L’AFFASCINANTE STORIA DELL’ALBERO DI NATALE -terza parte-

Per quanto le tradizioni folkloriche europee affondino le loro radici nella remota antichità, delle forme con le quali sono attualmente conosciute non si hanno testimonianze anteriori alla fine del ME (secoli XIV-XV), spesso molto più recenti, per cui rimane uno iato di molti secoli tra le prime attestazioni di queste ultime e gli usi e le credenze dai quali presumibilmente derivano (comprendente all’incirca l’Alto Medioevo, ovvero lo spazio temporale tra la fine dell’Impero Romano d’Occidente -per l’Europa mediterranea e occidentale- e la cristianizzazione, -per quella centrale, settentrionale e nord-orientale-; e l’apparizione di alcuni dei primi stati nazionali moderni). Per questa ragione è assai difficile e talora impossibile ricostruire le vicende che hanno portato alla situazione attuale (o per meglio dire a quella di alcuni decenni or sono, poiché il folklore europeo, quando non è mantenuto in vita, in forme peraltro spurie, per esigenze commerciali e consumistiche, o per iniziative di promozione turistica, appartiene ormai in larga parte al passato), tanto più che in esso non di rado si intrecciano e si confondono tradizioni di provenienza diversa.

Come abbiamo visto nella parti precedenti della presente ricerca, l’albero di Natale è senza alcun dubbio una tradizione proveniente dalle aree germanico-baltiche dell’ Europa settentrionale, ma è altrettanto certo che tale tradizione si ricollega a un simbolismo mistico-religioso dell’albero assai più ampio e diffuso in aree ben più vaste, sia nella dimensione spaziale sia in quella temporale.

In linea generale possiamo distinguere tra l’impiego di fronde e ramaglie, talora di alberelli interi, a scopo magico-rituale-augurale-propiziatorio in circostanze particolari o in determinate ricorrenze festive (che a loro volta o solennizzano i passaggi astronomici salienti dell’anno -in generale gli equinozi e i solstizi, ma talora anche le fasi lunari e la levata eliaca di stelle particolarmente luminose, e dunque importanti nel ciclo temporale-stagionale e nel simbolismo religioso ad esso legato-, o rievocano eventi mitologici di carattere salvifico); l’albero o la pianta in cui un personaggio mitico si trasforma, o che comunque riveste un’importante funzione in un mito; e l’immagine dell’albero visto come un elemento e un simbolo fondamentale di una concezione mistico-religiosa. Il terzo aspetto si manifesta in tre tipi principali: l’Albero Cosmico; l’Albero della Vita e l’Albero della Conoscenza. A questi tre si può inoltre aggiungere l’Albero dell’Illuminazione, cioè quello alla cui ombra un personaggio storico-leggendario o mitico ha avuto o ricevuto la visione del destino ultimo di tutte le cose.

L’esempio più conosciuto di “Albero della Vita” è quello citato dalla Genesi (II, 16), come collocato al centro del giardino dell’Eden. Esso nel suo rigoglio vegetativo è incarnazione e simbolo dello sviluppo e dell’espansione della vita, non solo in senso fisico, ma anche metafisico e spirituale, ed anzi tale significato si è vieppiù esteso e approfondito prendendo il sopravvento sul primo (1).

Nell’evoluzione spiritualistica delle principali religioni, -ovvero lo slancio a cercare non più, o non solo, la salvezza su questa terra, ma quella nell’al di là, accogliendo l’aspirazione dell’individuo ad eternarsi e raggiungere, o riconquistare una condizione divina-, l’albero o la pianta divengono il segno dell’immortalità e di una nuova vita redenta dalla schiavitù della carne e proiettata in una dimensione universale.

Nell’Egitto faraonico il Sicomoro (Nehet)(2) e la Palma da dattero (Ima) sono per eccellenza gli alberi portatori dello spirito vitale, dal quale i defunti traggono forza. Un sicomoro è l’albero divino che sta accanto alla porta del Cielo, donde ogni dì il dio Ra esce per illuminare la terra (ovvero in un’altra variante due alberi di sicomoro affiancano la porta). Fin dai tempi antichissimi si adorava un albero di sicomoro a Menfi nei pressi del tempio di Ptah, e in esso o sopra di esso si credeva dimorasse la dea Hathor, la “mucca divina”, molto legata alla procreazione femminile; ella invero era reputata abitare anche in altri alberi, il più delle volte presenti al limite tra la ridotta area fertile e l’aspro deserto. Pertanto Hathor la dea nutrice che allattava con il suo latte o il latte di una gazzella il piccolo Horus era detta la “Signora del Sicomoro”. Ma Hathor era pure la dea che accoglieva i defunti nell’al di là e offriva loro di che nutrirsi.

