L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -ottava parte (la “preghiera ad Iside”; il romanzo ellenistico)-

Ma purtroppo la vicenda di Carite e Tlepolemo, differenziandosi in questo dalle trame dei romanzi ellenici, ha un imprevisto finale tragico: l’asino Lucio, che, come abbiamo visto, dopo aver vissuto sofferenze e pericoli, quando credeva che la fortuna avesse smesso di accanirsi contro di lui e lo aspettasse una condizione migliore, si trova di nuovo in una triste e ingrata situazione, dove ha modo di udire il racconto di un servo che reca la notizia della morte di Carite.caccia al cinghiale-mosaico

Il famiglio spiega infatti che un pretendente alla mano di Carite, di nome Trasillo, che era stato respinto a causa dei suoi costumi dissoluti, dopo il matrimonio di lei con il suo rivale Tlepolemo, covava un feroce risentimento e aspettava l’occasione per potersi vendicare di quello che per lui era stato un insopportabile affronto. Fingendosi dunque amico della coppia, cercò di frequentare la loro dimora e un giorno, mentre accompagnava Tlepolemo a caccia, mise in atto un perfido piano. Fa in modo che venga stanato un grosso cinghiale, propone al compagno di inseguire la fiera, ma poi atterra il cavallo di Tlepolemo, il quale viene prima assalito dal cinghiale inferocito per l’inseguimento, e poi viene finito dal falso amico.

Trasillo, ostentando una simulata costernazione, fa mostra di consolare la vedova, che spera di poter condurre a nuove nozze. Ma Carite, sconvolta dal dolore, si sdegna della prematura proposta e minaccia di suicidarsi. Inoltre le appare in sogno l’ombra del defunto marito, che le svela la slealtà di Trasillo e come sia stato questi ad ucciderlo. La giovane donna finge di acconsentire alle insistenti e inopportune richieste del perfido spasimante, e gli dà un appuntamento notturno presso la sua dimora. Quando arriva alla casa di Carite, la nutrice, da ella incaricata, gli propina del vino drogato con un potente sonnifero. Trasillo, nulla sospettando, beve il vino e cade in un sonno profondo.

Carite compie allora la sua vendetta: preso uno spillone che teneva tra i capelli, accieca con quello l’assassino del suo sposo. Indi, afferrata la spada appartenuta a Tlepolemo, si precipita alla tomba di lui, dove, dopo aver narrato ai cittadini accorsi quanto aveva appreso in sogno sul tradimento e l’omicidio perpetrato da Trasillo, si trafigge con la spada, morendo sul sepolcro del marito. Quanto all’assassino, a sua volta si fa trasportare alla tomba e vi si fa rinchiudere, deciso a finire d’inedia i suoi giorni.

Con questa fosca aurea di tragedia si conclude la storia di Carite e Tlepolemo. Questo epilogo può apparire strano: in effetti per certi aspetti la figura e la vicenda di Carite sembra essere parallela, sebbene molto più lineare, di quella di Psiche che le viene narrata e quindi ci si aspetterebbe un finale altrettanto lieto. Invece all’opposto di Psiche, Carite trova la sciagura; tenendo conto dell’approdo mistico del protagonista delle Metamorfosi alla religione liberatrice di Iside, si potrebbe pensare che la storia di Carite, Tlepolemo e Trasillo adombri il mito egizio di Iside, Osiride e Seth: come in tale mito Seth uccide a tradimento Osiride, così fa Trasillo con Tlepolemo, pur se in circostanze diverse.

Rileviamo altresì che l’apparizione del cinghiale, al quale Trasillo attribuisce la responsabilità della morte del rivale, si riallaccia ad un tema presente più volte nei miti ellenici: basti pensare al cinghiale di Calidone, mandato da Artemide a devastare le terre e le vigne del re Eneo, padre di Meleagro contro il quale fu organizzata la spedizione a cui parteciparono numerosi guerrieri, a quello di Erimanto, la cui cattura costituì la quarta fatica di Eracle, al cinghiale che uccise Adone;  nonché, per passare alla storia, che però trascolora nella leggenda, alla fiera che fu causa involontaria della morte di Ati, figlio di Creso, re di Lidia, che fu colpito al posto dell’animale dallo strale di Adrasto, -episodio questo del quale abbiamo parlato nella terza parte dell’articolo sulle Amazzoni, guerriere della Luna, pubblicato il 27 settembre 2015-. Ed in effetti questo animale nella tradizione greca viene sempre mostrato come un animale assai feroce, a cui si legano vicende luttuose, spesso strumento del castigo divino.

