ove erano nati, ossia Ermopoli. In età più tarda gli otto dei sarebbero stati generati da un dio primordiale increato e ingenerato, raffigurato come un enorme serpente denominato Kem-Atef (“Sovrano della Terra”), o in altre versioni Ir-Ta (che talora è a sua volta supposto figlio di Kem-Atef, così che gli dei primordiali diventano dieci).

Un’altra suggestiva versione del mito cosmogonico di provenienza ermopolitana afferma che in principio esisteva una immensa distesa liquida inerte in cui erano presenti forze multiple, che lentamente si materializzarono e assunsero l’aspetto di serpenti e di rane. Dallo stagno primordiale si innalzò un tumulo di terra fertile, -che è l'”isola dell’illuminazione”-, sul quale sbocciò una splendida ninfea, -o loto- (14), assistita e acclamata dalle divinità primigenie: da essa nacquero tutte le cose. Con la ninfea fu la luce: il fiore schiudendo i suoi meravigliosi petali fece apparire al suo interno il Sole, -il dio Atum-, in forma di bimbo neonato che apre gli occhi e separa la notte dal giorno (e che dunque è sotto questo aspetto da identificare con Nefertum, figlio di Amon e Mut, che, come tutti gli “dei figli” è da considerare una “sintesi” di sue opposti complementari). E’ singolare constatare come nell’antico Egitto i fiori acquatici (loto o ninfea) avessero un significato cosmogonico e teogonico assai simile a quello dell’India, e la medesima pregnanza simbolica.

CONTINUA NELL’UNDICESIMA PARTE

Note

1)la credenza nella trasmigrazione delle anime, ovvero dell’evoluzione in forma transpersonale e transcorporea degli spiriti (la “palingenesi” di Pitagora e la “metensomatosi” -“transcorporazione”- dei neoplatonici), presso gli Egizi è esplicitamente affermata da Erodoto (Storie, II, 123) ed è stata confermata da alcuni importanti documenti quali il “Papiro di Anana”, -di cui è autore il capo degli scribi e consigliere di Seti II-, risalente al 1320 a. C., che proclama tra l’altro: “Gli uomini non vivono una volta sola per andarsene di qui per sempre. Essi vivono molte volte in molti luoghi, sebbene non sempre in questo mondo. Tra una vita e l’altra si stende un velo di tenebra […]. La nostra religione ci insegna che noi viviamo in eterno: dunque l’eternità se non ha una fine, non ha neppure un principio, è quindi un cerchio… Se è vero che noi viviamo più volte, deve essere anche vero che noi siamo sempre vissuti”.

2) non si confondano queste “Tavole di smeraldo” con la più famosa “Tabula Smaragdina”, nella quale sono esposti i principi fondamentali della dottrina ermetica, anch’essa attribuita a Ermete Trismegisto (“Tre volte Grandissimo”), che è il nome con cui fu chiamato da Greci e Romani il dio Thoth -considerato inventore dell’alchimia, sia nella versione pratico-operativa, sia nel suo complesso simbolismo mistico-filosofico-. Questo testo nella versione conosciuta fin dal ME è una traduzione latina della parte finale di un’opera ermetica araba, il “Kitab sirr al-Khaliqa wa Sun’at al-Tabi’a” (Libro segreto della Creazione e Perfezionamento della Natura), composta da un musulmano eterodosso vissuto al tempo del califfo al-Mamùn (813-833), ma erroneamente ritenuto uno scritto di Apollonio di Tiana, -detto in arabo “Balinas”, e per questo noto come “psudo-Balinas”-. Secondo la leggenda però la “Tabula Smaragdina” fu trovata in una caverna in Egitto, nelle mani della mummia di Ermete Trismegisto (in tal caso la caverna sarebbe forse da identificare con la stanza segreta di cui si parla nel “papiro Westcar”?), incisa in caratteri e in lingua fenicia su una lastra di smeraldo. A compiere la scoperta sarebbe stata Sara, la moglie di Abramo; ma in altre versioni lo scopritore sarebbe stato Mosè (il quale peraltro fu identificato da alcune correnti ebraico-ellenistiche con lo stesso Ermete Trismegisto), Alessandro Magno o Apollonio di Tiana. Il suo contenuto è espresso in dodici apodimmi nei quali si proclama il principio fondamentale della corrispondenza tra il Macrocosmo e il Microcosmo, e che tutte le cose sono derivate da un’unica realtà divina iniziale. Il più celebre di essi è quello iniziale che afferma: “Quanto è in basso è come ciò che è in alto, e quel che è in alto è come quello che è in basso per compiere il miracolo dell’unica cosa”.