Nelle raffigurazioni che appaiono sui sarcofagi e sui rotoli di papiro del “Libro dei Morti” un grande albero, che può essere, oltre che il Sicomoro (Ficus sycomorus), la Palma da dattero (Phoenix dactilifera), è associato, oltre che ad Hathor, a Nut , la dea del cielo che personifica la volta celeste, e ad Iside, divinità che si assumono il compito di versare l’acqua vivificante ai trapassati.

L’albero di Sicomoro raffigurato nel sepolcro di Thutmosi III.

Nel capitolo 59 del “Libro dei Morti” troviamo una figura nella quale un defunto sosta accanto a una sorgente, presso la quale si innalza un sicomoro. Sull’albero si vede la dea Nut che gli versa l’acqua da una coppa con la mano sinistra, mentre gli offre del cibo con la destra. Una scritta riporta le parole del supplicante: “Salute a te, o Sicomoro della dea Nut! Concedimi l’acqua e l’aria che dimorano in te…”. Anche sulle pareti dell’ipogeo reale di Thutmosi III a Tebe, il faraone assume il latte da un albero che nell’iscrizione è identificato con la dea Iside. A motivo dello stretto legame del sicomoro con l’immortalità e la rinascita, il suo legno era di solito impiegato per la fabbricazione dei sarcofagi: conservare la mummia nel sarcofago di sicomoro significava per gli Egizi introdurre il defunto nel grembo materno di Hathor e favorire così l’arduo cammino che questi avrebbe dovuto compiere nell’al di là, un viatico per la vita eterna.

Ma anche il Pino ha riveste un parte importante quale albero legato alla vita e alla resurrezione nella storia di Anubi e di Bata, -della quale abbiamo parlato e che abbiamo riassunto nella prima e nella seconda parte di “L’Asino e il Bue nel presepe” (pubblicate rispettivamente il 27-XII-2015 e il 6-I-2016), alla quale rimandiamo per conoscere la narrazione nel suo insieme. Bata, dopo essere stato calunniato dalla cognata e cacciato di casa dal fratello, trova rifugio nella “Valle del Pino”, così detta dal pino che vi sorgeva, ove egli nascose il suo cuore (il che significa da un lato che si legò profondamente a quel luogo, dall’altro che volle difendersi modo dalle insidie e dalle sofferenze che il mondo riserva affidando la sua essenza vitale alla protezione della pianta). Ma quando l’albero fu abbattuto dagli inviati del faraone, vanificando così il suo espediente, anche la sua vita cessò; ma egli la recupera allorché il cuore, ritrovato da suo fratello Bata tra le radici del pino in forma di pigna, viene “rivitalizzato” dall’acqua in cui era stato opportunamente immerso. Abbiamo dunque in questo racconto una tipica storia di morte e resurrezione che si sostanzia e si manifesta attraverso l’immagine dell’albero.

Il Grande Gatto di Eliopoli in una tomba della XX dinastia a Deir el-Medina.

Un’altra pianta a cui era riservato speciale rilievo nella religione egiziano era l’albero ISHED, l’albero della vita eterna e della conoscenza, gelosamente custodito da un grande gatto, -da non confondere con la dea gatta Bastet-, venerato soprattutto ad Heliopolis che era considerato un’incarnazione di Ra, il dio del Sole. Il felino celeste era rappresentato talora con orecchie di lepre, particolare che lo metteva in relazione con Osiride, a cui questo animale era sacro. Egli aveva la missione di combattere il serpente Apophis, l’avversario di Ra. L'”Ished” è citato nel XVII capitolo del “Libro dei Morti” e nella formula 355 dei “Testi dei Sarcofagi” e nel “Libro dei Morti”, ove si afferma che cresceva preso gli dei. Sulle foglie di questa pianta Thot e la dea Seshat (3) scrivevano il nome di ogni faraone e la durata del suo regno, proteggendo così il sovrano e perpetuando la sua potenza. Sebbene sia incerto il genere vegetale di tale pianta, l’identificazione più probabile è ritenuta quella con la “Persea gratissima” (alla quale abbiamo già accennato nella prima -in particolare nella nota 8- e nella seconda parte della trattazione sul Bue e sull’Asino, -rispettivamente del 27 dicembre 2015 e 6 gennaio 2016-), pianta della famiglia delle Lauracee che si credeva avesse la peculiarità di poter essere irrigata e innaffiata solo con l’acqua del Nilo; altra possibile identificazione è con la “Balanites aegyptiaca”, arbusto del deserto appartenente alla famiglia delle Zigofillacee, detto anche “Dattero del deserto”, che produce frutti assai zuccherini.