E’ a mio avviso degno di nota il fatto che nell’introdurre la partenza per la caccia di Tlepolemo, caccia peraltro contro animali inermi, -poiché, come lo scrittore precisa poco dopo, Carite non voleva che il marito affrontasse i rischi derivanti da animali dotati di grandi corna o di zanne-, Apuleio si esprime in tal modo: “Die quadam venatum Tlepolemus […] petebat indagaturus feras, quod tamen in capreis feritatis est” (Un giorno Tlepolemo … si era recato a caccia di fiere, posto che vi possa essere della ferocia nelle caprette selvatiche): questa frase esprime forse una larvata critica o disapprovazione della caccia, quanto meno ad animali inermi?viviaria-4

Abbiamo già rilevato, nella nota 10 della sesta parte della presente ricerca, come l’autore mostri, -in particolare in Met. IX, 12-13-, una indubbia simpatia per gli animali e gli uomini costretti a compiere dure fatiche in terribili condizioni e commiserazione per le loro sofferenze. Sarebbe probabilmente eccessivo vedere in questo atteggiamento una vera e propria denuncia sociale, e una implicita protesta o un dissenso contro le ingiustizie e lo sfruttamento imposti o comunque accettati dalla società; ma è altrettanto vero che in molte correnti filosofiche la pietà e il senso di fratellanza verso tutti gli esseri viventi, -basti pensare in primis a Pitagora, ma anche ad Empedocle, Teofrasto, Plutarco, Claudio Eliano, e al celebre Apollonio di Tiana, uno dei profeti dell’idealismo e dello spiritualismo dei primi secoli della nostra era-, oltre che l’uguaglianza, almeno sul piano ideale, degli esseri umani erano ben presenti da molti secoli, e si stavano accentuando negli ambienti neopitagorici e in parte di quelli neoplatonici, -in particolare si pensi a Porfirio- proprio nell’epoca in cui visse Apuleio, oltre che in alcune correnti cristiane gnostiche e nel manicheismo.

Tuttavia queste prese di posizione rimasero in genere soltanto teoriche, o comunque limitate a ristrette cerchie filosofiche e spirituali, e non si tradussero in concrete iniziative sociali o politiche per combattere o almeno ridurre lo sfruttamento e il maltrattamento di animali, del quale l’esempio più clamoroso si aveva nel crudeli e sanguinosi giochi del circo e dell’anfiteatro. E senza dubbio, questo è l’aspetto del mondo romano, pur così grande, che colpisce in modo più negativo; sebbene i combattimenti tra animali e tra uomini e animali a scopo di esecrabile divertimento purtroppo non fossero rari neppure presso altre antiche popolazioni, e si siano protratti in parecchi luoghi fino ai tempi moderni, e vengano tuttora praticati (basti pensare alla famigerata “corrida”), per frequenza, imponenza, numero degli animali di cui veniva fatta strage, non si ebbero mai in misura tale da poter essere paragonati ai “ludi circenses” romani. Si pensi che le cacce organizzate, specialmente in Africa, per procurare gli animali da adibire a questi cruenti spettacoli causarono una tale rarefazione nella fauna dell’Africa settentrionale che specie comuni fino al primo secolo d. C. in tale area, sino alle coste mediterranee, già nel IV secolo erano scomparse da essa e avevano ridotto il loro areale di distribuzione all’Africa sub-sahariana (anche se dopo la fine dell’enorme prelievo venatorio, conseguente al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, e al progressivo rarefarsi delle “venationes”, i sanguinosi spettacoli con animali, -che però continuarono almeno fino al VI secolo: l’ultima “venatio” nel Colosseo avvenne nel 523-, vi fu una parziale ripresa).

