STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILLENNIO CRISTIANO -prima e seconda parte (breve sintesi delle dottrine trinitarie e cristologiche)-

Prima di proseguire nella trattazione sull’anima, credo sia opportuno esporre brevemente le principali concezioni cristologiche formulate nei primi secoli del cristianesimo, precisando che esse in genere non sono di per sé completi sistemi teologici, ma elementi dottrinali adottati e variamente adattati da diverse scuole. Naturalmente sia per il numero, sia per la complessità e talora macchinosità di tali dottrine, ne faremo solo una rapidissima sintesi.

Il “docetismo” (dal greco “dokeo” = sembrare) sostiene che il corpo fisico di Cristo fu solo apparente, non nel senso che fosse una sorta di fantasma o di ologramma, ma che il “Figlio di Dio” o il “Logos” divino che lo “abitava” se ne servisse come di un automa, senza essere intimamente legato alla dimensione corporea e psichica propria degli umani; oppure che il Cristo fosse dotato di un “corpo etereo”, non soggetto alle sensazioni, passioni e sentimenti umani. Questa tesi fu sostenuta dalle principali scuole gnostiche, in primis quelle di Basilide e di Valentino; ma anche da Marcione (talora classificato erroneamente come gnostico, solo per il fatto che contrappose il dio dell’AT, considerato un demiurgo malvagio al Cristo, figlio e rivelatore di un Dio “ignoto” -ma intuito dalla riflessione filosofica ellenica-) e dai suoi seguaci, da Bardesane, e più tardi dai Priscillianisti, dai Pauliciani e da diverse correnti ereticali fino ai tempi moderni (poiché in effetti le scuole teosofiche, -ma anche i “Testimoni di Geova” ed i Mormoni, per i quali il Cristo è una specie di angelo-, in sostanza hanno adottato una concezione docestica); nonché da Mani e dai Manichei, -i quali peraltro non si possono considerare una eresia cristiana, ma una religione a parte, pur avendo fatto propri alcuni elementi del cristianesimo, oltre che dell’ebraismo, dello zoroastrismo e del buddismo (ed in effetti Mani si considerava colui che aveva congiunto in una sintesi superiore le rivelazioni e gli insegnamenti dei grandi maestri spirituali vissuti prima di lui: Zoroastro in Persia e nel mondo iranico; Buddha in oriente e Cristo in occidente) -.

Secondo coloro che adottarono invece la teoria dell'”adozianismo”, Gesù Cristo nacque come semplice uomo, sebbene dotato di inclite virtù, superiori a quelle di ogni altro essere umano vivente o vissuto, ma fu adottato da Dio Padre; questa “adozione” sarebbe avvenuta per la maggior parte dei sostenitori di questa tesi al momento del battesimo nel Giordano, quando il “logos” si posò su di lui in forma di colomba. Tra di essi si annoverano lo gnostico Cerinto vissuto alla fine del I secolo; la setta degli Ebioniti, Teodoto di Bisanzio, detto il Conciatore, e il suo discepolo Teodoto il Cambiavalute (1),nonché Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia dal 260 al 272 (2), che elaborò una dottrina cristologica considerata un’anticipazione dell’arianesimo, dottrina più complessa e che ebbe ben più ampi sviluppi predicata agli inizi del IV sec. da Ario.

“Battesimo di Gesù” mosaico nel battistero degli Ariani di Ravenna.

Simile all’adozianismo è il “monarchianesimo dinamico” (o “dinamista”), cosiddetto perché fautore di un “unico principio” (“monè archè”), ovvero la concezione che in Dio è presente un’unica persona, -così che in pratica viene esclusa la trinità-: di conseguenza il “figlio” non può essersi incarnato e dunque Cristo fu solo uomo; alcuni dei sostenitori di questa dottrina, specie nel secolo III, come il ricordato Paolo di Samosata, la accordarono con la precedente (ossia Cristo uomo “adottato” da Dio).

Un’altra linea del monarchianesimo, detto “patripassianismo”, traeva invece dall’asserzione di un’unica persona divina, -che è nello stesso tempo “padre” come entità eterna e immutabile e “figlio” in quanto redentore terrestre-, la conseguenza opposta che quest’unica e indivisibile persona si fosse incarnata “in toto”, e che dunque anche il Padre si era sacrificato ( “pathos tou patròs”, da cui il termine “patripassiani” con cui i seguaci di tale indirizzo furono designati). Questa interpretazione del monarchianesimo ebbe come principali rappresentanti Noeto e Pràxea, vissuti alla fine del II secolo, contro i quali polemizzarono Ippolito e Tertulliano. A sua volta il patripassianismo può essere considerato una variante del “modalismo”, la tesi secondo la quale Padre, Figlio e Spirito santo non sarebbero che tre nomi a cui corrispondono diversi aspetti e dunque indicherebbero solo “modi” per esprimere le diverse manifestazioni dell’unica realtà divina (3).

Una forma di monarchianesimo estremistico, sconfinante nell’adozianismo e nel docetismo fu quello professato nel III secolo da Berillo di Bostra, il quale sosteneva il Cristo fosse stato solo un involucro umano esteriore in cui lo spirito di Dio era sceso ad “abitare”, e che ebbe un’accesa disputa con Origene.

Con il termine “subordinazionismo” si intende invece in modo generico qualunque posizione cristologica che, fondandosi anche su quanto dichiarato da Cristo stesso nei vangeli, -dove in diverse occasioni proclama la sua obbedienza alla volontà superiore del padre (ad es. Giov. XIV, 28: “Se mi amaste, vi allietereste, poiché vado al Padre, il Padre che è più grande di me”)- e sulle asserzioni paoline (I Cor. XV, 28 “Anche il Figlio stesso sarà sottoposto a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutto”), postuli una relativa inferiorità o una dipendenza del Figlio rispetto al Padre -che pertanto in tale visione, a differenza di quanto sosteneva il modalismo, risultano nettamente distinti-. Si deve osservare che, per quanto con accenti diversi, questa concezione è comune a molti degli apologisti e dei teologi dei primi tre secoli considerati nel complesso ortodossi (Giustino, Atenagora, Origene, Tertulliano, ecc.) -sebbene talora nelle età successive, quando le gerarchie ecclesiastiche vennero vieppiù precisando in che cosa, a loro giudizio, dovesse consistere l'”ortodossia”, alcuni aspetti del loro pensiero siano stati giudicati sospetti-, e fu superata in modo faticoso e con alquante incertezze solo con il primo concilio di Nicea in concomitanza delle polemiche pro e anti-ariane.