Legato invece al culto di Osiride era il salice (TCHERET), poiché era l’albero che aveva pietosamente ricoperto il suo corpo dopo che era stato ucciso. Quanto alla Palma da dattero, essa aveva uno stretto legame con la Fenice, che a sua volta era simbolo di immortalità, e ipostasi di Osiride (si veda al riguardo la lunga trattazione che abbiamo dedicato all’argomento, in particolare la quarta parte pubblicata l’1 gennaio 2014). Ricordiamo infine che sulle terrazze del grandioso tempio funerario della regina Hatschepsut nell’attuale località di Deir el-Bahari si trovavano vasti giardini, in cui avevano posto soprattutto alberi della Mirra (Commiphora mirrha), che costituivano il “paradiso di Amon-Ra”; oltre alla mirra, -che, come ben sappiamo, era impiegata nelle procedura di mummificazione, della quale era un ingrediente fondamentale, e pertanto anch’essa aveva un significato di immortalità-, in quei giardini erano presenti alberi di Persea e di Palma.

Nella mitologia babilonese l’Albero della Vita” è chiamato “Kiskanu”, l’albero che cresceva nel giardino situato nei pressi della città di Eridu (4), ovvero l’Eden (termine che significa “oasi”) biblico, le cui radici di lapislazzulo affondano negli abissi cosmici, mentre la chioma tocca il cielo. Sulle sue fronde si trovava il giaciglio, -o nido-, della dea Bahu -che pertanto era concepita in forma di uccello, in tutto o in parte-, la paredra del dio Ningirsu, dio dell’irrigazione e dell’agricoltura, signora della nascita, della flora e della fecondità animale e vegetale. Sul suo tronco si avvinghiava il serpente Nin-Gizzida, detto il “Signore dell’Albero della Vita”, rappresentato spesso con volto umano (peraltro Nin-gizzida appariva talora in forma del tutto umana, ma avvolto dalle spire di un serpente (ragion per cui veniva ad assomigliare, almeno nell’aspetto, al Fanete orfico e all’Aion mitraico-ellenistico, a sua volta corrispondente allo Zurvan mazdaico, il Tempo cosmico infinito), dio della saggezza e della guarigione, sia in senso fisico sia in senso spirituale; mentre la sua ombra copriva il santuario di Tammuz, il dio della rinascita della vegetazione, -e dunque della resurrezione nella posteriore evoluzione mistico-salvifica della religione mesopotamica-, senza l’aiuto del quale nessun mortale viene ammesso alla salvezza, e che era associato a Nin-gizzida. Quest’albero è rappresentato con frequenza nella scultura a rilievo assira, dove è raffigurato quasi sempre affiancato da due geni alati e ornitocefali o da due cherubini inginocchiati i quali talora provvedono ad innaffiarne le radici. Esso appare dunque come una sintesi dei significati sacrali e metafisici dell’albero: Albero della Vita, Albero della Conoscenza (o della Saggezza, o della Verità) e Albero Cosmico.

Una particolare funzione ed importanza aveva il “Kiskanu” nelle cerimonie celebrate durante l'”Akitu”, il capodanno assiro-babilonese. Esso constava di un ciclo festivo comprendente dodici giorni ed aveva inizio il primo dì del mese di “nisan” (cadente alla prima Luna Nuova dopo l’equinozio di primavera); ma in taluni tempi e luoghi la sequenza di cerimonie veniva ripetuta anche nel mese di “tishrit”, dopo l’equinozio d’autunno. durante questo periodo si celebravano diversi riti con i quali si intendeva sia rievocare e far rivivere la creazione del mondo e la vittoria degli dei sul chaos (un particolare a Babilonia la vittoria di Marduk su Tiamat e i suoi figli), sia rideterminare i “destini” degli uomini e soprattutto della società, sia ridestare e rivivificare le forze vitali della natura dopo l’inverno soprattutto a beneficio delle attività agricole (5).

Codesto periodo festivo iniziava sempre con cerimonie di purificazione e di apertura delle porte dei templi (di Marduk a Babilonia, di Adad, Enlil, Shamash, in altri luoghi) e si concludeva con una grande festa collettiva dai caratteri spiccatamente conviviali. Una parte centrale vi aveva la recitazione dell'”Enuma Elish”, il poema sacro degli Assiro-Babilonesi che descriveva l’origine del mondo, la nascita degli dei e la vittoria di questi ultimi, in specie di Marduk nella versione babilonese, sulle forze delle tenebre.