Com’è noto, il momento più alto, e più denso di significato religioso del romanzo apuleiano è la celebre “preghiera ad Iside” (Met. XI, 2). Il povero asino, stremato e disgustato da tutto quello che ha dovuto subire o a cui ha dovuto assistere, riesce a fuggire e giunge sulla riva del mare, dove poco dopo si addormenta per la stanchezza. Si desta sul far della notte e davanti a lui appare la Luna piena che sembra levarsi dalle onde. A quella vista, dal cuore di Lucio sgorga spontanea un’accorata preghiera alla Regina del Cielo affinché ella abbia pietà di lui, gli ridoni la forma umana che aveva colpevolmente perduto e ponga fine alle sue sofferenze.

Statua di Iside del II secolo.
Statua di Iside del II secolo.

Dopo di che l’asino si riaddormenta e durante il sonno Iside stessa si manifesta a lui in tutta la sua divina maestà, adorna degli attributi che la tradizione le assegnava (il sistro, l’ureo, il nodo isiaco) e si rivolge a lui assicurandogli la sua protezione e spiegandogli quello che avrebbe dovuto fare per ritrovare l’aspetto umano (recarsi alla processione che il dì seguente sarebbe stata celebrata in suo onore e inghiottire la ghirlanda di rose che il sacerdote da lei ispirato gli avrebbe offerto). La dea sottolinea però che da quel momento in poi egli avrebbe dovuto consacrare a lei la sua esistenza, lasciare le buie e sordide vie della perdizione e percorrere quelle dello spirito. In tal modo, come abbiamo detto sopra, avviene la redenzione di Lucio e si conclude il libro.

E’ poi oltremodo significativo che, sia nella preghiera di Lucio, sia nel materno discorso che la dea rivolge al suo devoto, Iside sia identificata con molte divinità femminili del mondo antico (Cibele, Minerva, Venere, Diana, Cerere, Proserpina, Giunone, Bellona, Ecate), che in pratica sono solo diversi nomi, aspetti e ipostasi di un’unica divinità, la quale a sua volta è la forma femminile del divino, che dopo l’affermazione del cristianesimo si incarnerà nella figura della Vergine Maria.

Ma l’importanza dell’elemento religioso è un elemento che accomuna le Metamorfosi apuleiane ai romanzi ellenistici che fiorirono tra il I e il IV secolo (e che peraltro continuarono ad essere coltivati senza profonde differenze anche nel periodo bizantino, a parte la “cristianizzazione”): anche in essi infatti la presenza delle dottrine e dei culti religiosi salvifici, oltre ad essere frequente e pregnante, spesso è anche uno dei “motori” della storia stessa, sebbene, a differenza che nel romanzo apuleiano, essa non assuma un grande rilievo nel finale, ma si mostri in tutto lo sviluppo della trama. E pure qui è in primis Iside la divinità più invocata ed attiva, ma parimenti importanti sono le divinità solari quali Helios, Mitra e il dio solare di Emesa (El al-Giabal, il “Dio della Montagna”), poi confluite nell’unica figura del Deus Sol Invictus, divenuto patrono dell’Impero Romano al tempo di Aureliano, e che fu contrapposta, ma nello stesso tempo preparò e si identificò con quella di Cristo.

Soprattutto nei “Racconti efesii di Abrocome e Anzia” di Senofonte di Efeso e nelle “Storie etiopiche di Teàgene e Cariclea” di Eliodoro di Emesa, l’elemento religioso, riferito in particolare ad Helios, identificato sia con Osiride sia con Apollo, e alla Luna, a sua volta manifestazione sia di Artemide, sia soprattutto di Iside, si rivela elemento non secondario e riveste anzi notevole importanza: al tempio di Helios a Rodi recano Anzia ed Abrocome un panoplia d’oro quale devota offerta dopo il loro primo sbarco, accanto alla quale porranno in seguito una stola preziosa (I, 12); a Rodi poi, durante la festa di Helios, quando la città è piena di tripudio, immagine il romanziere che avvenga il nuovo incontro dei due sposi e ad Helios farà devota offerta della sua chioma (V, 10-11).fayum-6 Ed Helios è anche il principale protettore di Abrocome, che lo assiste quando viene condannato dal governatore dell’Egitto ad essere crocifisso sulla riva del Nilo (1), sopra un dirupo volto verso la corrente; il giovane invoca il dio affinché lo salvi dall’ingiusto supplizio e questi lo esaudisce suscitando un vento impetuoso che prima solleva la croce e poi la fa precipitare nelle acque del fiume, che lo trasporta alla sua foce.