3) “Solamente con la conoscenza potrai vincere, solamente con la conoscenza puoi avere la Luce”. “Nel finito esiste l’infinito”. “Tutto quanto esiste avanza dalla Luce, e la Luce promana dal Tutto”. “Sappi, o uomo, che tu sei solo uno spirito. Il corpo è nulla. L’anima è tutto. Non lasciare che il tuo corpo sia una prigione: fuggi dalle tenebre e inoltrati nella luce”. “Sebbene celata nell’oscurità, nella tua anima vive sempre una scintilla della vera fiamma”. “Sii uno con la più grande di tutte le luci”: queste frasi sono un esempio della sostanza degli insegnamenti trasmessi nel misterioso Libro di Thoth.

4) secondo alcune scuole esoteriche in Egitto sarebbe stato istruito dai sacerdoti sulle arcane dottrine che vi si tramandavano.

5) durante il cammino che il gruppo familiare deve compiere per giungere nel delta del Nilo, il piccolo Gesù ammansisce i draghi che abitavano una grotta dove la sacra famiglia voleva sostare per riposarsi; Gesù e i suoi genitori sono poi accompagnati da una moltitudine di animali, quali buoi, asini e ovini, che li scortano insieme a leoni, leopardi e altre belve che si mostrano del tutto mansuete. Una palma poi offre i suoi dolci frutti a Maria abbassando le fronde, affinché ella possa coglierli senza fatica, e fa scaturire una sorgente con le sue robuste radici, ove la famiglia e gli animali che l’accompagnavano possano dissetarsi: per questo l’albero viene benedetto e un suo ramo trasportato da un angelo in paradiso.

6) di città denominate “Ermopoli” (“Hermopolis”) nell’antico Egitto ne esistevano almeno quattro, ed in esse era particolarmente venerato il dio Thoth, identificato dai greci con Hermes, da cui il nome attribuito alle città dove il culto di questa divinità era più sviluppato, -ma che, come è ovvio, nella lingua egizia avevano altri nomi-. La più importante di queste città era Hermopolis maior -o H. magna- (Hermou polis megàle in greco), in lingua egizia CHEMEN,. o KHEMENU, o CHMUNU, capoluogo del XV nomo dell’Alto Egitto; ma quella nominata nel vangelo dello pseudo-Matteo è Hermopolis minor -o H. parva- (Hermou polis mikra in greco), in egiziano DIMA-EN-HOR (“Città di Horo”), capitale del XV nomo del Basso Egitto.