E’ oltremodo significativo e illuminante sul significato della festa un rituale che si aveva luogo nel sesto giorno del ciclo di celebrazioni, durante il quale il re, entrato nel tempio di Bel -il sommo dio mesopotamico, equivalente al Baal dei Semiti occidentali, che a Babilonia fu identificato con il dio nazionale Marduk-, viene spogliato dal sommo sacerdote, -detto “urigallu”- delle insegne della regalità (tiara, scettro, spada) che sono deposte davanti al trono del dio. Indi il sacerdote comincia a percuotere il sovrano con schiaffi e spintoni, gli tira le orecchie e lo fa inginocchiare; il re allora implora dagli dei il perdono dei suoi peccati, proclamando la sua ubbidienza e fedeltà e promettendo di comportarsi nel migliore dei modi in futuro. Dopo l’umiliazione subita, al monarca vengono restituiti i simboli del suo potere ed egli può uscire dal tempio. Da questo singolare rito venivano anche tratti auspici per l’anno entrante, poiché se durante e dopo il trattamento ingiurioso che gli era riservato il re mostrava contrizione, dolore e pianto, il presagio era favorevole; se invece la sua reazione non era molto intensa preannunciava conflitti e sciagure (possiamo osservare che il sovrano avrebbe potuto simulare pianto e sofferenza per stornare la sventura: questo non appare chiaro dalle fonti, forse il suo dolore per essere di buon auspicio doveva essere reale e quindi non aveva effetto se finto).

La processione del nono giorno dell’Akitu in Babilonia.

Nel rito sopra descritto riscontriamo uno degli elementi fondamentali del capodanno in tutte le civiltà: la temporanea sospensione dell’autorità, della norma e della legalità (che si esprimeva anche nei Saturnali romani e nel Carnevale medioevale), dovuta al fatto che con l’inizio di un nuovo ciclo si tornava, sia pure in forma simbolica, ad una condizione primordiale di disordine e di indeterminatezza, sulla quale si doveva poi rifondare l’ordine cosmico, naturale e civile.

Nel nono giorno dell’Akitu aveva luogo una solenne processione che si dirigeva verso la cosiddetta “Casa di Akitu” (Bit Akitu), -chiamata anche dagli Assiri “Bit Ekribi”, “Casa delle preghiere”, un tempio che sorgeva nei dintorni della città in mezzo ad uno splendido giardino ricco di alberi e di piante, che venivano addobbati per l’occasione. Qui si celebrava la vittoria del dio Marduk sulla dragonessa Tiamat, che personificava le acque salate e infeconde dell’oceano e le energie primordiali oscure e incontrollabili e con il cui corpo, diviso a metà, il dio supremo di Babilonia aveva dato vita al Cielo e alla Terra. Il dì seguente veniva imbandito un festoso banchetto sacro in cui tutti gli dei si riunivano intorno a Marduk, nel corso del quale si celebravano anche le mistiche nozze tra Marduk e la sua paredra Sarpanitum, evento foriero di pace e prosperità per tutto il popolo. In questa circostanza veniva innalzato sul gradino più alto della “ziggurat” della Bit Akitu un albero, -o per altri un palo-, detto “Gis-ka-an-na”, che voleva riprodurre un albero che sorgeva dagli abissi dell'”Apsu”, le acque dolci primordiali, e dunque una sorta di “asse del mondo”, che a sua volta viene ad identificarsi nel “Kiskanu”.

Un “Albero della Vita”, ma pure “Albero della Saggezza”, è anche quello, custodito dalle Esperidi e dal serpente Ladone in un favoloso giardino posto ai limiti occidentali del mondo abitato, dimora notturna del Sole, che troviamo nella mitologia greca e i cui frutti furono l’oggetto dell’undicesima fatica di Ercole, del quale abbiamo parlato nella seconda parte di “Le Amazzoni ad Atlantide”(“Espera, favolosa terra dell’estremo occidente”), del 14 ottobre 2013, articolo a cui rimandiamo. Anch’esso, come gli alberi dell’Eden, è senza dubbio derivato dalle antiche narrazioni mesopotamiche; i tre pomi d’oro donati da Afrodite ad Ippomene, con i quali questi riuscì a superare Atalanta nella corsa, ottenendone così la mano, sarebbero stati frutti dell’albero delle Esperidi (6).

In Persia troviamo un altro misterioso e straordinario “Albero della Vita”, il “Gaokerena”, -o Vispobish-, che sorge su un isola posta al centro del grande oceano Vourukasha (e pertanto si può considerare pure un albero cosmico), ovvero, con maggiore verosimiglianza, sopra le vette dell’Elburs, la più alta catena montuosa dell’Iran, ma con le radici immerse nell’oceano sotterraneo-, le cui foglie sono dotate di eccezionali virtù terapeutiche, tali da guarire da qualunque morbo o ferita, mentre dal succo dei suoi frutti si ottiene l'”haoma”, la bevanda sacra che dona l’immortalità (equivalente al “soma” vedico). In lui sono custoditi i semi di tutte le piante del mondo e sulla sua chioma fa il nido l’uccello Simurgh (sul quale ci veda l’articolo che gli abbiamo dedicato il 6 aprile 2014). Quando il maestoso volatile spicca il volo, migliaia di nuovi rami spuntano sul tronco di Gaokerena, mentre quando egli torna a posarsi su di esso, molti altri rami si spezzano; in tal modo però si staccano dall’albero numerosissimi semi che sciamano all’intorno e poi si diffondono in tutto il mondo. Un altro meraviglioso uccello chiamato Cenamrosh (altrimenti detto Camrosh) raccoglie i semi caduti nell’acqua e li consegna a Tishtar (la stella Sirio personificata), la quale li semina sul terreno dove potranno germogliare e far nascere molte nuove piante.