Catturato di nuovo dalle guardie, viene ricondotto al governatore che lo condanna questa volta al rogo; ma, grazie alle sue preghiere, viene salvato ancora dal dio per mezzo di una improvvisa inondazione del fiume, che spegne le fiamme che avrebbero dovuto arderlo. Persuaso che il giovane sia protetto dagli dei, il governatore lo trattiene ancora in carcere, ma comanda che sia trattato come un ospite di riguardo, e in seguito, dopo aver conosciuto la sua storia pietosa, lo libera.

Molte delle complicate peripezie dei protagonisti di questi romanzi sono ambientate in Egitto, la terra dove era nata la religione di Iside ed Osiride, e dunque è naturale che la presenza dei templi, dei sacerdoti e del culto di Iside (ma d’altra parte si potrebbe pure ipotizzare che codesta ambientazione sia dovuta, oltre all’amore per l’esotismo che è ingrediente essenziale di essi, proprio all’influenza della spiritualità isiaca). In particolare nelle “Etiopiche”, tutta la storia ruota intorno a questo elemento: sacerdote di Iside è il saggio Calasiride che svela a Cariclea la sua vera origine regale (2); ma anche i figli di costui, Tiamide e Petosiride, i quali, molto meno devoti e disinteressati del genitore,-specie il secondo, che ha usurpato l’ufficio-, si contendono la carica di sommo sacerdote nel tempio di Iside a Menfi; in questo tempio lascia la vita terrena Calasiride, e  Arsace, moglie del satrapo d’Egitto (la storia è ambientata durante la dominazione persiana del paese) vede per la prima volta Teàgene, -il giovane greco giunto in Egitto che aveva conosciuto Cariclea a Delfi-, e viene colta da un folle amore per lui. E in modo assai significativo, il romanzo si conclude non solo con il matrimonio dei due protagonisti, ma con la loro consacrazione al sacerdozio di Iside.

Ma non meno importante è la presenza di Iside nei “Racconti efesii di Abrocome ed Anzia”: perfino il perfido mercante indiano Psammide prova una religiosa venerazione per la dea; dopo aver acquistato Anzia dai ladroni che l’avevano rapita, invaghitosi della fanciulla, vorrebbe usarle violenza, ma ella riesce a sottrarsi alle turpi brame di quell’uomo dicendogli di essere stata consacrata ad Iside, e che se avesse commesso un tale sacrilegio sarebbe incorso nell’ira della dea, così che questi rinuncia al sue turpe proponimento (III, 12). Più oltre Anzia si trova a dover subire ancora una volta un tentativo di stupro, da parte di Polyido, -un altro dei numerosi personaggi del romanzo-; ella riesce a fuggire nel tempio di Iside a Copto, ove implora la dea affinché la aiuti a difendere la sua virtù; sopraggiunto Polyido, egli non osa contravvenire alla volontà della dea recando violenza a una persona che si è posta sotto la sua protezione (V, 4) (3).

In alcuni di questi romanzi è stata anche ipotizzata un’influenza del cristianesimo, tanto che l’autore delle “Etiopiche”, Eliodoro di Emesa, è stato talvolta identificato con l’omonimo vescovo della città di Tricca in Tessaglia, -per quanto l’identità dei due sia oggi ritenuta alquanto improbabile, perché il vescovo visse nel IV secolo, mentre la datazione del romanzo è unanimemente fatta risalire al III secolo-. I protagonisti di queste storie al tempo stesso avventurose ed edificanti difendono ad oltranza la loro virtù e la loro fedeltà contro le insidie e la malvagità degli uomini e del destino, fino a coronare con l’aiuto degli dei il loro amore che ha caratteri fortemente idealizzati e assurge quasi ad un simbolismo mistico (e quindi la loro unione è simile a quella di Amore e Psiche delle Metamorfosi),-mentre non v’è traccia in esse delle volgarità e delle situazioni scabrose di cui erano piene le “fabulae milesiae”-, tanto che non si stenta a ritrovare una lontana eco di esse nei “Promessi Sposi”, sebbene il romanzo manzoniano sia collocato in ambiente storico e culturale tutt’affatto diverso e minori siano in esse le componenti fantastiche (4).