Dal IV al VII secolo nascono e si sviluppano poi le più complesse “eresie” cristiane antiche (a parte quelle formulate nei sistemi gnostici), -nonché le più importanti, perché impostesi nell’ambito della chiesa istituzionale-: l’arianesimo, il nestorianesimo e il monofisitismo (o monofisismo). Tutte e tre vertono sul significato (spesso non univoco) e il tipo di rapporto -di parità o di subordinazione- attribuito o attribuibile alle tre “persone” divine (Padre, Figlio, Spirito Santo), sulla loro “natura” e “sostanza” (o “essenza”). Gli stessi termini, il loro uso e significato preciso furono fonte di infinite controversie e non di rado, nonostante la consumata ed elaborata articolazione del pensiero filosofico e teologico greco, non era chiaro che cosa si dovesse intendere per “persona” (“prosopon”), “natura” (“physis”), “sostanza” (“hypostasis” o “ousìa”).

A proposito di “hypostasis” notiamo che letteralmente corrisponde al latino “substantia” (che sta sotto, che è quindi a fondamento di qualcosa); tale termine, come abbiamo già avuto modo di vedere, da Plotino e Porfirio fu impiegato per designare le prime tre potenze -Hen (Uno), Nous (Intelletto, ma si potrebbe anche dire Spirito), Psichè (Anima)-, che costituiscono il fondamento del reale, sono anzi l’unica vera realtà, della quale il mondo sensibile e fenomenico è solo un’ombra e un riflesso. Nella teologia cristiana tale termine entrò in uso più tardi che “ousìa” e “prosopon”:  dalla fine del IV secolo (nel primo concilio di Costantinopoli del 381) si ricorse ad esso per indicare le “persone” divine, che in modo implicito o esplicito, vengono così ad essere assimilate ai principi della filosofia neoplatonica; mentre d’altro canto l’impiego di “ousìa” fonde il senso più largo di “sostanza”, con quello più ristretto di “essenza” (ed infatti sebbene letteralmente “ousìa” corrisponda al latino “essentia”, nel ME venne poi reso con “substantia”). Anche l’ambiguità di “physis” = natura che da termine indicante la caratteristica dominante di enti sensibili viene applicato alla divinità contribuì a complicare le questioni relative al problema trinitario e cristologico. A questa complessa terminologia si aggiunga la sottile, -ma fondamentale- distinzione tra “creare” (“poièo”) e “generare” (“ghennao”), riferita a Cristo, che prima non era stata posta in modo chiaro, e fu a sua volta oggetto di contrastanti interpretazioni: l’idea del creare o fare implica una diversità di natura, oltre che di valore, tra il creatore e la creatura e quindi fu giudicata inappropriata per una persona divina ritenuta “pari” al “padre”; ma d’altra parte anche il verbo “generare”, pur evidenziando una consustanzialità di natura, implica una inferiorità gerarchica (e dunque la persona o ipostasi del Figlio sarebbe subordinata a quella del Padre)(4).

L’arianesimo prese il nome da Ario, presbitero alessandrino, ma in effetti la sua formulazione teologica fu opera soprattutto di Eusebio di Nicomedia (280-341), -da non confondere con Eusebio di Cesarea, il celebre autore della “Historia ecclesiastica”, suo contemporaneo, il quale invero inclinò anch’egli all’arianesimo-. In sintesi la dottrina ariana sosteneva che Dio è un’unità eterna e ineffabile; pertanto il Figlio di Dio, in quanto generato, è anch’egli una creatura, e così, come ogni creatura creata, è venuto all’essere dal non essere. Secondo Ario, il quale fondava la sua tesi su un passo di S. Paolo (Lett. ai Colossesi, I, 15) ove Cristo è definito “primogenito di tutta la creazione” (“prototokos pases ktìseos”), vi fu un tempo in cui il Figlio non esistette. Servendosi di lui il padre crea il mondo: dunque il Gesù evangelico è solo una creatura, sebbene superiore ad ogni altra, e figlio di Dio soltanto per adozione. Questa concezione cristologica in sostanza riprendeva e sviluppava quelle già espresse da Paolo di Samosata e da Luciano di Antiochia.

Com’è noto, la dottrina ariana, i cui seguaci erano chiamati “anomei” (“dissimili” poiché asserivano la disuguaglianza delle nature del padre e del figlio), fu condannata dal primo concilio di Nicea del 325, convocato dall’imperatore Costantino proprio al fine di ristabilire la pace religiosa; ma la polemica tra ariani ed antiariani, momentaneamente sopita, riesplose dopo pochi anni, -anche per la notevole influenza che Eusebio di Nicomedia aveva sull’imperatore, -al quale fu egli ad amministrare il battesimo poco prima della morte di lui- , e contraddistinse tutto il IV secolo, dando luogo a diverse formulazioni intermedie che cercavano di conciliare la teologia ortodossa, -i cui sostenitori furono detti “homoousiani” (per i quali il Figlio aveva la medesima sostanza del Padre (“homos ousìa”)- con quella ariana.

Mosaico bizantino in S. Apollinare a Ravenna con Maria “Theotòkos”.

Tra queste ultime ebbe un certo seguito la dottrina propugnata da Basilio di Ankyra, il quale sosteneva che il Figlio, e dunque Cristo, avrebbe una sostanza o un’essenza “simile a quella del Padre” (“homoiousios” da “homoios” = simile): per tale ragione i suoi seguaci furono denominati “homoiousiani” (o “omeusiani”). Altri ancora affermarono che Cristo è simile al Padre non “secondo la sostanza”, ma “sotto tutti gli aspetti” (“katà panta”); oppure dissero che era “simile” in modo generico senza alcuna altra precisazione. Costoro furono definiti “omeani” e la personalità più significativa che si segnalò tra di essi fu quella di Acacio di Cesarea.

Dopo la definitiva condanna dell’arianesimo ad opera del primo concilio di Costantinopoli (5), una nuova grave controversia teologica scoppiò nel 428 in seguito alle prese di posizione del patriarca di Costantinopoli Nestorio (381-451 circa). Questi, che proveniva dalla scuola teologica di Antiochia, la più importante in quel periodo insieme a quella di Alessandria, proclamò che non si poteva proclamare Maria, madre di Gesù, “Theotòkos”, “madre (genitrice) di Dio”, poiché un Dio infinito ed eterno non può avere una madre terrena, che è ovviamente una creatura finita e mortale; tutt’al più ella poteva essere qualificata con l’appellativo di “Christotòkos”, -“genitrice di Cristo (uomo)”-. Egli infatti, rifacendosi alle teorie di Teodoro di Mopsuestia e portando alle estreme conseguenze la tesi propria della scuola antiochena sulla doppia natura divina e umana, distinse nella figura di Cristo anche due ipostasi, una divina generata da Dio e una umana procreata da Maria.

Nestorio asseriva che nel Cristo incarnato sussistessero, oltre che due nature, due persone separate e distinte, ciascuna delle quali corrispondente a una natura; fra queste due persone viene bensì ad instaurarsi un rapporto di congiunzione (“synàpheia”), un’unione (“hènosis”), tale da esprimere una personalità armonica, ma non una vera “unione ipostatica”, ovvero “due nature in una sola persona” come proclamava la scuola alessandrina-, poiché il teologo siriaco (ma di origine persiana) negava la cosiddetta “comunicazione degli idiomi” (“idìoma” in greco particolarità, proprietà), ovvero che le qualità divine del Cristo possano essere riferite anche alla sua umanità, e viceversa.

Dopo un’aspra controversia e alterne vicende, durante le quali il patriarca di Alessandria Cirillo (6) si dimostrò il più implacabile avversario di Nestorio, nel 433 si giunse sotto l’egida dell’imperatore Teodosio II ad una formula di compromesso, nella quale la determinazione delle “persone” di Cristo rimase nel vago. L’ex-patriarca di Costantinopoli fu tuttavia esiliato nella “Grande Oasi” di El-Kharga, nella Tebaide (ossia nell’Alto Egitto) nel 435 dove morì dopo aver subito dure umiliazioni.

Stele nestoriana in Asia centrale.

I suoi seguaci però non vennero meno alla loro fede ed emigrarono in gran parte nella Mesopotamia e nella Persia, allora sotto il dominio dei Sassanidi, dove fondarono comunità fiorenti fino all’avvento dell’Islam. Da quelle regioni poi molti missionari si spinsero fino in Asia centrale e nella Cina occidentale dove pure ottennero un notevole seguito facendo concorrenza sia ai Manichei sia ai Buddisti. Con l’avvento di Tamerlano (Timur Lank) (1336-1405), e del vasto, -per quanto rivelatosi poi effimero- impero da lui costituito tra l’Asia centrale, l’India e la Persia, che li perseguitò con durezza (specie nel 1380 dopo la conquista dell’Iraq), il nestorianesimo declinò in modo drammatico. Tuttavia esiste ancora una comunità nestoriana, nota come “Chiesa Assira (o Caldea) d’Oriente” presente soprattutto nell’Iraq settentrionale (7).

In opposizione alla dottrina di Nestorio, alcuni anni dopo la morte del suo fondatore, nacque una nuova corrente teologica, il monofisismo, caratterizzata -come dice il nome stesso (“monè physis”)- dal sostenere Cristo avesse una sola natura, frutto della fusione di quella divina e di quella umana, esistenti in precedenza rispettivamente nel Figlio di Dio e in Cristo, delle quali la prima aveva inglobato e assorbito in modo indissolubile la seconda. Tale dottrina fu formulata e difesa dall’archimandrita Eutiche -nome che corrisponde all’italiano “Bonaventura”- (378-454), il quale peraltro aveva sviluppato e accentuato la cristologia di Cirillo e della scuola alessandrina; egli negava che la natura di Cristo fosse consustanziale a quella umana e dunque che la redenzione si fosse realizzata tramite il corpo terreno di Cristo: in pratica mentre per Nestorio in Cristo si trovavano due nature e due persone imperfettamente congiunte, per Eutiche e i suoi seguaci Cristo aveva una sola natura, quella divina che dopo l’incarnazione aveva totalmente assorbito in sé quella umana (quest’ultima si era annullata “come una goccia d’acqua nel mare”) , e una sola persona. La dottrina monofisita aveva avuto un’anticipazione nella teologia di Apollinare di Laodicea il Giovane (310-390 circa), il quale in polemica con l’arianesimo per esaltare la divinità di Cristo asseriva che il Figlio di Dio avrebbe assunto il corpo umano e l’anima vegetativa e sensitiva, ma non quella intellettiva (il “nous”), che in lui sarebbe stata sostituita dal Logos divino.

Grazie al sostegno e alla protezione di cui Eutiche godeva da parte dell’imperatore Teodosio II e di Diòscoro, patriarca di Alessandria, la dottrina monofisita ebbe una effimera consacrazione nel corso del II concilio di Efeso del 449, dove fu proclamata ortodossa. Ma due anni dopo però, in seguito alla morte dell’imperatore nel 450 e all’ascesa al trono come suo successore di Marciano, gli avversari di Eutiche e di Dioscoro riuscirono a far convocare un altro concilio a Calcedonia, città della Bitinia, che smentì quello precedente e nel quale la dottrina della sola natura divina di Cristo fu condannata come eretica, e fu ribadita l’ortodossia delle due nature in una sola persona (8).

SECONDA PARTE

Ma i patriarcati di Alessandria e di Antiochia non accettarono le deliberazioni del concilio di Calcedonia e si proclamarono indipendenti da Costantinopoli, -oltre che da Roma-, dando vita alla Chiesa Copta Monofisita d’Egitto e alla Chiesa Siro-occidentale Antiochena (9) ed iniziando uno scisma che si è protratto fino ai giorni nostri (10). Questa ribellione tuttavia fu causata oltre, e forse più che da motivazioni religiose, da istanze politico-sociali poiché si inseriva e dava voce al malcontento delle popolazioni di quei luoghi per il dominio bizantino, stremate soprattutto dal rapace fiscalismo dei funzionari imperiali, malcontento che nel VII secolo avrebbe favorito la conquista araba e l’affermarsi dell’Islam (11) (12).

Inutile fu il tentativo di riportare la pace religiosa nell’Impero operato dall’imperatore Zenone (475-491), con l’emanazione nel 482 del cosiddetto “Henotikon” -“(editto) unificatore”-, un documento che, pur prendendo le distanze sia dagli insegnamenti di Nestorio sia da quelli di Eutiche, evitava deliberatamente di specificare e definire la natura (o le nature) di Cristo. Il papa di Roma Felice III (483-492,), non volle riconoscere come valido tale documento, ostinandosi nella sua intransigenza ed aprendo così un primo scisma tra Roma e l’Oriente, che durò fino al 519, allorché l’imperatore Giustino I (518-527) abrogò l'”Henotikon” e perseguitò ferocemente i monofisiti (13).

Tuttavia la dottrina monofisita continuò a riscuotere notevole seguito in Oriente, per cui il successore di Giustino, Giustiniano (527-565), sia per l’influenza su di lui esercitata dalla consorte Teodora, fervente monofisita, sia per ricomporre le discordie religiose che indebolivano la compattezza dell’Impero, impegnato a combattere Goti e Vandali in Europa e in Africa e i Persiani Sassanidi in Asia, tentò di promuovere una riconciliazione con i monofisiti. Ma in seguito, per ottenere il sostegno del papa, che rimaneva inflessibile verso tale dottrina, e delle popolazioni italiche nella guerra che l’esercito bizantino stava conducendo in Italia contro i Goti, desistette da ogni tentativo di compromesso ed iniziò una nuova persecuzione contro gli anti-calcedoniani. Conseguenza della nuova politica ecclesiastica di Giustiniano fu, -in ossequio ai desiderata di papa Agapito I-, la deposizione del patriarca di Costantinopoli Antimo (che fu sostituito dal calcedoniano Mena), e la convocazione nel 536 di un sinodo in cui furono condannati gli scritti di Antimo e di Severo di Antiochia (465-538), il maggior rappresentante della teologia monofisita moderata (il “miafisismo” o “monoergetismo”).

Quest’ultimo, patriarca di Antiochia dal 512 al 536, quando fu deposto (non senza aver in precedenza subito due volte l’esilio a causa delle sue idee), sosteneva che le due nature, umana e divina, del Cristo in forza dell'”unione ipostatica” (due natura in una sola persona) sarebbero non unite in modo tale da confondersi in una sola, -come nella dottrina di Eutiche-, ma intimamente congiunte, per cui risulta appropriato riferendosi all’incarnazione del Verbo parlare di un’unica natura -in sostanza egli aveva una posizione che non era lontanissima da quella “ortodossa”, ma rifiutava i deliberati del concilio di Calcedonia, ritenuti troppo filonestoriani-. Egli polemizzò contro Giuliano di Alicarnasso, il suo discepolo Gaiano di Alessandria ed i loro seguaci, detti “Aftartodoceti” (o “Aftartodocetisti”, o “Fantasiasti”, o “Incorruttìcoli”), -da “aphtharton” = “incorruttibile” e “dokèo” = sembro-, per i quali il corpo di Cristo era incorruttibile fin dalla nascita, -e non solo dopo la resurrezione-, e dunque non soggetto alle necessità, alle sensazioni e a tutte le limitazioni inerenti la natura umana corporea (di conseguenza riproponevano una forma di docetismo): egli aveva bensì assunto la natura umana, ma quella incorruttibile e luminosa propria di Adamo ed Eva prima del peccato originale, esente da ogni turbamento; egli tuttavia si era volontariamente reso partecipe delle fatiche e delle sofferenze per amore dell’uomo. A questa dottrina inclinò negli ultimi anni di vita l’imperatore Giustiniano.

Ma l’imperatrice Teodora, che, come abbiamo detto, era seguace del monofisismo, svolse per parte sua un’opera sotterranea in favore dei suoi correligionari, ostacolando l’esecuzione dei provvedimenti decisi dal marito e proteggendo i prelati monofisiti e monoergetisti; ella inoltre promise all'”apocrisario” (il nunzio del papa) Vigilio, il quale era riuscito a conquistarsi la sua fiducia, che avrebbe favorito la sua elezione a pontefice romano se questi avesse riabilitato il monofisismo e rimesso in discussione i deliberati del concilio di Calcedonia del 451. In quel tempo divampava il Italia la guerra tra Goti e Bizantini; il valoroso generale Belisario era riuscito a conquistare Roma, ma ben presto il re goto Vitige cercò di riprendere la città cingendola d’assedio. In tale circostanza papa Silverio, da poco succeduto ad Agapito I, fu accusato da Antonina, moglie di Belisario, di aver stretto un accordo segreto con Vitige far entrare fraudolentamente in Roma l’esercito dei Goti; pertanto egli fu arrestato da Belisario ed esiliato a Pàtara, in Licia, mentre al suo posto veniva eletto Vigilio. In seguito però si accertò l’innocenza di SIlverio, ma questo non valse a farlo reintegrare nella carica, a causa dell’ostilità di Belisario e di Antonina, che lo fecero relegare nell’isola di Ponza, ove morì poco dopo.

Ma, contrariamente alle speranze di Teodora, neppure Vigilio, una volta divenuto papa, si pronunciò in favore della dottrina monofisita, per cui anch’egli, nonostante il suo comportamento a dir poco scorretto, dovette subire prigionia e umiliazioni, -come vedremo nella prossima parte della nostra ricerca-.

Una reviviscenza del monofisismo può ritenersi il “monoteletismo”, promosso dal patriarca di Costantinopoli Sergio, il quale fu indotto a formulare questa dottrina nel tentativo di riconciliare ortodossi e monofisiti. La sua tesi, che fu condivisa anche da Ciro, patriarca di Alessandria, reputava doversi attribuire al Cristo una sola volontà (“thèlesis” o “thèlema”), e una sola “intenzione” (“enèrgheia” -da cui “monoenergismo”, sinonimo di monoteletismo), quella divina; in effetti i “monoteliti” osservavano che se Cristo avesse avuto una volontà umana, non sarebbe stato immune dalle passioni e inclinazioni peccaminose ad essa inevitabilmente congiunte, e dunque avrebbe potuto essere anch’egli peccatore, almeno in modo potenziale.

Questa presa di posizione fu di fatto approvata dal vescovo di Roma, -ovvero il papa-, Onorio I (625-638) in due lettere di risposta al patriarca Sergio che gli aveva esposto la sua tesi. Il monoteletismo fu ufficialmente adottato quale dottrina ortodossa dell’Impero bizantino con l'”Ekthesis” (“Esposizione”), editto promulgato dall’imperatore Eraclio I (610-641) nel 638. Il papa Severino, succeduto a Onorio I proprio in quell’anno, si rifiutò di approvare il decreto dell’imperatore e ne scaturì un conflitto, durante il quale le truppe bizantine nel 640 occuparono Roma, costringendo il pontefice a sottoscrivere l'”Ekthesis”. In seguito papa Giovanni IV (640-642), -eletto dopo il breve pontificato di Severino-, si espresse nei confronti della teologia monotelita definendola un’eresia, e smentendo di fatto il suo predecessore Onorio, che egli peraltro assolse dalla presunta “colpa”, sostenendo che vi era stata da parte di lui una errata interpretazione e valutazione delle sottili formule teologiche bizantine (14).

Dopo un periodo di relativa pace, dovuto anche al fatto che l’imperatore Costante II Eraclio era occupato soprattutto a contenere la travolgente espansione degli Arabi, il conflitto teologico (ma con forti valenze politiche) si riaccese sotto il pontificato di Martino I, assurto al trono di Pietro nel 649 dopo Teodoro, successore di Giovanni IV. Questi in un sinodo tenuto nella basilica del Laterano riaffermò la dottrina della doppia natura di Cristo, suscitando così l’ostilità di Costante II, il quale, nel tentativo di porre fine alle controversie teologiche, emise un editto, il “Typos” (Figura), con cui proibiva espressamente di continuare nelle dispute sula volontà e la natura di Cristo. Ma anche questo documento, per quanto moderato, fu condannato dal papa.

Colombe che si abbeverano in un mosaico nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.

Per piegare l’ostinata resistenza di Martino I, l’imperatore nel 653 comandò all’esarca di Ravenna, Teodoro Callìopa, di recarsi a Roma e di arrestare il pontefice, sebbene questi si trovasse in precarie condizioni di salute, e di condurlo a Costantinopoli; qui egli fu sottoposto a un umiliante processo e condannato ad essere relegato a Cherson in Crimea, dove morì pochi mesi dopo il suo arrivo.

La controversia si protrasse ancora per alcuni anni, durante i quali la posizione di Costante II si ammorbidì alquanto, -tenendo anche conto del fatto che i patriarcati di Antiochia, di Alessandria e di Gerusalemme, che sostenevano con vigore il monoteletismo, erano caduti sotto il dominio arabo-islamico-; fino a che tale dottrina non fu definitivamente condannata nel corso del III concilio di Costantinopoli del 680, convocato dall’imperatore Costantino IV Pogonato (“barbuto”)(668-685)(15).

In questo guazzabuglio di teorie trinitarie e cristologiche si ebbero così coloro che attribuivano al Padre e al Figlio uguale natura, ma diversa sostanza, o viceversa; altri che assegnavano al Figlio natura solo divina o solo umana, o ambedue; ma pure in questo caso per alcuni le due nature erano congiunte e per così dire assimilate, mentre secondo diverse elaborazioni teologiche rimanevano distinte o solo giustapposte.

Da questa complicata situazione e dalle innumerevoli sottigliezze escogitate per tentare di definire in modo chiaro e soddisfacente una materia così sfuggente,-e che spesso erano elaborazioni più a livello lessicale che concettuale-, scaturì una confusione davvero sorprendente, in cui, accanto alla linea poi considerata ortodossa, si affermarono le tre correnti che abbiamo sopra ricordato, -oltre alle loro ulteriori articolazioni, a soluzioni intermedie e ad altre teorie che ebbero minor seguito ed importanza- (16).

Ma, pur nella varietà delle posizioni, si possono tuttavia distinguere due linee principali: quella che fa del Cristo solo un uomo, per quanto eccezionale e superiore per virtù, ptenza e sapienza a tutti gli altri esseri umani, che opera in nome di Dio, -quasi un “eroe” nel senso classico-, o che in qualche modo assume secondariamente in sè una natura divina (adozianismo, arianesimo, nestorianesimo), -idea invero anche più simile al “messia” ebraico; e quella invece rappresentata dalle teorie per cui il “figlio di Dio” pur venuto sulla Terra in forma umana, non ha assunto la natura o la “sostanza” di “vero” uomo, per cui in pratica rimane “solo” Dio pur avendo assunto veste corporea; e che comunque “natura” e/o “persona” umana e “natura” e/o “persona” divina risultano giustapposte, ma non fuse tra di esse (docetismo, modalismo, monofisismo, ecc.). In parole più semplici: o Gesù è solo un uomo, sebbene superiore; oppure è solo Dio, il quale ha rivestito in apparenza o comunque in modo estrinseco e transitorio sembianze umane.

La basilica di S. Sofia a Costantinopoli edificata al tempo di Giustiniano, -tra il 532e il 537-, su progetto degli architetti Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto.

E’ ovvio che rimane l’enorme questione di che cosa debba intendersi per “natura umana”, nel quale non ci addentriamo perché entreremmo in una tematica complessa e oltremodo dibattuta senza che si possa giungere a conclusioni se non certe, almeno plausibili. Talora è stata perfino esclusa l’esistenza di una “natura umana” generica o specifica, poiché la libertà morale sottrarrebbe la condotta umana al dominio e al condizionamento incoercibile a cui sono sottoposti gli altri animali, e dunque se si ammette ad esempio che l’avidità o la lussuria fanno parte della natura umana, o anche solo dell’indole individuale, questo porterebbe alla riduzione o al venir meno della responsabilità morale (poiché il soggetto non potrebbe opporsi ad esse). Rimane però il fatto che l’assunzione di una “natura umana” (o di una “volontà umana” come abbiamo visto a proposito del monoteletismo) dovrebbe comportare anche la peccabilità almeno potenziale, se non attuale -tanto più che nella dottrina ortodossa la natura umana è definita “corrotta” dal peccato originale, il che comporta la conseguente incapacità di operare il bene in maniera disinteressata-. Questa ipotesi però nella dottrina ortodossa, che pure si fonda sull’unità di “natura divina” e “natura umana”, è sempre stata esclusa, e questa è una delle principali aporie che derivano dall’attribuire una natura umana ad una persona divina, ovvero ad un ente eterno ed assoluto.

E similmente appare piuttosto incoerente anche la condizione riservata a Maria, madre di Gesù, la quale sarebbe preservata per speciale privilegio e senza alcun suo merito, dal peccato originale; dal che dovremmo dedurre che non solo non abbia commesso alcun peccato attuale, ma neppure abbia mai avvertito la minima inclinazione peccaminosa, il più lieve pensiero egoistico, il più fievole fremito d’impazienza. E così pure, com’è ovvio, il suo divino figlio il quale però come abbiamo visto nell’articolo precedente sull’escatologia nel NT, a dispetto del suo essere immune al peccato, si mostrava alquanto incline all’ira. Ma in realtà comunque sembra assai difficile se non impossibile scindere la natura umana da quelle che sono le sue manifestazioni più caratteristiche le quali acquistano il carattere di “peccato” o per eccesso di tendenze in sé non malvage (per “eccesso di vigore”, come avrebbe detto Dante), o perchè derivano dallo scegliere una via sbagliata per realizzare sé stessi -cosa che di per sé è fine dell’uomo-; ma forse alla luce di un’analisi più attenta e approfondita, entrambi i tipi di peccato (nonchè quello “per poco di vigore”, per rimanere alla classificazione dantesca, che riprende quella tomistica) sono la conseguenza e l’effetto dell’ignoranza e dell’incoscienza dell’uomo. In altre parole, sembra ben difficile distinguere emozioni sentimenti desideri inclinazioni da quello che per la teologia morale è “peccato”; nonché stabilire qual è il limite oltre il quale divengono “peccaminosi” e fino a che punto può essere considerato peccato la semplice tendenza e il desiderio (o pensiero), oltre che l’atto. E d’altra parte è altrettanto evidente che la genitrice del Dio incarnato, in cui siano congiunte natura divina e umana, di necessità non può che essere partecipe anch’ella in qualche modo di una natura almeno in parte divina (“Theotokos”).

Come si noterà in effetti le teorie sovraesposte mostrano la difficoltà di conciliare una natura divina e una umana nel Cristo e di giustificare l’idea di Dio -inteso come Principio Assoluto, Essere incondizionato, ecc., e non come “un” dio, un’energia spirituale o animica intermedia, propria delle religioni panteistiche o emanatistiche, ovvero “pagane”- che si congiunge e assume una veste carnale e una “natura umana”, soprattutto per l’aporia di dover concepire un “uomo” che non è soggetto alla peccabilità, ovvero al “peccato originale”, all’incapacità congenita di poter seguire la via dello spirito senza l’aiuto (la “grazia”) di Dio. Insomma può Cristo essere “vero uomo” senza possedere la caratteristica che rende l’essere umano “uomo” e “creatura”, ovvero la fallibilità? Tanto più che pure gli stessi angeli risultano essere almeno potenzialmente fallibili, come dimostra la “caduta” di alcuni di essi.

A questo si aggiunga l’enorme difficoltà di definire l’esatto significato di “natura”, “persona”, “ipostasi”, “sostanza” e la relazione tra di esse, così che i tentativi di stabilire in modo chiaro ed univoco tali definizioni incappano inevitabilmente in numerose aporie (cioè contraddizioni insolubili in cui il pensiero si arena); e risalta altresì l’estrema problematicità, per non dire impossibilità, di concepire e definire in termini filosofico-teologici rigorosi l’idea dell'”incarnazione di Dio”, poiché in effetti un “Dio” (inteso come principio assoluto, radice dell’universo, ecc.) incarnato in una creatura, un “creatore” che si fa “creatura” è un ossimoro, e darne una giustificazione in termini di ragionamento filosofico è come la ricerca della quadratura del cerchio, che non potrà mai portare a risultati soddisfacenti. A meno che a tale espressione (incarnazione di Dio) non si dia un significato meramente simbolico-allegorico: ovvero il principio divino presente nelle creature che diviene consapevole di sé (e dunque in tal senso si può dire che l’uomo che trova la “scintilla divina” in sé stesso, che ne prende coscienza e contatto “diviene Dio” così che “il Verbo si fa carne”).

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) quest’ultimo fu il fondatore di una setta, detta dei Melchidesekiani, dal nome di Melchisedek, re di Salem, citato nella Bibbia, dove benedice Abramo (Genesi, XIV, 18; e poi nel salmo 110; nonché nell’apocrifo “Secondo Libro di Henoch -o Henoch slavo-). Questo personaggio, il cui nome significa “re di giustizia”, mentre la città di cui sarebbe stato sovrano , Salem, significa “pace”, fu considerato da essi, anche richiamandosi a un passo della “lettera agli Ebrei” (VII; 1-3), un’incarnazione del Logos più importante di GC.

2) Paolo di Samosata è noto anche per essere stato il principale consigliere e tesoriere della regina Zenobia di Palmira in Siria, fino a che non fu sostituito dal filosofo Cassio Longino, -rimanendo però influente alla corte della regina-. Quando Zenobia, che governava in nome del figlio minorenne Vaballato, -anche perché istigata dalle pressioni di Cassio Longino, fervente anti-romano-, nel 270 si proclamò indipendente dall’Impero, suscitò la reazione dell’imperatore Aureliano che le mosse guerra e la sconfisse nella battaglia di Emesa. In seguito a tale sconfitta, Paolo di Samosata fu cacciato dalla cattedra episcopale di Antiochia, -dalla quale peraltro era già stato dichiarato decaduto dai suoi fedeli-, ad opera di Aureliano, che restituì la carica a Domno, il quale era stato eletto suo successore. Fu questo il primo caso di intervento dell’autorità imperiale nelle questioni ecclesiastiche (dunque ben prima dell””Editto di Milano” promulgato da Costantino nel 313).

3) in un ulteriore sviluppo dato da Sabellio, da cui derivò poi la corrente da lui detta “sabellianesimo”, gli aspetti diventano quattro poiché Dio è “Verbo” (Logos) come creatore -o emanatore-; “Padre” come legislatore dell’AT; “Figlio” nella sua veste di redentore e “Spirito Santo” in quanto santificatore dell’uomo e del mondo. Tuttavia Sabellio torna poi a distinguere tre aspetti o “modi” in cui Dio si manifesta: come Padre nell’AT; come Figlio in Cristo; come Spirito Santo nella Pentecoste. Per spiegare i tre “modi” di Dio egli ricorreva anche alla similitudine con il Sole, che possiede luce, calore ed influenza astrologica, tre qualità diverse ma non separabili, poiché parte di un’unica e medesima entità.

4) in Aristotele il termine “oυσìα” dovrebbe indicare il “sostrato” (υπoκεìμενoν), che comprende sia la “materia”, sia la “forma”, sia il composto; l'”ousìa” è altresì definita anche come “un principio” (archè) e “una causa” (aitia); non è del tutto chiaro in che cosa differisca dall'”essenza”, -il principio per cui un ente è quello che è- e che talora si trova designato dallo Stagirita con la perifrasi “tò tì en einai”. I requisiti fondamentali della “sostanza” (ousìa) dovrebbero essere: a) non essere predicato di alcun soggetto, ma essere soggetto esso medesimo; b) essere separato dai suoi eventuali predicati, e dunque sussistere in sé e per sé; c) essere qualcosa di determinato e definibile nella sua individualità; d) essere un’unità organica, non un insieme incoerente di parti singole e  separabili; e) essere in atto e non in potenza. Il termine “ousìa” secondo quanto testimonia Seneca il Giovane in “Epistulae morales ad Lucilium”, CVIII, sarebbe stato tradotto in latino con “essentia” da Cicerone in un’opera perduta; Severino Boezio  tradusse “ousìa” con “essentia” nella sua opera “Contra Eutychen” (dove rende “ousiosis” con “subsistentia” e “hypostasis” con “substantia”), mentre nella sua traduzione delle “Categorie” rende il termine con il latino “substantia” e da allora l’equivalenza “ousìa”=”substantia” rimase costante nella cultura e nella filosofia latina, sebbene dal punto di vista linguistico ed etimologico al greco “ousìa” dovrebbe corrispondere il latino “essentia”, e al greco “hypostasis” il latino “substantia”. Semplificando, si potrebbe affermare che l'”essenza” sia propria di un genere, mentre la “sostanza” di un individuo.

5) anche dopo la condanna decretata nell’Impero d’Oriente l’arianesimo fiorì tra le popolazioni germaniche del ramo orientale (Goti, Vandali, Longobardi), che erano stati convertiti al cristianesimi dal vescovo ariano di origine greco-gotica Ulfila (o Vulfila) (311-383),- nome che significa letteralmente “Lupetto” -connesso con “wolf” = lupo-. Questi aveva tradotto la Bibbia in gotico e creato anche l’alfabeto poi denominato “gotico”, modificando i caratteri latini (in modo simile a quanto avrebbero fatto Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi, che modificando le lettere greche -nel valore fonetico che avevano assunto nella pronuncia bizantina- inventarono l’alfabeto da loro detto “cirillico” -o “glagolitico”-). In seguito però anche le popolazioni germaniche passarono più o meno spontaneamente al cattolicesimo. In particolare in Italia i Longobardi cominciarono a convertirsi al cattolicesimo (che allora coincideva con l’ortodossia orientale, poiché non si era ancora consumato lo scisma definitivo tra chiesa ortodossa orientale e chiesa cattolica romana) al tempo della regina Teodolinda (570-627), la quale aveva fatto battezzare il figlio Adaloaldo (602-626; re dal 616 al 625) nella fede romana. Tuttavia ancora per molti anni prevalsero gli ariani (pur essendovi tra i Longobardi anche dei cristiani ortodossi e dei fedeli all’antica religione -germanica, ma con forti influssi sarmatici, e quindi con rilevanti elementi sciamanici, anche perché ai Longobardi discesi in Italia si erano aggregati gruppi di Avari e di Bulgari-), tanto che Adaloaldo fu deposto e assassinato dai nobili ariani proprio per la sua fede ortodossa-. Occorre invero osservare che, pur intrattenendo una fitta relazione epistolare con papa Gregorio I (detto “Magno”), che ebbe su di lei notevole influenza, Teodolinda favorì i prelati che avevano aderito allo scisma dei “Tre Capitoli”, -del quale parleremo nella prossima parte della presente trattazione-, cercando di barcamenarsi tra le varie fazioni del suo regno.

6) costui, -che è venerato come santo dalle chiese ortodossa e cattolica-, è ritenuto il “responsabile morale” dell’eccidio della filosofa Ipazia, barbaramente uccisa da una torma di fanatici cristiani. Egli fu comunque un implacabile persecutore di eretici, ebrei e “pagani”.

7) questo gruppo religioso subì ancora persecuzioni nell’Impero Ottomano, specie durante la prima guerra mondiale, in concomitanza con quelle ben più note di cui furono vittime gli Armeni.

8) in Italia la dottrina monofisita fu confutata dal filosofo Severino Boezio (477-526) nel suo scritto “Contra Eutychen”.

9) alla chiesa siro-occidentale dipendente dal patriarcato monofisita di Antiochia è stato dato anche l’appellativo di “giacobita” dal nome del monaco Giacomo Baradeo (490-578),- in greco Baradaios, in siriaco al-Baradai-, (detto anche “Zànzalos”-), il quale organizzò e consolidò questa chiesa in opposizione a quella ortodossa con l’aiuto dell’imperatrice Teodora, la sposa di Giustiniano. Egli era stato discepolo di Severo di Antiochia; dopo aver percorso la Siria, la Mesopotamia e l’Armenia rivestito di un’umile coperta per cavalli (dal cui nome in siriaco -“barda’than”- egli derivò l’appellativo col quale è noto), poiché avvalorava la sua predicazione con una vita ascetica, dal 541, grazie alla protezione di Teodora, fu vescovo di Edessa, l’antica capitale dell’Osroene.

10) tuttavia in anni recenti la chiesa copta monofisita del patriarcato di Alessandria è tornata in comunione con la chiesa ortodossa, rinunciando al credo monofisita -che peraltro si era alquanto sbiadito nel corso dei secoli-.

11) si tenga presente che a causa di tali accanite dispute teologiche e delle complicate vicende politico-religiose ad esse correlate (in cui non di rado si producevano ulteriori scismi negli scismi) le principali sedi patriarcali d’Oriente, -ad eccezione di Costantinopoli- (Alessandria, Antiochia, Gerusalemme) possono avere anche 6-7 titolari, a cui fanno capo altrettante chiese.

12) i cristiani dipendenti dai patriarcati di Antiochia, di Alessandria e di Gerusalemme che non aderirono alla dottrina monofisita, rimanendo fedeli all’ortodossia calcedoniana in religione e all’imperatore in politica, furono detti (e lo sono tuttora) “melchiti” (da “melech”, “re” in siriaco, titolo che equivaleva a quello greco di “basileus”), ovvero fedeli al “Melech” (il “Basileus”). Questo comportò uno sdoppiamento nelle sedi patriarcali, che erano contese tra un titolare monofisita e uno “melchita” (ortodosso); la situazione era, -ed è ancora-, complicata dal fatto che con le differenze dottrinali si incrocia la diversità dei riti, per cui ne risulta che a tutt’oggi di patriarchi di Antiochia ve n’è uno greco-ortodosso, uno siro-ortodosso (melchita), uno siro-giacobita (monofisita), nonché, a causa di mutamenti successivi alle epoche di cui stiamo trattando, uno siro-cattolico, uno armeno (monofisita -o ufficialmente “miafisita”-) e uno maronita (cattolico).

13) anche la Chiesa d’Armenia, costituitasi quando il re Tiridate III (regnante dal 283 al 324) nel 301 si convertì al cristianesimo per opera di S. Gregorio l’lluminatore è considerata nel novero delle chiese monofisite. Tuttavia essa, pur non avendo accettato i deliberati del concilio di Calcedonia del 451, -secondo i quali nella persona di Cristo convivono perfettamente integrate sia la natura umana sia quella divina-,(anche perché non dipendendo l’Armenia dell’Impero bizantino non era soggetta all’autorità del patriarca di Costantinopoli), sostiene di non riconoscersi nella dottrina di Eutiche ma afferma di rifarsi alle tesi di Cirillo di Alessandria; pertanto, per distinguere la sua teologia da quella del monofisismo, essa viene definita “miafisita” (ovvero che proclama “una” -μια- natura del Cristo, mentre il monofisismo sostiene “una sola” -μoνη’- natura).

14) le incomprensioni e i fraintendimenti in una materia tanto complessa e sottile come quella teologica erano facilitati invero dalla diversità linguistica tra occidente latino e oriente greco (si deve tenere presente peraltro che il siriaco, -forma più recente dell’aramaico occidentale-, in Siria e in Egitto il copto, -evoluzione dell’egiziano faraonico-, erano divenuti prevalenti anche come lingue di cultura). Mentre nell’età classica nella parte occidentale dell’Impero  Romano, latina sotto il profilo linguistico, la lingua e la letteratura greca erano conosciute assai bene, se non alla perfezione, da tutte le persone di cultura (altrettanto non accadeva però nella “pars orientis”, dove gli intellettuali spesso snobbavano il mondo latino), a partire dal V secolo la conoscenza della lingua ellenica in occidente diminuì progressivamente; in effetti nell’Alto Medioevo in Italia, specie nelle aree sotto il dominio o l’influenza bizantina, le poche persone colte, specie gli ecclesiastici, sapevano “un po’ di greco”, ma rari erano coloro che ne avessero una conoscenza approfondita (per fare un parallelo con l’attualità si potrebbe dire che era come ai giorni nostri con l’inglese: molti lo “masticano”, ma pochi lo parlano correntemente). Per tale ragione i testi ufficiali delle deliberazioni dei concili che avvenivano sempre o a Costantinopoli o in città greche dell’Asia Minore (Nicea, Efeso, Calcedonia), dovevano essere tradotti, e a volte ritradotti in latino, specie dopo che Eraclio ebbe reso il greco bizantino lingua ufficiale dell’Impero d’Oriente. In precedenza infatti, pur se la lingua d’uso e di cultura in esso prevalente era quella ellenica (oltre che l’armeno, il siriaco, il caldeo, che però non avevano la medesima importanza del greco), nella pubblica amministrazione  e nell’esercito la lingua ufficiale era rimasta il latino, ma con la riforma di Eraclio anche sul piano linguistico aumentarono le difficoltà di comunicazione tra oriente e occidente e si approfondì il solco tra le due parti dell’Impero (o per meglio dire di quello che ne rimaneva). Poi con il declinare della dominazione bizantina in Italia anche la conoscenza approssimativa dell’antica lingua classica si affievolì e si spense; non si deve pensare tuttavia che tra i secoli XI-XIV nell’Europa occidentale essa fosse del tutto ignorata, ma era una conoscenza “da specialisti” (un po’ come adesso sapere l’arabo o il russo). Fu solo con la rinascita dell’umanesimo nel XV secolo che la conoscenza della lingua e della civiltà greca, -nella forma antica e classica non in quella bizantina-, tornò a far parte del bagaglio essenziale dei letterati.

15) si tenga presente che l’imperatore di Bisanzio era ritenuto scelto direttamente da Dio, aveva il titolo e la funzione di “isapostolos” (pari a un apostolo) e in quanto tale godeva di un’autorità superiore agli stessi patriarchi e poteva quindi convocare e presiedere concili e decidere in materia dogmatica oltre che disciplinare, -per quanto tale autorità gli sia stata talora contestata in modo aperto o implicito-. Questa fu una delle ragioni principali del definitivo scisma della chiesa orientale (dopo molti contrasti e rotture più o meno malamente “ricucite”), poiché il papa di Roma non solo non intendeva ubbidire all’imperatore, ma voleva comandare su di lui e in generale rivestire un potere politico diretto (così come il clero occidentale non voleva sottostare all’autorità civile ma influenzarla e dirigerla). Anche se la separazione si consumò ufficialmente solo nel 1054 al tempo del patriarca Michele Cerulario, e si è mantenuta fino ai nostri giorni, -salvo effimere riconciliazioni avvenute con il II concilio di Lione del 1274 e il concilio di Basilea-Ferrara-Firenze (1431-1439)-, di fatto la rottura irreparabile si era prodotta allorché il papa Leone III nell’800 incoronò imperatore romano Carlo re dei Franchi (Carlo Magno); con tale atto egli proclamava indebitamente la superiorità del suo potere su quello imperiale, e del potere della chiesa su quello laico, e si assicurava definitivamente il governo dello “stato della chiesa”. Infatti pochi anni prima, nel 754, un altro papa, Stefano II, ricorrendo ad un subdolo inganno (la famosa “Donazione di Costantino”, un falso appositamente predisposto) era riuscito a convincere il re franco Pipino il Breve a donargli in pieno possesso e con potere sovrano i territori che questi era riuscito a sottrarre ai Bizantini (l’Esarcato di Ravenna, il Ducato romano e altre terre dell’Italia centrale) -o più esattamente a fargli promettere la donazione, che fu perfezionata, ma solo in parte da Carlo Magno-: in tal modo, ad onta da quanto proclamato da GC nei vangeli: “Date a Cesare quel che è di Cesare e Dio quel che è di Dio” (Matt., XXII, 22; Marco, XII; 17; Luca, XX, 26; nonché nel “vangelo di Tommaso”, “loghion”100) e “Il mio regno non è di questo mondo” (Giov. XVIII, 36) apparve chiaro che, se il regno di Cristo non è di questo mondo, il regno delle chiesa cattolica è di questo mondo (e solo di questo mondo!). Ma già nei secoli precedenti il papato aveva impedito in tutti i modi che i Bizantini o i Longobardi riunificassero l’Italia, così come nei secoli seguenti con la sua politica continuò ad essere il principale ostacolo all’Unità d’Italia. Sull’argomento si veda la seconda parte de “IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO” del 13 giugno 2015 (e la nota n.13 per quanto riguarda papa Stefano II).

16) come si può facilmente notare da codesta breve esposizione, la riflessione teologica si svolse in grandissima prevalenza nella parte orientale dell’Impero Romano (poi Impero Bizantino), e in particolare nell’Asia Minore, nella Siria e in Egitto, -che erano anche le regioni dove era fiorito il neoplatonismo-, da cui provenivano quasi tutti i protagonisti del dibattito teologico, sia quelli “eretici” sia quelli “ortodossi”, (già la stessa Grecia europea non espresse figure di particolare rilievo), mentre l’occidente latino vi ebbe una parte del tutto secondaria. Inoltre la quasi totalità dei vescovi e prelati che parteciparono ai primi sette concili ecumenici, tutti tenuti nel territorio dell’Impero d’Oriente, -e poi Bizantino-, erano di provenienza orientale (Asia Minore, Armenia, Siria, Egitto), mentre pochissimi erano quelli provenienti dall’occidente (in genere meno di una decina, compresi i rappresentanti papali).

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