Nella religione mazdaica l’albero ha una parte assai importante anche nell’antropogenesi: dopo aver creato il Bue primordiale, che viene ucciso da Angra Mainyu (Ahrimane in pahlavico), il signore delle tenebre, e dal cui corpo nascono molte specie di animali e di piante utili, Ahura Mazda (Ormazd in pahlavico) da la vita al primo essere umano androgino Gayomars (o Gayomard) -nome che in effetti significa “donna-uomo”-. La creazione di questo nuovo essere suscita lo stupore di Ahrimane, il quale rimane a bocca aperta per 3.000 anni fino a che non si decide a inviare un demone femminile Jahi per ucciderlo; in un primo tempo i tentativi di costei non sortirono effetto, anche perché Ormazd aveva fatto scendere sulla sua creatura un sonno ristoratore e protettore. Ma quando le influenze astrali avverse ebbero il sopravvento (Saturno in esaltazione e Giove in caduta), Gayomars soccombette alle ferite infertegli. Dal suo cadavere rimasto sotto terra per 40 anni nacque un alberello con 15 foglioline (secondo alcune varianti una pianta di Rabarbaro) dal cui gambo si sviluppò la prima coppia umana, Mashya e Mashyana. Essi avrebbero procreato sette coppie di gemelli, dai quali trassero origine i vari popoli che si diffusero sulla terra. In altre versioni però le coppie umane nacquero direttamente dall’albero in numero che va da 10 a 15 o addirittura a 25 (nel “Bundahišn”).

Un’altra importante rappresentazione mitologica che si incarna nel simbolo dell’albero è l'”Albero del Mondo” o “Albero Cosmico”, intorno alle cui radici, tronco e chioma sono disposti i tre piani cosmici: mondo infero o ipoctonio, dimora dei morti e di entità demoniache; mondo terreno, dove abitano gli umani e gli altri esseri viventi dotato di corpo fisico; e mondo celeste o iperuranio, sede degli dei e degli spiriti eletti. Questa funzione cosmica dell’albero si intreccia spesso con quella di datore e simbolo di vita e di saggezza, per cui di fatto il più delle volte è difficile distinguere in modo netto tra i due (o tre) significati metafisici e religiosi attribuiti al più grande degli esseri vegetali.

Codesta rappresentazione la troviamo nelle sue forme più tipiche nelle religioni dei popoli ugro-finnici, baltici e slavi, nonché di quelli altaici (che comprendono le tribù turco-mongole residenti o originarie dell’Asia centrale e della Siberia). Presso queste ultime il mitologema dell'”Axis Mundi”, l'”Asse del Cosmo”, si incarna anche come colonna o montagna, -secondo una schema ricorrente in diverse mitologie-, ma è come “albero” che trova le espressioni più caratteristiche.

L'”Austras Koks”, l'”Albero del Crepuscolo”, versione baltica dell'”Albero del Mondo” in una raffigurazione stilizzata moderna.

D’altro canto il motivo della colonna appare spesso intrecciato con quello dell’albero in una forma stilizzata di palo con quattro braccia trasversali che corrispondono agli otto rami dell’albero mitico che cresce dinnanzi alla dimora di Bai-Ulgan, il dio creatore supremo. Quest’ultimo secondo molte leggende altaiche è un grande abete che esce dall’ombelico della Terra e sopravanzando in altezza tutti gli altri alberi arriva a toccare il Cielo e la dimora del sopracitato dio supremo.

Per i Tartari di Abakan l’albero cosmico è invece una betulla bianca con sette rami che sorge dal mezzo di una montagna di ferro che è al centro della terra, mentre i Mongoli la immaginano svettante su una terrazza quadrata alla sommità di una montagna in forma di piramide tronca. L’albero è comunque suddiviso in diversi piani che attraversano i cieli, -concepiti di solito in numero di sette o nove, ma che possono essere talora molti di più, fino a 33 (7), a cui corrispondo altrettanti ripiani infernali-, e affonda le sue radici nelle profondità infere. I Mongoli chiamano l’albero cosmico Zambu e immaginano che affondi le sue radici nel monte Sumer ed abbia una chioma che svetta assai sopra la cima della stessa montagna cosmica (che è simile anche nel nome al monte Meru della mitologia indu). I suoi frutti sono consumati dagli dei (chiamati da essi “Tangri” o “Tengri” -termine che a volte designa anche un ente superiore impersonale, come l’Alfadur germanico, e che tuttora in turco osmanli e in altre lingue altaiche indica pure il “Dio” delle religioni monoteistiche -), i quali traggono da essi la loro forza e immortalità, contro cui combatterono i demoni Asura (nome che indica la provenienza indiana di questi spiriti), i quali furono però sconfitti.