I supplizi e le situazioni difficili e degradanti a cui non di rado gli eroi e le eroine dei romanzi greci vengono sottoposti e a cui riescono a sottrarsi miracolosamente ricordano molto quelli simili che devono subire i martiri cristiani descritti nelle numerose “passiones” leggendarie fiorite tra il IV e il VII secolo, genere di letteratura devota che è certamente debitore di questa narrativa profana, ma intrisa di religiosità.

Nell’ambito della narrativa ellenistica esiste tuttavia un altro genere di romanzo, in cui rientrano la biografia romanzata di importanti personaggi storici, in cui alle vicende del protagonista, -che spesso sia allontanano alquanto dai dati storici-, si mescolano elementi didascalici, descrizioni più o meno scientifiche, avventure mirabolanti e fantastiche, il tutto improntato ad un gusto esuberante per il meraviglioso e l’esotico, che non è però fine a sé stesso, poiché queste narrazioni avevano un significato morale e filosofico, -sia nella trama nel suo complesso, sia negli episodi attraverso i quali essa si snoda-, oltre che intenzioni didattiche e parenetiche. In questi romanzi i viaggi e le avventure vissuti dal protagonista sono metafora di una ricerca interiore, per cui essi, al di là dell’aspetto più evidente di soddisfare la curiosità e l’amore per il meraviglioso del lettore, hanno un carattere e un contenuto spirituale.

Gli esempi più celebri di queste biografie “apologetiche” sono la “Vita di Apollonio di Tiana”, -figura di filosofo e di asceta che abbiamo più volte citato nelle nostre trattazioni-, di L. Flavio Filostrato (170-249 circa), detto “di Atene”, per distinguerlo da altri letterati suoi omonimi e consanguinei-; e il “Romanzo di Alessandro”, di autore ignoto, ma designato per convenzione come “Pseudo-Callistene”, poiché la sua vita del condottiero màcedone fu a lungo attribuita allo storico greco Callistene di Olinto, parente di Aristotele, contemporaneo di Alessandro Magno, che aveva seguito il sovrano nelle sue imprese in Asia e ne aveva lasciato una storia (“Praxeis Alexandrou” “Fatti di Alessandro”), andata però perduta, opera che abbiamo altresì citato in altri articoli (5).

Nella prima di queste opere, la “Vita di Apollonio di Tiana”, in otto libri, la narrazione del viaggio che questi compie nelle terre d’Oriente e soprattutto in India per ampliare le sue conoscenze e abbeverarsi alle fonti della saggezza, -di cui quei luoghi misteriosi avevano fama di essere ricolmi-, e in seguito degli spostamenti del maestro nelle province dell’Impero Romano si mescola all’esposizione dei suoi insegnamenti e alla descrizione dei suoi miracoli.

Nei primi libri (I-IV), specialmente nella parte che riguarda la visita in India del nostro, sono inserite numerose digressioni di carattere naturalistico ed etnografico, che però contribuiscono anch’esse a precisare le dottrine di Apollonio (ad esempio le sue osservazioni a proposito sull’amore degli animali per i loro piccoli e dell’intelligenza e della sensibilità degli elefanti, che confermano la concezione pitagorica e orfica dell’Intelligenza e dello Spirito universali presenti ed evolventisi in tutti gli esseri (in II, 11-16, che peraltro ricordano le consimili argomentazioni presenti in opere quali “Pòtera ton Zoon phronimòtera, ta chersaia è ta ènidra”- Quali degli animali siano più intelligenti, quelli di terra o quelli di mare- di Plutarco di Cheronea, o il posteriore “Perì Apoches Empsichon” -De abstinentia ab esu carnium- di Porfirio di Tiro)(6).

Gli eventi nei quali Apollonio si trova coinvolto e i miracoli che compie avvicinano alquanto la sua figura a quella di Cristo: egli scaccia demoni (II, 4; IV, 10, 20, 25); risuscita morti (IV, 45); pronuncia profezie (V, 13); subisce la persecuzione dei potenti del mondo -di Ofonio Tigellino, prefetto del pretorio di Nerone (IV, 42-44) e in  seguito di Domiziano (nei libri VII e VIII)-.