7) si tenga presente che quella di “gnosticismo” è una definizione che comprende diversi ed eterogenei (talora contrastanti) indirizzi del pensiero cristiano dei primi secoli, -ma anche dell’età medioevale e moderna: ad es. i Catari dei secoli XII e XIII, la teosofia di H. Petrovna Blavatsky e l’antroposofia di R. Steiner si possono considerare delle forme di gnosticismo-, accomunati, oltre al fatto di rifarsi ad una tradizione segreta e riservata a coloro “che siano in grado di intendere” le più recondite e sublimi verità, dal sostenere che l’elemento centrale della salvezza è la “gnosi”. Quest’ultima è la “conoscenza” liberatrice, da intendersi non come un insieme di cognizioni puramente intellettuali, ma come “presa di coscienza” della sostanza spirituale presente nell’uomo (ma in misura diversa, e anzi per certe scuole solo in alcuni degli umani, gli “pneumatici” (spirituali) o “pleromatici”-, e della sua potenziale divinità, che deve essere liberata dal carcere della materialità per ricongiungersi al principio supremo. Naturalmente la distinzione tra le correnti “gnostiche” e quelle “ortodosse”, -per le quali la “salvezza” consiste in una fede cieca nell’azione di una divinità subita in modo passivo dal fedele- sono tutt’altro che nette, anzi sono spesso assai sfumate, anche perché il concetto di “gnosi” e di illuminazione è presente, pur con accenti diversi, anche nella dottrina ortodossa (specialmente nel vangelo di Giovanni e nella “lettera ai Colossesi” di S. Paolo). Così come spesso labile era il confine tra “cristianesimo”, nelle sue varianti “eterodosse” ed “ortodosse”, -ma il concetto di “ortodossia”, come definizione dogmatica precisa e vincolante si fisserà solo più tardi nel IV secolo, quando cominciarono a celebrarsi dei “concili ecumenici”- e “paganesimo”, ossia il complesso multiforme di tutte le credenze religiose, le dottrine filosofiche, le correnti spirituali e culturali estranee al monoteismo ebraico. Alcuni studiosi poi hanno fatto rientrare in modo abbastanza arbitrario nello gnosticismo tutti i sistemi filosofico-teologici e gli autori dal carattere marcatamente antinomistico, tendenti a svalutare l'”Antico Testamento”, -imperniato, (pur tenendo conto delle non poche disuguaglianze e incoerenze dottrinali in esso non di rado riscontrabili non solo tra un libro e l’altro, ma pure nel medesimo libro), sulla “legge” di un dio esclusivista e tirannico-, e a vedere nella tradizione filosofica ellenica, specie quella pitagorica e platonica, una forma di rivelazione divina parallela e forse più alta e universale di quella ebraica (preceduti in questo dagli esponenti della scuola giudaica alessandrina, che avevano già tentato una conciliazione, per non dire un’identificazione tra rivelazione e legge mosaica e filosofia greca), come ad esempio quello di Marcione (85-160 circa), o addirittura quello di Origene (185-253 circa). D’altra parte anche nell’ebraismo negli ultimi secoli a. C. e nei primo d. C. si erano sviluppate correnti di carattere spiccatamente gnostico in modo indipendente dall’ellenismo (pur se con probabili influenze di quest’ultimo, che appaiono evidenti pure in alcuni libri tardi della stessa Bibbia, come quello della Sapienza e dell’Ecclesiaste, -ove peraltro non mancano neppure gli spunti di origine egiziana-), che sfoceranno poi nel ME nel complesso quadro di dottrine mistiche della “Qabbalah”, la quale mostra a sua volta rilevanti punti di contatto con il neoplatonismo e lo gnosticismo cristiano, anche per l’importanza che hanno in essa le speculazioni numerologiche e la mistica delle lettere dell’alfabeto ebraico. La testimonianza forse più nota e significativa dello gnosticismo ebraico è rappresentata dalla scuola degli Esseni, nei cui testi -i cosiddetti “manoscritti del Mar Morto- si rileva una cosmogonia e un’antropologia che anticipa alcuni temi degli gnostici cristiani e con paralleli anche nelle dottrine ermetiche -contrasto Luce- Tenebre, e figli della Luce- figli delle Tenebre; svalutazione della materia e del corpo che tiene l’anima nella prigione dell’ignoranza; metensomatosi -ossia “reincarnazione”, ecc.-); negli scritti degli Esseni sono state trovate proposizioni e affermazioni simili o addirittura testualmente identiche ad alcune presenti nei vangeli canonici e apocrifi, così che si può affermare in tale scuola esservi almeno una delle radici del cristianesimo.

8) la parola “abraxas” (a volte appare anche nella forma “abrasax”) è senza dubbio di origine egiziana o più probabilmente semitica, ed è connessa con altre “parole di potenza”, quali “ablanathanalba” -αβλαναθαναλβα- (della quale abbiamo parlato nel capitolo sugli enigmi, gli anagrammi e i palindromi) e la celeberrima “abracadabra”, che venivano usate inscritte o incise su amuleti e talismani (si tenga presente che mentre l’amuleto ha scopo apotropaico, serve cioè a stornare influssi malefici e digrazie, a scacciare demoni e malattie, il talismano attira le energie benefiche, è un “portafortuna”: abracadabra ad esempio ha un’efficacia eminentemente difensiva, e in particolare allontanava le febbri e altre malattie). In queste parole spesso ricorre la radice del verbo ebraico e aramaico “bàraka”, “benedire”; altre sono riconducibili ai nomi di divinità minori o di demoni della religione egizia, o degli angeli dell’ebraismo.

9) AION era spesso identificato anche con Kronos, il quale però personifica più propriamente il tempo umano e storico, e non il tempo cosmico; quest’ultimo era a sua volta identificato da alcune scuole gnostiche con El o con Jahwè (IAO), il “Demiurgo”, a volte neutro, a volte decisamente maligno, creatore della materia, fonte e causa del dolore, e responsabile della caduta dell’anima. Su AION si veda anche la nota n. 4 della seconda parte (27 dicembre 2015).

10) l’autore descrivendo la misura di questo strano oggetto intende quasi certamente il cubito greco o il cubito piccolo egiziano, corrispondenti entrambi a circa 0,44 m, -che darebbero comunque la ragguardevole ampiezza di 160 m di circonferenza- e non del cubito reale egizio, -il cui valore era di 0,52 m-.

11) si tenga presente che mentre l’astronomia e l’astrologia babilonesi si fondavano sulle costellazioni poste sull’eclittica -che come ben sappiamo per effetto della “precessione” degli equinozi, si spostano (per cui costellazione e “segno” dello zodiaco non coincidono)- e sui pianeti, l’astrologia egiziana, pur tenendo conto pure di tali elementi, prendeva i considerazione soprattutto le stelle fisse e i decani, nonché i giorni del calendario, che avevano un significato propizio, nefasto o neutro, sia per i movimenti astronomici ad essi legati, sia a causa di eventi mitologici ai quali erano associati. Nell’età tolemaico però anche l’astronomia e l’astrologia egiziane subirono un forte influsso della scienza mesopotamica per il tramite della Grecia, la qual già a sua volta aveva assimilato la scienza e la saggezza degli astri. Peraltro la redazione di temi astrali (di nascita o progressi) di singoli individui, e quindi la nascita dell’astrologia com’è tutt’ora intesa, non risale a prima del III sec. a. C. Credo sia superfluo aggiungere che i cosiddetti “oroscopi” (per inciso il termine “horoscopos” indica propriamente il grado ascendente in un tema, e significa “che guarda il punto sorgente”) per segni -che dovrebbero cioè essere validi per tutti i “nativi” del segno- pubblicati sui giornali siano completamente destituiti di qualsiasi valore e fondamento.

12) osserviamo che “nun” è pure il nome della 14° lettera degli alfabeti fenicio ed ebraico, -quella che diede origine alla lettera enne-, dove indica la “grande acqua” primordiale, come quella sulla quale aleggiava lo spirito di Dio secondo la Genesi ebraica e che corrisponde all’Apsu o Abzu mesopotamico; questo termine indicava in modo generico anche un grande animale marino, quale una balena o un enorme pesce. Le lettere dell’alfabeto fenicio presero il nome dall’oggetto o dall’essere che fu scelto per rappresentare in forma stilizzata il suono col quale il loro nome cominciava.

13) com’è noto, Amon, rappresentato come un ariete o un uomo con testa di ariete (ma in epoca tarda con le sole corna di ariete) fu poi assimilato con Ra, il gande dio solare, e in questa forma divenne la divinità più importante del Nuovo Regno.

14) questa ninfea è il “loto egiziano” (Nymphaea caerulea e N. lotus), dal colore bianco (N. lotus) o azzurro (N. caerulea; quest’ultima pressoché scomparsa dall’Egitto) da non confondere con il loto asiatico (Nelumbium speciosum, o Nelumbo nucifera). Sia in Egitto sia in India e nell’Estremo oriente questi fiori hanno assunto una valenza mistica e religiosa.

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