Secondo i Calmucchi l’albero Zambu si eleva al centro della Terra in un luogo sacro da essi detto Otchìroron presso il fiume Dsomaloiba; esso si carica in autunno di meravigliosi frutti, grandi come ruote di carro, i quali, allorchè cadono nel fiume che scorre sotto l’albero, giungono fino alle fauci del dragone cosmico Lu-Khan, -personaggio di probabile derivazione cinese-. Per gli Ostiachi l’albero cresce in un mare posto in mezzo al cielo, mentre gli Osmanli (la tribù da cui derivarono gli Ottomani) pensavano che l’albero, da loro denominato “Tuba” (8) vivesse nel Cielo: esso è di smisurate dimensioni, possiede milioni di foglie, ciascuna delle quali corrisponde al destino di una creatura. Gli Jacuti credono che sull’ombelico della Terra, da essi concepita come ottagonale, sorga un albero fiorente dotato di otto rami, con la scorza e i nodi del tronco argentati, e i semi risplendenti d’oro, il cui nome è Ulukayin. La sua chioma secerne un liquore divino dal colore ambrato, che bevuto libera dalla fame, dalla stanchezza e dalla sofferenza, e possiede eccezionali virtù guaritrici e rinvigorenti (per cui è simile all'”haoma” persiano). Tra le sue fronde sta appollaiata l’aquila divina Burkut, che è il simbolo e l’incarnazione del dio celeste Kayra, a sua volta figlio -o più esattamente emanazione- dell’entità suprema Gok Tengri; ella è immaginata quale grande volatile bicipite con gli artigli di rame, il quale con l’ala destra può offuscare il Sole e con la sinistra la Luna.

Nella mitologia dei Kazaki l’albero del mondo è chiamato Baiterek, ed è identificato in un Pioppo -ed infatti il suo nome significa infatti “Madre Pioppo”-, che attraversa e collega il trimundio: come per i Tartari e i Mongoli, i tre mondi -superiore, mediano e inferiore-, sono suddivisi in nove (o sette) strati. Le sue radici penetrano in profondità nel terreno e ospitano il mondo sotterraneo, intorno al tronco è disposto il mondo centrale, i rami e le foglie che si slanciano in alto verso le nuvole sono la sede del mondo celeste. Secondo la “saga di Kashagan”, le sue foglie sono auree, -o in altre versioni in parte d’oro e in parte d’argento-, dalle sue fronde pendono frutti di ogni genere; alla sua destra si trova la Luna e alla sua sinistra sorgono il Sole e il pianeta Venere. Tra le fronde dell’albero Baiterek vive l’uccello Samruk, del quale non esiste creature più splendida: solo chi dopo la morte fisica si presenta al suo cospetto può aspirare a penetrare il mistero divino e a lui, messaggero di Dio, è affidato il compito di giudicare chi sia degno di ascendere in Paradiso e chi no. In alcune versioni del mito tra i rami del gigantesco pioppo della conoscenza si trova un uovo d’oro deposto ogni anno dall’uccello sacro: esso contiene tutti i desideri concepiti dagli umani e le risposte sul futuro che li attende, ma solo il saggio può sperare di schiuderlo.

Il Samruk della mitologia kazaka è chiaramente una versione di Simurgh della tradizione persiana, e come quest’ultimo ha un collaboratore, -il già citato Cenamrosh-, che lo affianca e lo aiuta nella sua mansione di perpetuare il cosmo e difenderlo dagli attacchi delle forze oscure, così anche Samruk ha una sorta di gemello ed aiutante, chiamato Kerkes (ovvero Merkut, o Burkut nelle varianti del mito presenti presso altre etnie turco-mongole). Ma una coppia di uccelli intimamente legati all'”Albero del Mondo”, che ne sono gli indispensabili protettori, e che talora sono assimilati al Sole e alla Luna, compaiono nelle credenze di diverse popolazioni uralo-altaiche: abbiamo così Torul (o Toghrul) e Konrul (o Konqrul) nella mitologia magiara; Bugdayik e Kumayik in Azerbaijan; Zuzulo e Oksoko nella Turchia anatolica. Questi uccelli, come il Simurgh persiano, hanno in genere aspetto simile a quello del Pavone, ma con alcune parti (spesso la testa, talora le zampe) del Cane, così che vengono ad essere una sorta di ibridi; l’associazione di caratteri di uccello e di mammifero è forse dovuta al fatto che nella religione zoroastriana e presso le culture che hanno recepito influenze persiane il Pavone -o il Gallo- e il Cane, sono per eccellenza i due animali di Ahura Mazda, il sommo dio del bene. Le loro dimensioni sono enormi come pure la loro forza, tanto che, al pari del Rokh arabo, non hanno difficoltà a ghermire con gli artigli un elefante.