L’opera si conclude con l’apparizione di Apollonio ai discepoli dopo la morte (e quindi con una sorta di resurrezione); peraltro Filostrato precisa che della morte del maestro non si avevano notizie certe e che a suo parere si trattò di una sparizione o di una assunzione in cielo mentre era ancora vivo, piuttosto che di una vera morte fisica.

Pertanto questa “Vita” presenta notevoli affinità con i testi cristiani, sia canonici sia apocrifi: con gli “atti” nella struttura generale della narrazione, incentrata sui numerosi spostamenti del protagonista, le sue peripezie ed incontri con personaggi più o meno illustri, talora benevoli, talaltra meno; con gli “evangeli” per il fatto che il maestro espone le sue dottrine, che hanno sostanza soprattutto morale, in forma ispirata, ma semplice, e nei prodigiosi eventi da lui operati.

Sudario egizio in lino del II secolo che rappresenta un defunto accolto da Osiride e Anubi. Come si può notare, i due dei non appaiono più, come nell'antico Egitto, i severi giudici delle anime nell'al di là, ma si mostrano amici e protettori del fedele, - qui raffigurato col tipico abbigliamento romano-, che in vita aveva confidato in essi.
Sudario egizio in lino del II secolo che rappresenta un defunto accolto da Osiride e Anubi. Come si può notare, i due dei non appaiono più, come nell’antico Egitto, i severi giudici delle anime nell’al di là, ma si mostrano amici e protettori del fedele, – qui raffigurato col tipico abbigliamento romano-, che in vita aveva confidato in essi.

E non pochi testi cristiani a loro volta, -come si è detto in  precedenza-, in specie gli “atti” apocrifi che narrano la predicazione e le peripezie di singoli apostoli, -tra cui alcuni dei quali nei testi canonici non si fa più cenno, come Andrea, Bartolomeo e Tommaso-, mostrano strette analogie con i romanzi ellenistici, poichè in essi si ritrovano spesso ingredienti tipici di questi ultimi (naufragi, predoni e pirati, persecuzioni di potenti, agnizioni, incontri con ciarlatani e falsi profeti, donne perfide e scellerate, ossessi e indemoniati, trasformazioni in animali).

In particolare somiglianze molto forti si possono osservare con due opere, il cosiddetto “Romanzo pseudo-clementino” e gli “Atti di Santippe e di Polissena”, che ne riprendono in pieno gli schemi narrativi e i “topoi”, tanto che si possono considerare dei veri e propri romanzi ellenistici cristiani (così che la critica moderna non ha esitati a definire il primo di questi scritti apocrifi “romanzo”).

Il “Romanzo pseudo-clementino”, consta di due parti distinte: le “Omelie” in venti libri, derivano il nome con cui sono note dai lunghi discorsi di S. Pietro che ne occupano la maggior parte; mentre le “Recognitiones” (i riconoscimenti), -alle quali più propriamente dovrebbe riferirsi il termine “romanzo”-, alludono alle agnizioni (come abbiano detto ingrediente tipico del romanzo greco, e prima della commedia nuova) che il protagonista dopo numerose e fantasiose avventure fa di suoi familiari di cui aveva perduto le tracce.

Questi, un giovane nobile romano, Clemente, -destinato a diventare il terzo successore di S. Pietro e quindi quarto papa-, parte da Roma alla volta delle terre del Vicino Oriente, spinto dal desiderio di conoscere i maestri spirituali e proseguire la sua ricerca che lo porta incessantemente a interrogarsi sui grandi quesiti dell’esistenza (dunque il fine che lo anima è simile a quello di Apollonio di Tiana, sebbene egli sia destinato a diventare non un profeta o in maestro, ma un discepolo).

Giunto in Palestina, Clemente ha modo di conoscere la nuova dottrina cristiana (o per meglio dire, da quanto appare nel testo, giudeo-cristiana, con forti sfumature gnostiche, evidenti in particolare nella dottrina delle “sizigie”, le coppie dialettiche, una positiva e una negativa, che scandiscono, sia a livello cosmico, sia sul piano umano e storico, il divenire dell’Essere nelle sue manifestazioni) e, dopo un incontro con S. Pietro, si converte ad essa. Dopo la conversione, il protagonista della storia, attraverso una serie di avventure e disavventure, ritroverà la sua famiglia, che aveva perso fin da piccolo. Questo sviluppo, come abbiamo visto, è tipico del romanzo greco e la descrizione dell’incontro con i ritrovati genitori e fratelli occupa buona parte della seconda parte del romanzo -ovvero le “Recognitiones”.

Questo testo apocrifo, -risalente nella forma ora conosciuta al III secolo, ma derivante da fonti più antiche-, è conosciuto in due redazioni: una greca, -che conta solo due manoscritti (un codice conservato nella Biblioteca Vaticana e uno a Parigi)-, e una latina, della quale esistono invece molte copie, -tutte tratte dalla traduzione in dieci libri fatta da Rufino di Aquileia (345-410 circa, grande traduttore in latino di opere teologiche greche) alla fine del IV secolo o agli inizi del V-, a testimonianza del fatto che il “romanzo” suscitò notevole interesse soprattutto nel ME latino.

CONTINUA NELLA NONA PARTE

Note

1) era stato condannato a morte perché accusato ingiustamente da una donna, Kyrno, di averle ucciso il marito. Ma in realtà era stata la donna stessa a compiere l’omicidio: invaghitasi del giovane, sperava così di indurlo a sposarla, ma vistasi respinta non aveva esitato ad accusarlo non solo di aver attentato alla sua virtù, ma di aver tolto la vita a suo marito, Araxo (questo episodio rientra quindi nel “topos” della moglie di Putifarre). Anche la presenza di figure femminili perfide e libidinose che perseguitano e attentano alla virtù dei protagonisti è un elemento che si riscontra sia nei romanzi ellenistici sia nelle “Metamorfosi” di Apuleio.

2) ella era figlia del re di Etiopia e della regina Persinna, -anch’essi consacrati al culto di Iside e Osiride-; ma, a causa della sua carnagione inspiegabilmente candida (e dunque strana e tale da far dubitare della paternità del sovrano) era stata abbandonata poco dopo la nascita.

3) dopo tre giorni Anzia si reca al santuario di Api a Menfi per consultare l’oracolo fornito dal sacro bovino, onde sapere se Abrocome sia ancora vivo e se riuscirà a ricongiungersi a lui: la risposta al suo quesito viene data dalle parole che alcuni fanciulli che giocavano davanti al tempio pronunciano conversando tra di loro, i quali affermano “Anzia avrà Abrocome come suo marito”.

4) osserviamo che secondo il famoso storico delle religioni ungherese Karol Kerenyi (1897-1973) il prototipo della coppia dei protagonisti del romanzo greco-ellenistico e delle loro peripezie sarebbe da individuare in Iside e Osiride, e tale ipotesi è in parte condivisa anche dal Cataudella, il qual peraltro mette l’accento su una sorta di “umanizzazione” del mito. E’ indubbio però che l’elemento religioso torna ad essere importante dalla fine del II secolo in poi, per quanto su un piano più psicologico e mistico che dottrinale. Ed infatti anche in età bizantina non mancarono le interpretazioni misticheggianti delle opere narrative ellenistiche. Nella tarda età bizantina poi a partire dal XII secolo vi fu un rifiorire del genere del romanzo in forme e secondo schemi assai simili a quelli antichi, e che si differenziava da essi, oltre che per qualche influenza della letteratura cavalleresca occidentale (tra l’altro è importante notare che la maggior parte di codeste opere furono scritte in versi e non in prosa), per un maggior approfondimento psicologico e lo sfondo culturale apertamente cristiano.

5) in particolare si veda la nota n. 1 della V parte della presente trattazione pubblicata il 7 febbraio 2016.

6) nella quarta parte della ricerca su “L’ARABA FENICE” (del 1 gennaio 2014) abbiamo già parlato dell’avvistamento della Fenice, la cui sede abituale Filòstrato, a differenza della maggior parte degli autori, colloca in India, -anziché in Arabia-. Della figura di Apollonio di Tiana e del suo viaggio in India, abbiamo parlato anche nella  terza parte della ricerca su “I CONTINENTI SCOMPARSI TRA SCIENZA E MITO”, pubblicata il 23 marzo 2013.

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