KATA’ LEPTON -argomenti sparsi- (il Padiglione d’Oro di Kyoto; il Biancospino, simbolo di castità e di purezza; le pietre sacre nell’Induismo; l’Insetto che vive nel fuoco)

IL PADIGLIONE D’ORO DI KYOTO

Il Padiglione d’Oro o Tempio d’Oro è uno dei monumenti più noti, celebrati e significativi di Kyoto, la città che fu capitale del Giappone dal 794 al 1868. E’ così chiamato perché è rivestito per intero di lamine d’oro zecchino. Esso faceva parte in origine della villa di campagna di un nobile di Kyoto, Saionji Kintsune. Nel 1397 divenne “residenza Kitayama” (“kita” significa nord e “yama” montagna) di Yoshimitsu (1358-1408), terzo “shogun” della dinastia Ashikaga, dinastia che risiedette a Kyoto detenendo di fatto il potere ed esautorando il legittimo imperatore dal 1338 al 1573 (1). Yoshimitsu però tendeva ad occuparsi più dei piaceri della carne che degli affari di stato, e sembra che il piano centrale del padiglione, come era a quel tempo, fosse adibito dallo shogun a luogo “di festini poetici e musicali, e per altro genere di intrattenimenti”.

Dopo la morte di Yoshimitsu, per suo espresso desiderio, la “residenza Kitayama”, con i diversi edifici dei quali constava, fu trasformata in un tempio Zen, conosciuto come il Rakuon-ji; non si sa se il tempio in epoca successiva sia stato lasciato decadere o sia stato trasportato in qualche altro luogo e così rimase in quel luogo soltanto il padiglione d’oro, che sorge nel mezzo di un rigoglioso giardino, accanto a uno stagno (il cui nome è Kyoko-chi) di solito pieno di alghe verdastre, in mezzo alle quali nuotano una miriade di pesci rossi.

Kinkaku3402CB L’attuale tempio non è molto antico: risale infatti al 1955, allorché esso fu riedificato dopo che un giovane novizio, Hayashi Yoken, il 2 luglio 1950 diede fuoco alla costruzione originale (2). L’incendiario, a quanto fu detto allora, era uno strano caso patologico: afflitto sin dall’infanzia da una grave forma di balbuzie, si sentiva brutto e deforme e pertanto si sviluppò in lui una gelosia ossessiva per la bellezza del tempio e insieme l’impulso a distruggerlo, come mezzo attraverso il quale cancellare le proprie menomazioni. Il suo intento era di morire anch’egli tra le fiamme, ma sembra che dopo aver appiccato il fuoco, sia fuggito su una collina poco lontana per uccidersi; non essendo riuscito a consumare il suicidio, si costituì alle autorità. Durante l’interrogatorio disse che odiava sé stesso, ma non gli dispiaceva di aver distrutto il tempio. La sua ossessione nevrotica lo induceva a detestare e a cercare di distruggere o rovinare qualunque cosa bella e per questo fu descritto come uno psicopatico di tipo schizoide (3).

Da questo episodio di cronaca il famoso scrittore giapponese Yukio Mishima (4) trasse una romanzo, intitolato anch’esso “Il padiglione d’Oro”. In esso il novizio, -il quale oltre che il protagonista è il narratore della storia-, afferma che durante la sua infanzia aveva sentito molto parlare del celebre edificio, specialmente dal padre, che gliene aveva magnificato la radiosa bellezza, e che per questo egli l’aveva spesso sognato come una delle più splendide costruzioni del mondo; ma quando finalmente si trovò dinnanzi ad esso, egli non avvertì alcuna particolare emozione. Quel padiglione così decantato non gli era parso che un piccolo edificio scuro a tre piani, coronato alla sommità da quella che, anziché una sfolgorante fenice, gli sembrava un corvo che si fosse posato lì un attimo per riposarsi; non solo l’edificio lo deluse, ma vi avvertì perfino un senso di disarmonia e di pesantezza.

Sir George Sansom (5) dichiara espressamente che “al visitatore non iniziato questo Padiglione d’Oro non significa nulla, poiché non si impone né per mole, né per ricchezza di ornamenti”, aggiungendo che non si può dire che esso rappresenti “un trionfo tecnico ed artistico”. Dice ancora lo studioso che questo tempio è un caratteristico esempio di architettura dell’epoca Muromachi e dunque opera ispirata ad un estetismo deliberato. Il piano superiore del tempio, che consiste di un solo appartamento, usato in origine come oratorio, è in puro stile Zen.

Sansom, per il quale l’edificio esprime la concezione giapponese della bellezza, in riferimento alla perfetta armonia del padiglione d’oro, che non suscita alcuna impressione nell’osservatore disattento, afferma che non si deve commettere l’errore di sottovalutarlo o disprezzarlo a prima vista, ma sforzarsi di andare oltre la superficie delle cose, “per arrivare al gusto esercitato del conoscitore”. Quanto all’architettura del padiglione, nel suo romanzo Mishima la descrive come un “capolavoro di architettura da giardino, in cui lo stile residenziale è stato creato per armonizzarsi con lo stile buddista”. Secondo lo scrittore, la residenza Kitayama consisteva di un certo numero di strutture buddiste, delle quali una custodiva un reliquiario ed in seguito divenne il tempio d’oro.

Ad esso si aggiunse in seguito il “Padiglione d’Argento” (Ginkaku-ji), residenza privata dello shogun Yoshimasa, nipote di Yoshimitsu, che lo fece costruire nel 1489, come luogo di svaghi e diletti.P1050194 Ad imitazione del padiglione d’oro, avrebbe dovuto essere rivestito di foglie d’argento, per costituire una sorta di “pendant” di quello edificato dal nonno. Ma a causa della morte del condottiero, avvenuta l’anno seguente, l’opera rimase incompiuta e non fu completata con la copertura d’argento, che nondimeno continuò a darle il nome con il quale viene tuttora designata. Anch’esso è un esempio di architettura ispirata alla spiritualità buddistica, in particolare quella della scuola Zen, che ebbe in Giappone una enorme influenza non solo nel pensiero e nella letteratura, ma pure sulle arti figurative, così come lo è l’adiacente giardino, costituito essenzialmente di pietre e sabbia, che vorrebbero rappresentare monti e laghi.

Da questo padiglione ha inizio il cosiddetto “sentiero del filosofo”, affiancato da ciliegi ed altri alberi da frutto, che nel periodo della loro fioritura offrono un suggestivo e poetico spettacolo, un viottolo che il professor Kitaro Nishida (6) era solito percorrere assorto nelle sue riflessioni. Il sentiero termina al Nanzen-ji, un  insieme di templi costruito nel 1291 come residenza dell’imperatore Kamayama che ospita il famoso “giardino della tigre”, altro significativo esempio di giardino ispirato alle concezioni del buddismo Zen, così chiamato perché una roccia rappresenterebbe una tigre, mentre altre rocce più piccole sarebbero immagine dei suoi cuccioli, ai quali ella farebbe attraversare un fiume.

Note

1) “Shogun” è il nome di una dignità -di solito tradotta in italiano con “generalissimo”- il cui detentore era di fatto il capo del governo e il dominatore della nazione nipponica, molto più che non l’imperatore. Questa carica, di solito ereditaria entro famiglie che se la trasmettevano in via esclusiva, durò fino al 1868, allorché l’imperatore Mutsuhito riprese nelle sue mani il potere.

2) altri restauri furono eseguiti nel 1987 e nel 2003.

3) il novizio morì poi di tubercolosi nel 1956.

4) nome d’arte di Kimitake Hiraoka (1925-1970). Nelle sue opere esaltò le tradizioni culturali nipponiche, prima in senso solo estetico; poi negli anni 60 divenne un acceso fautore del nazionalismo e si diede la morte con uno spettacolare “hara-kiri”.

5) George Bailey Sansom (1883-1965), diplomatico e insigne studioso della storia e della civiltà giapponese, autore tra l’altro di una monumentale “Storia del Giappone”.

6) Kitaro Nishida filosofo che nelle sue opere cercò di fondere il pensiero del Giappone,  con elementi di quello europeo, soprattutto derivanti dal neoidealismo e dalla filosofia intuizionistica di Henry Bergson, nella quale vedeva un’affinità con la concezione propria dello Zen.

IL BIANCOSPINO, SIMBOLO DI CASTITA’ E DI PUREZZA

Come è noto il Biancospino è un arbusto cespuglioso e spinoso, appartenente alla famiglia delle Rosacee, abbastanza comune nell’Europa centro-meridionale, nelle regioni mediterranee e nell’Asia centro-occidentale. Si riscontra  soprattutto nei campi e nelle aree boschive sino ad un’altezza di 1500 metri di altitudine dove offre spesso rifugio e riparo a molti piccoli animali e ad Uccelli -come Merli, Usignoli e Capinere-, che agli alberi di alto fusto preferiscono le macchie e gli arbusti per sostarvi e costruire il nido dove allevare i pulcini. E’ amato dagli Uccelli anche perché essi si cibano in abbondanza dei suoi frutti (soprattutto Tordi e Cesene che ne sono assai ghiotti) i quali, sebbene poco appetibili per l’uomo, sono ai volatili assai graditi.

biancospino 2Un tempo peraltro il Biancospino era assai più frequente nelle campagne, dove, insieme ad altri arbusti veniva lasciato prosperare nelle folte siepi vegetali che delimitavano i campi e gli appezzamenti di terreno quando veniva praticata un’agricoltura più in sintonia con la natura; ma purtroppo con l’avvento dell’agricoltura meccanizzata e industriale che ha provocato gravi danni alla flora e alla fauna spontanee, le siepi campestri sono sparite quasi del tutto e ora è assai più facile trovare i biancospini nei parchi e giardini di città.

Sembra che il primo a descrivere il Biancospino e le sue virtù terapeutiche sia stato il famoso filosofo e naturalista greco Teofrasto (371-287 a. C.) il quale lo chiamò “Oxyàkanthos”  -cioè “spina aguzza” (“Perì phiton historìas”, I, 9, 3) -altri botanici e medici, come Dioscoride lo citano con il nome di Oxyàkantha”. Nella sua classificazione Linneo (1707-1778), il padre della moderna tassonomia e ideatore della nomenclatura binomia degli esseri viventi, lo ascrisse al genere “Cratàegus”, dal nome di un’altra pianta descritta da Teofrasto il “krataigos” (nome che deriva da “kratos”= forza, vigore, forse per il grande sviluppo delle radici), che egli volle identificare nel biancospino, per cui il nome scientifico dell’arbusto è tuttora “Crataegus oxyacantha”.

I suoi fiori, le cui corolle sono costituite da cinque petali, sono piccoli e bianchi, -talora bianco-rosati-, raccolti in infiorescenze a corimbo che emanano un caratteristico profumo di mandorle amare. I frutti sono tondi od ovali, dal diametro di circa 8-10 mm, di un vivo color rosso corallo, maturano sul finire dell’estate, ma rimangono poi a lungo sui rami anche durante l’autunno e parte dell’inverno, offrendo agli uccelli, come si è detto prima, un cibo abbondante e sostanzioso anche durante i mesi freddi.

Fin dai tempi antichi sono note e apprezzate le virtù terapeutiche del biancospino: i sui fiori, in decotto o tintura madre, per le loro proprietà sedative sono un valido rimedio contro insonnia, ansietà, nervosismo, nonché un tonico per il cuore e la circolazione sanguigna che combatte l’ipertensione, specie se dovuta a fattori ansiogeni. I frutti, astringenti, sono usati per fare gargarismi contro il mal di gola e anticamente si impiegavano anche per ottenere una bevanda inebriante.Biancospino-scelte-per-te

Come per molte altre piante, fin dall’antichità sul Biancospino sono nate e si sono diffuse poetiche leggende che ne esaltano e ne magnificano le virtù nel quadro di un simbolismo mistico nel quale si congiungono elementi mitici e storici.

Una delle prime attestazioni del significato purificatore e apotropaico del biancospino risale alla civiltà degli Ittiti: in una preghiera risalente al 1500 a.C. troviamo le seguenti parole. “Tu sei il cespuglio di biancospino./ in primavera ti vesti di bianco, / al tempo della raccolta dei frutti sei vestito di rosso sangue. / Tu raccogli la lana della pecora che passa sotto di te; / così allontana da questo devoto / che cammina attraverso il cancello [la siepe di biancospino], / ogni male, impurità e collera degli dei”.

I Romani avevano consacrato questa pianta, – che chiamavano “Alba Spina”- alla dea Flora e a Maia. -la quale ultima era una divinità prettamente romana, ma identificata in seguito con l’omonima divinità greca, madre di Hermes (una delle Pleiadi, figlie di Atlante e di Pleione)-, che presiedeva al “Maius mensis”, il mese di maggio, che da lei aveva preso il nome e nel quale godeva di particolare venerazione, insieme al figlio Mercurio, specie alle idi (il 15) nelle quali ricorreva la sua festa, e che era un mese dedicato alla purificazione e alla castità, simboleggiate dal bianco dei fiori.

Il Biancospino era sacro pure alla dea Carda, o Cardea, dea legata ai cardini delle porte e quindi protettrice delle vie d’entrata in generale, che difendeva le case dalle streghe e dalle influenze malefiche, la cui festa principale era celebrata alle calende di giugno. Per questo i Romani consideravano il biancospino atto ad allontanare il malocchio e la malasorte e ne ponevano dei rami fioriti al di sopra delle porte; dei rametti fioriti venivano messi anche nelle culle dei neonati per preservarli dalle influenze malefiche.

Un’altra virtù attribuita al Biancospino è quella di essere invulnerabile ai fulmini, per cui si pensava che riparandosi sotto le sue chiome durante un temporale si sarebbe evitato il pericolo di essere colpiti da uno di essi.

Presso i Celti il Biancospino era chiamato “Huath”, che significa “terribile”: questo nome richiamava lo spavento, il timore reverenziale verso quanto è sconosciuto e possiede una forza magica molto potente. L’albero infatti era ritenuto la dimora segreta di fate, elfi, spiriti dei boschi e altre entità che abitano i mondi incantati, le quali potevano mostrarsi accondiscendenti e benevole verso coloro che le trattano con rispetto, ma ostili e dispettose con quanti non si curino di loro o addirittura osino offenderle. Per questo il Biancospino era assai onorato ed era vietato abbatterlo. Soltanto durante la mattina del sacro giorno di Beltane, una delle otto principali feste celtiche, che si celebrava il 30 aprile, era consentito coglierne alcuni rami e fiori per usi rituali o terapeutici, perché solo in quel momento le fate avrebbero concesso a chi ne avesse bisogno di prenderne la quantità desiderata senza adirarsi. La presenza di un biancospino sulla cima di una collina indicava inoltre che quel luogo era sacro, abitato da creature magiche e che forse poteva esservi un accesso al mondo delle dimensioni sovrasensibili.

Il Biancospino era sacro alla dea Belisama, che godeva profonda venerazione presso Celti, Liguri e Iberi, divinità della luce e del fuoco, ma pure delle acque, specialmente di quelle dotate di virtù terapeutiche e risanatrici, e quindi delle fonti termali, attribuzioni che condivideva con Belenus, divinità identificata da Greci e Romani con Apollo, e talora considerato suo sposo, Secondo quanto narra Tito Livio (Ab urbe condita, V, 34), il nobile gallo Belloveso, figlio di re Ambigato, la cui tribù era stabilita presso la foce del Rodano, si diresse in Italia, verso il 600 a. C. Superate le Alpi giunse nella pianura padana nel territorio degli Insubri, ove la dea Belisama gli indicò il luogo dove fondare la sua nuova città mostrandogli un cespuglio di biancospino e inviandogli una scrofa “semilanuta” che era cioè ricoperta da un lungo pelo solo per metà. La città fondata da Belloveso fu Mediolanum (ovvero Milano), il cui nome sarebbe appunto derivato da “medhelan”, “spazio sacro” (o “bosco sacro”) -simile al “tèmenos” greco e al “templum” romano-, ovvero dall’aspetto della scrofa per metà ricoperta di folto vello (“medio-lanum”)(1)(2). I Romani avevano identificato Belisama con Minerva, e a lei, fu consacrato il tempio principale della città, sul quale in seguito fu costruito il celebre duomo.

Nelle leggende fiorite nei paesi nordici il Biancospino è associato al sonno e alla dimensione onirica, quale mezzo per entrare in contatto con l’al di là e con il mondo degli spiriti della Natura. Si tramanda che Wotan si servì di una spina di questa pianta per far cadere Brunilde in un sonno incantato e che la fata Viviana, l’affascinante “Dama del Lago” che custodiva la spada Excalibur, con una malìa fece addormentare Merlino sotto un albero di Biancospino, prima di rinchiuderlo in una caverna di cristallo dove forse egli ancora si trova prigioniero in attesa di destarsi alla fine dei tempi.

Secondo una leggenda medioevale, fusasi poi con le tradizioni celtiche che diedero vita al ciclo arturiano, dal bastone piantato per terra da Giuseppe d’Arimatea allorché giunse in Britannia dalla Palestina recando seco la coppa del santo Graal nacque un maestoso e bellissimo biancospino che aveva l’insolita virtù di fiorire fino al periodo natalizio. Sembra che tale albero, che doveva aver assunto dimensioni imponenti, sia esistito fino al 1649, allorché fu abbattuto dai Puritani che avevano deposto re Carlo I e instaurato un regime di intransigenza religiosa.

Non possiamo infine non citare i versi iniziali di una delle più commoventi poesie di Giovanni Pascoli “Valentino” (dai “Canti di Castelvecchio” 1903) : “Oh Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini!…”, dove il vestitino nuovo del fanciullo è paragonato alla fioritura dei corimbi dell’umile, ma aggraziato arbusto.

Note

1) Secondo Plinio il Vecchio, Strabone e Polibio la città sarebbe invece stata fondata dagli Insubri, o comunque da essi abitata prima dei Galli. Gli Insubri erano un popolo di incerta classificazione ma probabilmente affine ai Liguri, o una loro tribù.

2) si confronti questa leggenda con quella sulle origini di Roma narrata da Virgilio nell’Eneide: il luogo dove sarebbe sorta la città di Alba Longa, dalla quale venne il futuro fondatore dell’Urbe, fu indicato all’eroe troiano da una bianca scrofa che allattava ben trenta porcellini (Eneide, VIII, 81-85). Questo incontro fatidico era già stato profetizzato da Eleno durante la sosta fatta da Enea a Bùtroto in Epiro (En., III, 388-394) e confermata poi in sogno dal dio Tiberino (En., VIII, 42-45). Secondo una tradizione i trenta porcellini significherebbero i 30 anni che sarebbero trascorsi da quel momento a quello della fondazione di Alba Longa.

LE PIETRE SACRE NELL’INDUISMO

Nel culto induistico i brahamani sono tenuti a prestare una quotidiana adorazione a cinque pietre che per la loro forma e colore rappresentano le principali divinità del pantheon induista: una pietra bianca ovale per Siva; un’ammonite nera detta “salagrama” per Visnu; un frammento minerale metallico (che può essere pirite, ematite, o altro), detto “suvarnarekha” per la dea Durga -la consorte di Siva-; una pietra rossa, (corniola, agata rossa, o altra pietra), detta “suvarnabhadra”, per Ganesa, il dio della saggezza, raffigurato con la testa di elefante; un pezzo di silice o di cristallo di rocca per Surya, il dio del Sole.

Una pietra "salagrama", -ovvero un fossile di Ammonite-.
Una pietra “salagrama”, -ovvero un fossile di Ammonite-.

Particolare importanza riveste la pietra “salagrama” quella connessa a Visnu: essa, come si è detto sopra, è un’ammonite fossilizzata, ovvero la conchiglia di un mollusco appartenente ad una sottoclasse di Cefalopodi, i cui membri vissero fino a circa 65 milioni di anni fa e si estinsero nell’epoca nella quale si estinsero i Dinosauri,  che, rimasta rinchiusa per milioni di anni nei depositi calcarei di antichi mari poi sollevatisi a causa dei sommovimenti tettonici ed orogenetici, si è lentamente pietrificata ed è divenuta un fossile.

Le ammoniti sono piuttosto frequenti nei depositi risalenti all’era Mesozoica (durata all’incirca tra 250 e 65 milioni di anni fa), e se ne trovano parecchie anche nella zona nepalese del bacino del fiume Gandaki. In tali aree gli Indù Visnuiti (ovvero quelli che nutrono una particolare venerazione per questa divinità, la quale incarna per essi l’Essenza Suprema) reputano sacro il villaggio di Salagrami, dal nome del quale è derivato il nome della pietra.

Tale forma di venerazione ricorda quella per i “betili”, le pietre sacre, il cui nome significa “casa di dio”, che erano considerate sede della divinità e delle quali abbiamo già trattato in altri articoli; ma in questo caso le pietre non sono considerate dimora della divinità, ma solo simboli della presenza della stessa.

L’INSETTO CHE VIVE NEL FUOCO

Secondo quanto riferiscono Aristotele (nella “Genealogia degli Animali”, 552, b 9) e Plinio il Vecchio (“Naturalis Historia”, XI, 92) nell’isola di Cipro, all’interno delle fornaci nelle quale si fondeva il rame, viveva un curioso insetto, avente le dimensioni di una grossa mosca, dotato di quattro zampe, anziché di sei come sono notoriamente gli animali appartenenti alla classe degli Insetti. Questo piccolo essere vivente, il cui nome era Pyrigonum per Aristotele, Pyrallis o Pyrotocon per Plinio Il Vecchio, svolazzava e ronzava di continuo in mezzo alle vive fiamme che costituivano il suo elemento vitale (tanto che lo Stagirita lo paragona alla Salamandra, la quale anch’essa, secondo un’errata  credenza, poteva vivere nel fuoco); ma non appena si allontanava da esse, si spegneva.

Anche altri autori di età successive, quali Strabone (60 a. C.-20 d. C. circa), Claudio Eliano ((170-235 circa), Solino (III-IV secolo), parlano dello strano insetto, attribuendogli diversi nomi (Pyragon, Ignìgena, ecc.) che hanno però quasi sempre attinenza con il fuoco (“pyr, -ròs” in greco e “ignis” in latino). La notizia fu accreditata poi anche da scrittori e naturalisti del Medio Evo e del Rinascimento, come l’umanista G. C. Scaligero (1484-1558), e si ritrova ancora nella famosa opera del naturalista inglese Thomas Muffet sugli Insetti, in pieno secolo XVII.

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