Come nelle analoghe leggende del folklore armeno e kurdo, anche i pulcini di Samruk (o Konqrul) sono salvati dall’intervento di un eroe che impedisce siano divorati da un drago o da un serpente. Per riconoscenza, il volatile sacro offre al salvatore della sua progenie tre delle sue piume, che egli potrà utilizzare, bruciandole, quando voglia richiedere il suo aiuto (si veda anche la seconda parte della ricerca su Simurgh del 7 giugno 2014).

Alcune tribù della popolazione siberiana dei Tungusi sostengono poi che vi siano addirittura tre alberi cosmici: uno celeste, sulle cui innumerevoli foglie vivono le anime destinate ad incarnarsi in futuro, come uccelli nei loro nidi; uno terrestre e uno infernale. Centro e fondamenti del cosmo, l’albero assicura la stabilità e il perpetuarsi dei mondi, ma è pure la fonte della vita e la scaturigine inesauribile delle energie fecondatrici e vivificanti.

Nella cosmologia slava i regni che compongono l’Universo sono disposti intorno ad una maestosa quercia, che costituisce l’Albero del Mondo: sulla sommità si trova il mondo celeste con il Sole, la Luna e gli astri; la zona mediana è quella terrestre degli animali e degli uomini; mentre la regione compresa nelle radici è collocato l’inferno, che è il regno del dio ipoctonio Veles, -o Volos-. Quest’ultimo godeva in origine di un’aura positiva di benefica divinità delle acque e delle foreste, ma poi cominciò ad essere percepito come l’avversario di Perun, il dio del tuono e della folgore (9), assumendo caratteristiche demoniache che lo avvicinano al germanico Loki e all’egizio Seth. Egli tuttavia nelle antiche credenze slave rivestiva anche il compito di “psicopompo”, di guida delle anime nell’al di là, per cui sotto questo aspetto è assimilabile all’Hermes greco.

Come per altri popoli, alla quercia cosmica erano associati alcuni animali: una possente aquila nidifica sulla sua chioma; quattro cervi si nutrono delle ghiande che cadono dai suoi rami (particolare questo che ritroviamo nel frassino Yggdrasil, l’albero cosmico dei Germani); mentre alcuni serpenti si avvolgono con le loro spire alle sue radici. Strettamente legato all’albero cosmico era il dio tricefalo Triglav (nome che significa con tre teste), il quale in effetti più che un dio singolo è una raffigurazione unitaria della triade di divinità che incarnano il trimundio: Perun il Cielo, Svetovid (o Sviatovit) -il quale era sua volta rappresentato con quattro teste per indicare i quattro punti cardinali- la Terra, e Veles gli Inferi.

Ai tre mondi erano abbinati anche tre colori: rispettivamente il bianco per il Cielo, il verde per la Terra e il nero per gli Inferi; ed alcuni animali: gli Uccelli in genere al primo, le Api al secondo, i Serpenti e i Castori al terzo.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1)un esempio di “albero della vita” che ha perso il suo primario aspetto e significato naturalistico per divenire una rappresentazione di uno schema metafisico e mistico è l'”albero sefirotico” della Qabbalah (la mistica ebraica medioevale).

2) il Sicomoro (Ficus sycomorus L.), il cui nome significa “Fico gelso”, è un grande albero il cui tronco può raggiungere l’altezza di 20 m. e oltre, e la circonferenza di 6 m., che cresce nell’Africa tropicale e nord-orientale, nonché in alcune zone del Vicino Oriente. I suoi frutti zuccherini, di colore rosso mattone, assomigliano assai nell’aspetto e nel sapore a quelli del Fico comune (Ficus carica), sebbene più piccoli delle comuni varietà di questi ultimi.

3) dea che appare talvolta come la compagna, talaltra come la sorella o la figlia di Thot, con il quale condivideva il patronato sulla scrittura, l’aritmetica e la scienza in genere; specificamente era la protettrice dell’architettura, tanto che non poteva essere costruito un nuovo tempio senza che fosse compiuto un rito detto “stesura delle corde” con il quale le fondamenta dell’edificio venivano disposte secondo l’orientamento delle costellazioni, e in particolare l’entrata doveva guardare verso l’Orsa Maggiore.

4) la città di Eridu secondo i Sumeri e gli Accadi sarebbe stata la prima città emersa dal caos primordiale; era sede di un grande tempio a gradoni (“ziggurat”) dedicato al dio Enki (Ea per i Babilonesi), detto anche “E-Abzu”, “la Casa delle Acque sotterranee”, poiché in comunicazione con il grande serbatoio di acqua dolce che vivifica la terra e gli esseri viventi, l’Abzu (Apsu in accadico), che è anche una delle divinità cosmiche primordiali insieme alla sua controparte femminile Tiamat, che personifica le acque salate oceaniche. Per la somiglianza del nome e per il legame con le acque dolci sotterranee è stato ipotizzato che il fiume semi-mitico Eridano della tradizione classica sia una trasformazione di Eridu: l’identificazione sarebbe confermata dal fatto che il fiume aveva le sue sorgenti negli Inferi (vedi Eneide, VI, 659) e dunque l’Eridano greco-romano sarebbe derivato dall’Apsu mesopotamico. A tale identificazione non osta che questo fiume sia sempre collocato dagli autori classici a nord della Grecia e non a sud -e variamente identificato-, poiché anche il “Giardino delle Esperidi” che chiaramente è una trasposizione dell’Eden biblico è situato per i Greci all’estremo occidente e non in Mesopotamia.

5) l'”akitu”, per quanto in forma assai diversa da quella antica, è tuttora festeggiato dagli “Assiri” moderni, cioè alle popolazioni viventi in alcune regioni dell’Iraq e della Siria (e in minima parte anche da Turchia, Iran e Libano), o da esse provenienti (poiché nella prima metà del XX secolo vi fu una massiccia emigrazione nei paesi europei provocata dalle persecuzioni dei nazionalisti turchi), che parlano, o parlavano, il siriaco o il caldeo -entrambi evoluzioni moderne dell’antico aramaico-, e avevano mantenuto la religione cristiana, principalmente nella forma giacobita-monofisita e caldea-nestoriana (si vedano in proposito la prima e seconda parte della “Storia minima dell’idea di Dio nel primo millennio cristiano”). Questa celebrazione del capodanno è peraltro molto simile al “Nevruz” o “Nouruz”, dei Curdi, con la quale viene spesso a confondersi.

6) secondo Ovidio invece (Metamorfosi, X, 644-651) gli insoliti frutti provenivano da un albero, pure esso d’oro, che si innalzava in un campo sacro ad Afrodite nell’isola di Cipro e che la dea aveva colto poco prima gli fosse rivolta la supplica di Ippomene. Atalanta, figlia di Iasio e di Climene, abile cacciatrice e velocissima nella corsa (assai somigliante quindi alla Camilla virgiliana), costretta dal padre a prendere marito, pretese di poter accettare come tale solo colui che fosse riuscito a vincerla nella corsa. Ippolito, -chiamato in altre versioni Melanione-, ricorse allora a uno stratagemma: invocò l’aiuto di Afrodite ed ella gli donò tre mele d’oro, che lasciò cadere durante la corsa. Atalanta attratta dagli splendidi frutti si attardò a raccoglierli, e così facendo permise ad Ippomene di vincere la gara.

7) è probabile che la suddivisione dei mondi, il numero e le caratteristiche dei piani cosmici siano derivati o siano stati influenzati dalla cosmologia buddista (in cui, pur tra diverse varianti, sono in genere 31 o 33), poiché il buddismo, quando fu adottato come religione ufficiale e soppiantò le credenze autoctone, esercitò una notevole influenza sulle popolazione e le religioni della Mongolia e della Siberia.

8) il nome attribuito dai Turchi Osmanli all’albero cosmico denota l’influenza dell’Islam, poiché “Tuba” è l’albero del Paradiso citato nel Corano (sura XIII, 19).

9) il Perun slavo così come il Perkunas lituano, il Thor (o Donar) germanico, il Taranis celtico, il Tarhunta ittito (a cui sono connessi il Tarhunz luvio e il Tarkas licio), il Vahagn armeno, il Verethragna iranico, il Vrithrahan vedico (meglio conosciuto come Indra) sono tutte forme assunte da un’unica arcaica figura divina di dio del cielo tempestoso, del tuono e della fulmine, che poi però ebbero una diversa evoluzione nelle diverse religioni. Anche l’Herakles greco deriva da questa figura ancestrale, ma la posteriore evoluzione della religione ellenica lo ridusse a un eroe, seppure il principale degli eroi, mentre la funzione di “folgoratore” è passata a Zeus, dio del Cielo. Secondo la ben nota tripartizione della società delle popolazioni indoeuropee sostenuta da Georges Dumezil (1898-1986), -sacerdoti, guerrieri, agricoltori-artigiani-, a cui corrisponderebbero tre categorie di divinità, codesta figura appartiene alla seconda funzione, ossia quella dei guerrieri. Della prima funzione sono propri gli dei del cielo luminoso, della luce diurna, dell’ordine naturale e sociale; della seconda gli dei del cielo tempestoso, del fuoco e della folgore; della terza quelli della terra, della vegetazione e dell’agricoltura.

5,0 / 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *