L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -settima parte- (gli animali e l’uomo nel pensiero di Porfirio)

(NB: la sesta parte della presente ricerca è stata pubblicata il 30 dicembre 2016.)

I più grandi filosofi hanno ravvisato anche negli animali non umani la “ragione interiore” (“λoγoς ενδiαθετoς”), la quale differisce da quella umana solo per grado, non per natura, così come, al dire di molti, la nostra capacità di raziocinio è diversa da quella degli dei soltanto perché quest’ultima è più acuta e penetrante.

Mosaico romano del II secolo proveniente dall’Africa proconsolare con animali esotici.

Ma non solamente gli animali ragionano: essi danno prova pure di discernimento e prudenza, poiché mostrano di essere consapevoli delle loro debolezze, così che non affrontano le situazioni troppo pericolose, e delle qualità che li rendono forti, di cui servono per difendersi. Alcuni di essi si tengono lontano dagli uomini mentre altri hanno imparato ad avvalersi della protezione offerta dai luoghi frequentati dagli umani, come le Rondini che costruiscono i loro nidi sotto i tetti; ma d’altra parte Aristotele, che ha trattato dell’argomento con vera cognizione di causa, assicura che tutti gli animali si preparano una dimora dove sentirsi al sicuro.

Coloro i quali affermano che gli animali fanno queste cose solo perché spinti da un istinto naturale, non considerano che così dicendo riconoscono che essi sono per natura ragionevoli, ovverosia non si rendono conto che in tal caso la ragione non sarebbe “naturale” per l’uomo e non sarebbe suscettibile di svilupparsi seguendo le inclinazione che essa ci ha dato. La divinità è senza dubbio ragionevole senza aver dovuto imparare a diventarlo; né potè mai in alcun tempo esserne priva, né si potrà certo asserire che non sia ragionevole perché non ha imparato ad esserlo.

La natura ha insegnato moltissime cose agli animali e agli uomini; l’istruzione ha loro donato diverse altre conoscenze. Gli animali apprendono parecchie nozioni e comportamenti gli uni dagli altri, talora anche dagli uomini, e possiedono una buona memoria che è indispensabile per perfezionare il ragionamento e la saggezza.

E non parliamo del fatto che gli animali, a differenza degli uomini, si congiungono solo per contribuire alla perpetuazione della specie e non certo per soddisfare la lussuria, e che spesso sia la madre sia il padre si prendono cura dei piccoli. Inoltre nessuno potrà negare che gli animali che vivono in società osservano la giustizia, come dimostrano le Api e le Formiche. Ciascuna specie animale ha una virtù che le è peculiare e in cui eccelle e che le è stata donata dalla natura. Se noi non riusciamo a comprendere come questo possa accadere è perché non possiamo entrare nei loro pensieri, così come non possiamo entrare nel pensiero di Dio, ma giudichiamo dalle sue opere che Egli sia intelligente e ragionevole.

Alcuni convengono che la giustizia crei un vincolo tra tutti gli esseri razionali, ma che gli animali selvatici e feroci non meritino la nostra compassione a motivo del fatto che non hanno alcuna familiarità con noi e che arrecano danni sia agli uomini sia agli animali che con l’uomo vivono e dal quale dipendono. Eppure, come afferma giustamente Aristotele, se gli animali vivessero nell’abbondanza, se non dovessero lottare per sopravvivere, non sarebbero feroci né tra di essi nè con gli uomini. Sono le dure necessità della vita che li inducono a compiere azioni crudeli; ed è altresì vero che nutrendoli e proteggendoli si acquista la loro amicizia. Qualora gli umani si trovino a vivere nelle medesime condizioni degli animali selvatici, sarebbero ancora più feroci di quelli che a noi sembrano selvaggi, come dimostrano eventi quali le guerre e le carestie, durante le quali giungono a divorarsi gli uni gli altri; ed anche al di fuori di queste circostanze non si peritano affatto di mangiare gli animali miti e mansueti che vivono insieme ad essi.

Sono state la voracità e la gola che hanno persuaso gli uomini che gli animali siano privi di ragione; ma gli dei e i savi hanno dimostrato per essi la medesima considerazione che ebbero per coloro che li supplicavano. Secondo Porfirio gli Egizi avrebbero attribuito aspetto di animali agli dei affinché gli uomini si astenessero dal mangiarli a causa della somiglianza con essi.

E dunque, se è vero che dovremmo avere delle relazioni improntate alla giustizia con tutti gli esseri ragionevoli, perché dunque non dovremmo osservare le leggi della giustizia nei confronti degli animali? Anche per quanto riguarda le piante, -alle quali secondo Porfirio risulta più difficile attribuire qualità razionali-, consumiamo i frutti, ma senza distruggere il fusto; quanto agli animali invece mangiamo solo quelli che abbiamo ucciso con le nostre mani, e così facendo commettiamo una enorme ingiustizia. Come osserva anche Plutarco, spegnere o rovinare le loro esistenze solo per soddisfare impuri piaceri, è un comportamento assolutamente crudele e ingiusto, poiché l’astinenza da essi non ci impedirebbe né di vivere, né di godere di un onesto diletto. Se le carni degli animali ci fossero necessarie per mantenerci in vita quanto l’aria, l’acqua, le piante e i frutti, senza i quali non è possibile la sopravvivenza, la natura stessa ci avrebbe messo nella necessità di compiere questo misfatto.

Quando gli uomini per la propria salvezza, o per quella dei propri figli o della loro patria, sottraggono i beni altrui o devastano paesi e città, lo stato di necessità serve loro per giustificare la loro violenza e ingiustizia; ma qualora alcuno compia le medesime riprovevoli azioni solo per arricchirsi o per procurarsi cose non indispensabili, viene giudicato brutale e malvagio. A coloro che si accontentano di utilizzare le piante, di fare uso del fuoco e dell’acqua, di tosare le Pecore, di mungere il latte delle Mucche, di allevare i Buoi per servirsi del loro lavoro, Dio perdonerà; ma uccidere gli animali solo per soddisfare la gola o altri vizi e vanità umane, è crudele e ingiusto e non può avere alcuna giustificazione(1).

I discepoli di Zenone (gli Stoici) pretendono che la giustizia si fondi sulla somiglianza -ovvero sulla medesima natura- esistente in una certa categoria di esseri. Ma non è forse assurdo il fatto di sentirsi in obbligo di osservare le leggi della giustizia con uomini sprovvisti di spirito e di ragione, che seguono solo i più bassi impulsi e che sopravanzano per crudeltà, per collera e per avidità gli animali ritenuti più feroci, che non dimostrano pietà né per i loro figli, né per i loro genitori; ed al contrario si creda di non avere alcun dovere morale verso il bue che lavora per noi, per il cane insieme al quale si vive, per gli animali che nutrono l’uomo con il loro latte e lo vestono con la loro lana?

Com’è noto Crisippo (2) (3) insegna che gli dei avrebbero creato gli uomini per sé e gli animali e tutti gli altri esseri che si trovano sulla terra a esclusivo beneficio dell’uomo (i Cavalli per servire da mezzo di trasporto e ausilio per la guerra; il Cane per la guardia e la caccia, ecc.): allora, seguendo questa teoria, il Maiale sarebbe stato creato soltanto per essere ammazzato e farne salsicce, e Dio gli avrebbe dato l’anima solo per conservarne fresche le carni? E così nel riempire la terra di vari animali Dio non avrebbe avuto altra intenzione che quella di procurare all’uomo dei cibi squisiti e rendergli la vita ricca di gioie e piaceri? A cotali argomenti potremmo ribattere con le obiezioni già espresse da Carneade (4): se davvero Dio ha posto nel modo gli animali affinché l’uomo se ne serva, quale sarebbe l’utilità delle Mosche, delle Zanzare, dei Pipistrelli (5), degli Scorpioni, delle Vipere?

Se si dovesse stabilire della giustizia di azioni e comportamenti sulla base dal giovamento che se ne trae, dovremmo concludere che anche noi siamo stati fatti per fungere da pasto ad animali assai pericolosi quali  Coccodrilli, Dragoni e mostri marini: infatti quando riescono a catturare un uomo, essi lo divorano; ma non per questo  possiamo dire che siano più malvagi di noi: sono la necessità e la fame che li inducono a compiere questa ingiustizia; mentre noi al contrario il più delle volte uccidiamo gli animali solo per divertimento -basti pensare a quanto succede nei giochi dell’anfiteatro e durante la caccia-, di modo che ne risulta rafforzata la tendenza dell’essere umano alla crudeltà (6).

Solo i Pitagorici, con la loro bontà e comprensione verso gli animali, hanno operato per rendere gli uomini meno disumani e più compassionevoli, poiché chi abborre dal versare il sangue degli altri esseri viventi sarà alieno pure dal versare quello umano.

La natura ha donato agli animali l’stinto affinché cercassero quanto è loro profittevole ed evitassero quanto è dannoso; ma la facoltà di poter scegliere le cose giovevoli  ed allontanarsi da quelle nocive non può aver luogo che in un essere dotato di ragione (con la quale può cogliere i legami di causa-effetto tra i diversi fenomeni), di giudizio (con il quale può operare utili confronti) e di memoria (con la quale può far tesoro delle esperienze passate, positive e negative). La stessa presenza degli organi di senso, oltre che dell’istinto e dell’immaginazione conferma l’esistenza del giudizio e della ragione nell’animale, dal momento che se delle facoltà istintive e sensoriali non potessero servirsi per compiere delle scelte utili per indirizzare la propria vita, sarebbe preferibile esserne privi piuttosto che dover affrontare o subire pene, disgrazie e dolori senza avere alcuna possibilità di sottrarsene o rimediarvi.

Già Stratone (7) sosteneva che la percezione e la sensibilità di cui gli animali sono dotati presuppongono anche l’intelligenza. Non di rado succede che mentre scorriamo con lo sguardo un testo scritto o ascoltiamo qualcuno che parla non prestiamo attenzione a quanto stiamo leggendo o sentendo, poiché il nostro spirito è altrove: questo avviene a cagione del fatto che gli occhi e le orecchie sono insensibili, qualora la mente non sia coinvolta, perché in realtà è quest’ultima che vede e ode, mentre gli organi fisici ne sono solo strumento, ma in sé sono ciechi e sordi.

Ma ammettiamo che la sensibilità (“αìσθησις”) possa esistere senza intelletto (“νoυς”): quando avrà esaurito la sua funzione nella circostanza in cui viene usata, -che consiste nel distinguere l’utile del dannoso-, come potrà fare tesoro per l’avvenire delle esperienze trascorse? Chi insegnerà a temere quanto arreca dolore e a ricercare le cose giovevoli? Il modo di procurarsi queste ultime, di prepararsi un ricovero sicuro, di sfuggire alle insidie? Tutte queste azioni comportano l’avere una finalità, dell’iniziativa, dei preparativi, della memoria; e a sua volta tutto questo presuppone un ragionamento. E d’altro canto il fatto che anche coloro che non la pensano come noi [quanto agli animali] servendosi di punizioni verso i loro Cani e i loro Cavalli, quando essi commettano qualche errore, cerchino di suscitare in loro una sorta di pentimento e di ammaestrarli in tal modo, dimostra gli animali siano suscettibili di apprendimento e quindi di ragione.

Coloro che sono così irragionevoli da sostenere che gli animali non provino emozioni, non soffrano, non si rallegrino, non possiedano né memoria, né capacità di giudizio, che “sembra” soltanto che l’Ape ricordi, che la Rondine faccia delle provviste, che il Leone si adiri, che il Cervo abbia paura… in pratica che “sembrano” soltanto vedere e sentire, è come se affermassero che non vivono ma sembrano vivere, il che è del tutto contrario all’evidenza!

Anche i filosofi stoici insegnano che l’amore per i propri figli è il principio della civile convivenza e il fondamento della giustizia; eppure, benché non possano negare che gli animali nutrano un vivissimo affetto per la loro prole, pretendono che non abbiamo il dovere di osservare i principi della giustizia nel nostro comportamento verso di essi.

Coloro che affermano gli esseri che non possiedono la pienezza della ragione non essere suscettibili di miglioramento è come se dicessero che la Tartaruga non ha ricevuto dalla natura la sua lentezza (cioè che le qualità innate possono essere perfezionate) e non pongono attenzione a un punto importante: se la ragione (il “logos”) in quanto tale viene dalla natura, la perfetta ragione viene dall’esercizio della stessa e dall’istruzione. Tutti gli esseri animati partecipano in maggiore o minor misura al “logos” e pur tuttavia anche tra gli umani non sarebbe possibile citare qualcuno che abbia raggiunto il culmine della ragione e la perfezione nella saggezza. Non vi è forse una notevole differenza nel modo di volare? Gli Sparvieri non volano come le Cicale, né le Aquile come le Pernici: similmente ogni essere usa la ragione in modo diverso ed ha differenti possibilità di svilupparla e di perfezionarla.

Non possiamo certo negare che gli animali siano capaci di vivere in società, anche complesse, che essi dimostrino ardimento, determinazione ed astuzia quando si tratta di procurarsi quanto è necessario per vivere e difendere la propria famiglia; che non vi siano tra loro degli ingiusti, dei pusillanimi, degli stupidi, e per questo vi sono state anche dispute per stabilire se siano più intelligenti gli animali terrestri o quelli acquatici [qui Porfirio allude al dialogo di Plutarco noto come “De sollertia animalium”, ma il cui titolo esatto è “Quali degli animali siano più intelligenti, se i terrestri o gli acquatici”, che abbiamo già citato nella nostra trattazione].

Mosaico romano che raffigura un contadino che offre il cibo a un asinello.

Teofrasto esprime mirabilmente la sostanziale affinità esistente tra umani e animali con la seguente argomentazione: consideriamo consanguinei ed uniti secondo la natura coloro che sono nati dai medesimi genitori o discendono dagli stessi avi; trattiamo i nostri concittadini come alleati poiché abitiamo sul medesimo suolo e viviamo in comunità con essi; e si riscontra altresì un senso di comunione tra tutti i membri del genere umano o perché discendano da comuni antenati o perché condividano i medesimi costumi. Orbene, gli uguali elementi costitutivi si trovano in tutti gli animali, non solo quelli del corpo, ma soprattutto quelli dell’anima che assomigliano alle nostre nei desideri, nei pensieri e nei sentimenti, sebbene le loro anime abbiano diversi gradi di evoluzione. E dunque la sola differenza tra loro e noi consiste nel modo di vita, così che dobbiamo guardare ad essi come congeneri ed amici: come dice Euripide, essi si nutrono degli stessi alimenti e delle nostre stesse passioni, il sangue che scorre nelle loro vene è rosso come il nostro, poiché abbiamo un unico Creatore che si manifesta nel Cielo e nella Terra.

E dunque se gli animali sono dotati di un’anima simile alla nostra, non è forse giusto accusare di empietà coloro che osano divorare un loro simile? Ci si potrà difendere dagli animali che arrecano danni, così come si condannano a morte gli uomini delinquenti, ma come si può spegnere l’esistenza di animali dolci e mansueti, che condividono talora la nostra vita e le nostre occupazioni? E’ come se mangiassimo delle persone oneste!

Coloro che osano sostenere che il concetto di giustizia non debba estendersi anche gli altri esseri animati non soltanto dimostrano di non avere alcuna idea di che cosa davvero essa sia, ma non operano che in vista del piacere che è il nemico capitale della giustizia; poiché quando il piacere e l’interesse egoistico divengono il fine del nostro operare non può esservi alcuna forma di giustizia.

Chi si astenga dallo sfruttare e ad arrecare danno a qualsiasi essere animato, proverà somma ripugnanza a commettere dei torti verso i suoi simili e sarà ben disposto verso gli animali in generale; ma coloro che restringono il dovere di usare principi di giustizia all’uomo solo, saranno sempre vicini a compiere atti iniqui. Coloro che non vogliono nutrirsi di carni di animali non hanno parte nell’ingiustizia insita in questo modo di sfamarsi: Dio non ci ha creato perché fossimo obbligati a fare torto ad altri per mantenerci in vita!

L’essenza (“ουσìα”) della giustizia consiste nel fatto che la parte irrazionale (“αλoγoν”) sia guidata da quella razionale (“λoγικòν”), di modo che chi possiede minori facoltà razionali obbedisca a chi ne ha di più, conducendo dunque l’uomo a non fare torto a chicchessia. Allora, quando le passioni saranno contenute, i desideri limitati, le emozioni temperate, la ragione potrà pendere il sopravvento e attraverso di essa l’uomo assomiglierà all’Essere Perfettissimo. Chi è perfetto non commette atti ingiusti di alcun genere, ma si serve della sia potenza per conservare e aiutare gli altri esseri, per fare loro del bene, e così dovremmo fare pure noi se vogliamo percorrere le vie della giustizia

Essendo creature mortali siamo privi di molte cose che ci sono necessarie per sopravvivere. Ma ci dovremo limitare all’uso di quelle che non arrecano sofferenza ad alcuno, come consumare i frutti delle piante o utilizzare la lana delle pecore. Sono stati desideri irragionevoli [non guidati dal principio spirituale], considerati senza fondamento delle autentiche esigenze e necessità irrinunciabili, che hanno introdotto l’ingiustizia nel mondo. Ma se il fine dell’uomo è quello di divenire simile a Dio, ed anzi giungere ad immedesimarsi in Dio medesimo, non potrà che astenersi dal far male a qualsivoglia essere vivente.

Chi è dominato dalle passioni si accontenta, -anzi forse è per lui già difficile-, di non usare violenza o far danno solo ai propri figli e al proprio coniuge [nel testo “moglie”], disprezza gli altri doveri e non sente pietà poiché la sua parte irrazionale lo spinge verso le cose transeunti, i beni effimeri de mondo ed egli non prova attrazione che per essi. Colui invece che segue la ragione non farà danno né ai propri concittadini, né agli stranieri, né a chicchessia e non si limiterà a rispettare gli umani, ma anche gli animali e pure le piante, nei limiti del possibile (8). E se purtroppo non potremo portare la nostra ricerca di perfezione fino al punto di non arrecare alcun male o danno a nessun essere vivente, dovremo deplorare l’imperfezione e debolezza della nostra natura, in cui si scontrano discordanti pulsioni e che non è autosufficiente avendo dei bisogni che possono essere soddisfatti soltanto attraverso cose esterne. E d’altro canto tanto più sono le esigenze tanto più si è poveri, mentre è veramente ricco solo chi non ha bisogno di nulla. Chi commette ingiustizie chi provoca danni al prossimo, possieda pure tutte le ricchezze dell’universo, costui in realtà è misero poiché iniquo, empio e soggetto a tutte le manchevolezze cui la caduta dell’anima nella materia ha dato occasione, dacchè ella fu privata della visione del vero Bene.

Saremo sempre immersi nella miseria dell’esistenza, fino a che continueremo a concentrare i nostri sforzi verso i caduchi beni materiali, trascurando quanto abbiano di più nobile e non volgeremo la nostra ricerca verso la sola cosa che possa davvero appagare il nostro anelito all’infinito. Se riuscissimo a moderare e sublimare le passioni e i desideri che sono la sorgente di tutti i mali che funestano la nostra esistenza vedremmo rinascere l’età dell’oro. La purezza, il disinteresse, la giustizia tornerebbero ad abitare tra gli uomini, che sarebbero nutriti con generosità, e senza dover essere coltivata, dalla terra con i suoi frutti.

Con questo augurio forse utopico si conclude il III libro del trattato “Sull’astinenza dalle carni degli animali”, del quale nella nostra ricerca abbiamo proposto un breve riassunto -e una parafrasi di alcuni passi-. Infatti come abbiamo visto sopra il filosofo, -nel cap. XXVII-, si mostra consapevole del fatto che la condizione umana, come quella di qualunque animale, comporta la necessità inevitabile di dipendere per la propria sopravvivenza dall’utilizzo di altri esseri viventi, e che dunque anche il saggio, colui che vive secondo la ragione, e secondo lo spirito, potrà ridurre al massimo le proprie esigenze vitali, in modo da arrecare il minor danno possibile agli altri esseri viventi, ma non eliminarle completamente, cosa che sarebbe possibile soltanto una volta acquisita una condizione divina. E’ evidente inoltre che se l’uomo può senza dubbio adottare un regime dietetico vegetariano (il quale peraltro comporta pur sempre la soppressione di piante, che sono anch’esse creature viventi, a meno di non limitarsi ai frutti), il medesimo non potranno fare gli animali carnivori, la cui natura non consente loro di cibarsi esclusivamente di alimenti vegetali. Inoltre non di rado nel mondo della natura accade che la sopravvivenza di animali diversi sia in conflitto, così che la salvezza di uno abbia come conseguenza un danno o addirittura la morte dell’altro: come ci si dovrà comportare in tali circostanze? quale sarà il principio etico che dovrà guidare la scelta e l’operato dell’uomo?

Il criterio che si dovrà necessariamente adottare sarà senza dubbio quello di dover stabilire una “scala di valore”, per quanto la sua applicazione pratica possa talora essere opinabile, e sempre dolorosa, tra gli esseri viventi e le loro esigenze, alla quale ispirarsi per attribuire ad essi una maggiore o minore importanza. Per fare un esempio pratico, se un cane è infestato da parassiti interni o esterni -come zecche o tenie- che ne minano gravemente la salute o addirittura ne potrebbero provocare la morte, credo nessuno avrebbe esitazione ad ammettere che dovrà essere l’interesse del cane a prevalere, -poiché la sua sensibilità e la sua intelligenza nonché la sua anima sono senza alcun dubbio superiori-, nonostante anche i parassiti che lo infestano siano esseri viventi.

E’ però altrettanto evidente che non è ammissibile in alcun modo che gli esseri viventi siano sottoposti ad uno spietato sfruttamento, o addirittura torturati e/o uccisi con l’unica finalità di soddisfare le malsane inclinazioni umane verso cose assolutamente prive di utilità o deplorevoli -come la vanità o la gola- e innumeri sono gli esempi che si possono citare al riguardo (dagli allevamenti intensivi per scopi alimentari o per togliere loro la preziosa pelliccia, dalla caccia alla “sperimentazione animale”, agli spettacoli nei circhi, ecc.).

Non possiamo fare inoltre a meno di osservare come le argomentazioni addotte da Porfirio anticipino nella sostanza e nei toni le tesi animaliste formulate molti secoli dopo da filosofi come J. Bentham,  A. Schopenauer, P. Martinetti e altri: negli animali, oltre la capacità di provare emozioni e sentimenti, gioie e sofferenze, si manifesta il “logos”, in una forma propria di ciascuna specie e comune a tutti gli individui compresi nella specie stessa e che talvolta è superiore a quella della maggioranza degli umani; ed una intelligenza specifica dei singoli individui dalle caratteristiche personali, la quale tuttavia a differenza di quanto avviene nell’uomo è sempre guidata dal “logos”. Ma forse la caratteristica principale per cui questo trattato del grande filosofo neoplatonico riveste notevolissima importanza nell’ambito della storia del pensiero, è che esso palpita di un sincero e  profondo sentimento di fratellanza universale che unisce uomini, animali e piante, che tutti sono figli “del Cielo e della Terra” ed espressione di Dio.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

Note

1) dunque Porfirio non condanna in assoluto l’avvalersi dell’opera degli animali, se contenuto entro limiti ragionevoli ed accettabili (come le prestazioni che si chiedono a un operaio), ma lo sfruttamento spietato che procura loro sofferenza, soprattutto quando sia finalizzato a soddisfare la gola ed altri vizi umani.

2) Crisippo di Soli (280-205 a. C. circa), terzo scolarca della Stoà (dopo Zenone, il fondatore, e Cleante); sappiamo che diede particolare impulso alla logica stoica, ma le sue numerose opere sono andate tutte perdute e se ne trovano solo citazioni e frammenti negli scritti di autori posteriori.

3) i cristiani, e la chiesa cattolica in particolare, quanto al valore e alla funzione degli altri esseri viventi fecero proprio il punto di vista degli stoici e negarono quindi in massima parte qualunque dovere morale nei confronti degli animali. Nell’A.T., pur nelle oscillazioni e contraddizioni che si rilevano su questo come su altri temi nei vari libri, -e talora anche tra parti di un medesimo libro-, la linea prevalente, pressoché univoca nel Pentateuco, è quella che se tutti gli esseri, anche quelli viventi, sono stati creati e beneficio dell’uomo -e dunque non hanno una intrinseca dignità e tanto meno diritti soggettivi-, quest’ultimo ha il dovere di usare con saggezza dei beni che gli sono stati consegnati da Dio e mantenere l’equilibrio del creato. Questo principio è affermato in generale nei primi capitoli della Genesi (specie nei capp. 1,2 e 9) e poi illustrato ed esemplificato in numerose norme morali e giuridiche nella legge mosaica enunciata nei libri del Levitico, Numeri e Deuteronomio (si veda in particolare Lev. XVII, XIX e XXII; Deut., XII, 13-28; XIV, 3-21). In altre parti della Bibbia (Salmi, Profeti) viene talora espressa una visione del rapporto tra uomo e animale che forse è più poetico che dottrinale e si colloca in una prospettiva escatologica: il “mondo nuovo” vedrà anche la restaurazione dell’armonia del cosmo infranta dal “peccato originale” e torneranno allora l’amicizia e la pacifica convivenza tra tutte le creature (si confronti al riguardo quello che dice lo stesso Porfirio alla fine del III libro del trattato che stiamo testè esaminando sul ritorno dell'”età dell’oro”): famoso esempio di questa universale reintegrazione dello spirito sono alcuni versetti del profeta Isaia (XI, 6-9): “Il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà accanto al capretto/…/La mucca pascolerà con l’orsa e i loro piccoli riposeranno insieme,/ E il leone si nutrirà di erba come il bue/ecc.”. S. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, II parte del II libro, quaestio 64, art. 1 -che tratta dell’omicidio-), riprendendo quanto già aveva scritto S. Agostino (De civitate Dei, I, 20) afferma il comandamento biblico “non uccidere” riferirsi unicamente all’uomo, e non ad altri esseri viventi. Peraltro in altri passi delle sue opere, (ad es. in S.T., I libro, quaestio 96. -in cui affronta il tema del dominio dell’uomo sulla natura-), il celebre teologo disapprova lo sfruttamento indiscriminato e la crudeltà gratuita verso gli animali, non perché attribuisca loro dei diritti morali o la razionalità o tanto meno un’anima immortale (per lui essi hanno solo l’anima sensitiva che congloba pure l’anima vegetativa non destinata ad alcuna forma di sopravvivenza), ma poiché un esercizio ingiustificato di crudeltà verso di essi o un eccesso di sfruttamento abitua l’uomo a comportamenti prevaricatori e lo rende insensibile alle sofferenze degli altri umani. Inoltre secondo l’Aquinate l’istinto naturale potrebbe essere stato inserito negli animali dalla ragione divina (“ex divina ratione eis inditum”), e pertanto nei loro moti interni ed esterni, nelle loro reazioni possono manifestare comportamenti simili a quelli dettati dalla ragione; che tuttavia per lui non sono da considerare una vera forma di ragione, ma una forma di tropismo o una sorta di “riflesso pavloviano” (per rendere in termini moderni quella che è la sostanza del pensiero del sommo maestro della Scolastica).

4) di Carneade di Cirene abbiamo già parlato nella quarta parte della presente trattazione, -pubblicata il 9 dicembre 2016-.

5) in effetti i Pipistrelli, anche adottando una visione antropocentrica, sono oltremodo utili, poiché si nutrono di una grande quantità di insetti nocivi. Quanto alle Vipere il loro veleno e la loro carne erano ampiamente utilizzati nella medicina antica e medioevale, -soprattutto per la preparazione della “teriaca”, sorta di rimedio universale che doveva servire contro un’infinità di malattie e accidenti (si veda in proposito la nota n. 7 alla prima parte della ricerca sui più antichi codici miniati del 29 giugno 2013)-.

6) in questi passi Porfirio esprime la sua avversione e la sua critica all'”antropocentrismo” con argomenti e toni straordinariamente attuali, che sembrano precorrere quelli addotti nel XX secolo dai filosofi “antispecisti” come Tom Regan e Peter Singer.

7) Stratone di Làmpsaco (IV-III sec. a. C.), filosofo e scienziato peripatetico, discepolo di Teofrasto, il quale si rifece in parte alle tesi di Democrito, e attribuiva una parte essenziale alla percezione sensoriale nel processo conoscitivo (per cui si può considerare sotto questo aspetto un precursore dei sensisti del XVIII secolo). Peraltro nelle argomentazioni addotte da uno dei principali esponenti di quest’ultima scuola, Etienne Bonnot de Condillac (1715-1780), nel suo “Trattato sugli Animali”, si notano alcune analogie con quelle di Porfirio -sebbene innestate su un diverso sistema filosofico-, in particolare che tanto l’istinto quanto la ragione siano la forma rispettivamente inferiore e superiore della sensibilità, a sua volta derivante dalla percezione sensoriale, o per meglio manifestantesi attraverso le sensazioni. Tuttavia per Condillac, che voleva confutare la tesi cartesiana dell'”animale-macchina”, la ragione in senso stretto è specifica dell’uomo.

8) si confrontino questi passi di Porfirio con Matteo, V, 43-48: “Avete inteso che fu detto: “amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico” [ovvero il dovere di essere solidali con quelli della propria nazione e di combattere o comunque discriminare gli appartenenti ad altre stirpi, -che oltretutto per gli Ebrei erano reietti dal loro dio-]. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano. […] Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli che fate di eccezionale? Non fanno forse altrettanto anche i gentili? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Se Gesù di Nazareth esorta i suoi discepoli ad amare anche i nemici, poiché gli “amici” (cioè i consanguinei, i compatrioti, i correligionari) li amano anche i “pagani”, Porfirio, un “pagano”, va oltre ed invita a rispettare ed amare non solo gli umani di altre stirpi, etnie, religioni, ma anche tutti gli esseri viventi, che sono essi pure nostri fratelli. Ed egli esorta altresì a cercare la perfezione del divino che rende l’uomo simile e compartecipe della divinità con il distacco dai beni terreni e dominando le pulsioni egoistiche che allontanano da Dio. In effetti Porfirio, che fu considerato un “nemico” e un calunniatore dei cristiani, poiché in una sua opera (distrutta dopo che il cristianesimo divenne la religione ufficiale, nonché l’unica ammessa nell’Impero Romano) mise in luce le ambiguità, le assurdità, le incoerenze, le contraddizioni presenti in gran numero nei testi dell’A. e del N. Testamento, e che a suo giudizio svilivano e intorbidavano la pura idea del Divino, mostra di essere assai più vicino e partecipe allo spirito universalistico del cristianesimo di quanto non lo fossero, e non lo siano tuttora, la maggior parte degli esponenti e delle guide delle chiese cristiane.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *