I PIU’ ANTICHI CODICI MINIATI (sesta e ultima parte)

Accanto agli scarsi resti della miniatura antica ci è rimasta un’ampia serie di manoscritti più tardi che riproducono disegni e decorazioni dell’età romana: talora sono nuove creazioni, liberamente ispirate alle fonti antiche; ma spesso si tratta di copie vere e proprie che suppliscono in parte alla perdita dei manoscritti originali.

Il maggior numero di queste copie è dovuto all’opera di alcuni scrittori del IX secolo, che copiarono in notevole quantità i testi classici. Derivano da un modello antico le illustrazioni che precedono gli “Agrimensores” nel codex Vaticanus Palatinus Latinus 1564 del IX sec.: esse presentano una forte somiglianza con i soggetti dei quadri che illustrano il “Dioscorides Vindobonensis”: nel primo foglio è rappresentato un medaglione con il busto di un imperatore, sotto il quale appare la figura di un altro imperatore eseguita a semplice disegno; nel foglio n. 2 appare un circolo di agrimensori presieduto da Euclide; nel terzo foglio un altro circolo di agrimensori; mentre nel foglio n.4 sono raffigurati due personaggi seduti, forse l’autore che presenta l’opera all’imperatore. Dipendono pure da un esemplare dell’età classica le illustrazioni di tredici codici che riportano le opere di Terenzio, tra i quali il più importante è il Terenzio Vaticano (Cod. Vat. lat. 3868).

Di particolare interesse, perché rappresentativi di un nuovo stile del quale non sono stati tramandati originali, sono le figure, disegnate a penna, che illustrano il “Cronògrafo del 354” nella copia del XVII secolo conservata nella Biblioteca Vaticana, e che riproducono un archetipo del secolo IV, non si sa se per derivazione diretta o attraverso una copia del sec. IX.

Illustrazione del "Cronografo del 354".
Illustrazione del “Cronografo del 354”.

In un foglio che precede il calendario si trova una tabella ansata che appare in seguito con una certa frequenza negli evangeliari medioevali che riportano la concordanza del Vangeli; ma il “Cronografo” non è il prototipo di tale decorazione e forse alcune di quelle forme, in specie le inquadrature architettoniche, furono usate in Oriente prima che a Roma,

Il “Cronografo del 354” è una raccolta di testi, in prevalenza cronografici, compiuta a Roma nel 354 -e per questo così chiamato- da Furio Dionisio Filòcalo, calligrafo e letterato. Esso consta di un calendario astronomico ampiamente illustrato con raffigurazioni di mesi, pianeti, segni zodiacali, nonché immagini di consoli e città personificate; dell’elenco di consoli fino al 354; di una lista dei “Praefecti Urbi” (prefetti di Roma. -magistrati incaricati di provvedere all’amministrazione della città-) tra il 254 e il 334; di un canone pasquale. -con le indicazioni per stabilire la data annuale della Pasqua-; di un elenco dei martiri venerati a Roma; di una lista dei papi, -il cosiddetto “Catalogo Liberiano”, dal nome di papa Liberio, pontefice dal 352 al 366-; di una duplice redazione dei Fasti consolari romani; di una cronaca universale – la “Chronica Horosii”-, di una cronaca degli imperatori romani fino a Licinio (1); e di una descrizione di Roma esposta seguendo le 14 regioni in cui la città era ripartita.

Rari sono i codici di testi sacri miniati, benché le scene bibliche che già nel IV secolo troviamo raffigurate nelle basiliche di Roma ci inducano a supporre che i libri delle Sacre Scritture fossero ugualmente istoriati. Il più antico esempio di miniature sacre è dato dal frammento dell'”Itala” (la traduzione latina della Bibbia diffusa in Italia prima che fosse sostituita dalla “Vulgata”  di S. Gerolamo) detta “di Quedlinburg”, conservato a Berlino, la cui esecuzione è attribuita al secolo IV: il frammento consta di 5 fogli e parte di un  sesto, rinvenuto racchiuso in un rilegatura del sec. XVII, esiguo resto di un manoscritto di grande formato in scrittura onciale, che doveva essere assai sontuoso.

Miniatura dell'"Itala di Quedlinburg": "sacrificio di Saul".
Miniatura dell'”Itala di Quedlinburg”: “sacrificio di Saul”.

E’ stato calcolato che tutto il testo biblico avrebbe dovuto richiedere più di 2.000 fogli, con centinaia di illustrazioni. Quattro pagine sono occupate per intero da quadri delimitati da cornici rosse con un filetto nero; tre pagine contengono 4 scene ciascuna e l’ultima ne ha due; lo stile e la tecnica sono simili a quelle del Virgilio Vaticano.

Un altro esempio si ha in un evangeliario conservato nel Corpus Christi College a Cambridge,- che forse fu uno dei codici mandati da papa Gregorio Magno a sant’Agostino di Canterbury-, contenente due pagine miniate ciascuna con 12 scene; secondo il Toesca queste figure “risentono delle complesse tradizioni artistiche  che appariscono nelle pitture murali di Roma di quel tempo. In uno dei due fogli le storie della Passione di Cristo sono sovrapposte in molti piani -così come nel presbiterio di S. Maria Antiqua-, infantilmente semplificate, in parte dissimili, in parte conformi all’iconografia orientale, come anche quelle dell’altro foglio, nel quale la figura dell’evangelista, dinnanzi ad uno sfondo prospettico, ripete l’atteggiamento classico proprio dei pensatori, copiata per certo da un più antico esemplare, da cui furono derivati anche la riquadratura architettonica e gli ornamenti dell’arco a tinte vigorose, che rammentano la decorazione classica” (Pietro Toesca, “Storia dell’Arte Italiana”).

Durante i secoli VII e VIII l’attività dei miniatori sembra languire e spegnersi senza lasciare tracce significative: come la scrittura mostra vieppiù segni di decadenza e tradisce l’imbarbarimento elle forme calligrafiche, così pure il codice diventa disadorno ed anzi trascurato nell’aspetto esteriore. Si afferma allora l’uso, destinato a mantenersi a lungo, e a perpetuarsi anche dopo l’invenzione della stampa, di decorare i manoscritti con lettere iniziali più o meno grandi, ornate e colorite. Nel corpo delle lettere e intorno ad esse si intrecciano steli, racemi e fogliami frammisti a testine di animali stilizzati e a mostri fantastici, spesso ispirati alle descrizioni dei “bestiari” medioevali, mentre il fondo e le parti disegnate sono colorate a guazzo con prevalenza di tinte vivaci, come il giallo, il rosso, il verde: opere in effetti più di calligrafi che di miniatori, con evidente influsso di modelli orientali e di scuole straniere, ma che talora ricordano anche esempi stilistici e decorativi propri delle espressioni artistiche celtiche e scitiche.

Ma anche questo nuovo stile ebbe in Italia uno scarso sviluppo, mentre nel medesimo periodo di tempo si trovano codici più accurati in altre aree d’Europa, dove, essendo meno viva la tradizione romana, si formarono più presto scuole artistiche e calligrafiche locali.

APPENDICE: la punteggiatura nell’Antichità e nel Medio Evo

Concludiamo il nostro excursus sugli antichi codici miniati con una a breve trattazione sull’uso dei segni accessori non alfabetici che aiutano ad intendere nel modo più corretto un testo scritto.

La punteggiatura, o interpunzione, è un insieme di segni grafici convenzionali  impiegati per evidenziare le relazioni logiche e sintattiche tra le diversi parti della frase, le pause nella lettura e rendere più chiaro il significato complessivo del testo.

A parte alcuni esempi di scrittura micenea arcaica, nella Grecia antica i testi erano scritti in genere senza interruzioni o spazi tra le parole (si aveva dunque la cosiddetta “scriptio continua”); tuttavia i segni di interpunzione non erano del tutto assenti: in iscrizioni anteriori al V secolo a. C. sono attestati il tratto verticale e i tre punti, usati per separare unità di beve estensione, nonché la linea orizzontale posta all’inizio della riga (“paragraphos”), impiegata per introdurre un nuovo argomento nell’esposizione.

I filosofi e i retori greci non mostrano peraltro di dare molta importanza ai segni interpuntivi e invitano a ricorrere per cogliere le pause al metro per la poesia e al ritmo per la prosa. Cicerone nel suo trattato “De oratore” esprime forti riserve circa l’utilità delle “notae librariorum”, i segni introdotti dai copisti come ausilio alla lettura.

Nella “Techne Grammatikè” di Dionisio Trace (II-I secolo a. C.) -prima opera grammaticale conservata-, sono citati tre segni, dei quali viene indicato l’uso specifico: il punto alto, “telèia stigmè”, per esprimere il pensiero completo; il punto medio, “mese stigmè”, con la funzione di segnalare il respiro; il punto basso, “hypostigmè”, per indicare il pensiero non completo. Sembra peraltro l’impiego di questi segni fosse stato introdotto in precedenza da Aristofane di Bisanzio grammatico vissuto nel III sec. a. Secondo alcuni studiosi, il punto medio non sarebbe stato un segno a tutti gli effetti, poiché non ne fa cenno il trattato sull’interpunzione più completo del mondo antico, il “Perì stigmes tes katholou” (“Sulla punteggiatura in generale”) di Nicanore di Alessandria, vissuto nel II secolo, dove sono esaminati otto segni: punto fermo (“telèia stigmè”), punto basso (“hypotelèia”), primo punto alto (“prote ano stigmè”), secondo punto alto (“deutèra ano stigmè”), terzo punto alto (“trite ano stigmè”), primo punto basso (“hypostigmè enypòcritos”), secondo punto basso (“hypostigmè anypòcritos”), terzo punto basso (“hupodiastolè”).

Quintiliano nei passi dell'”Institutio oratoria” -opera dedicata alla formazione del perfetto oratore-, dedicati alla “pronuntiatio” (Inst. oratoria, libro III, cap.3) si sofferma sui segni di interpunzione come mezzi per sostenere, ravvivare e tenere in sospeso il discorso, quindi tali segni hanno soprattutto la funzione di ricordare a colui che parla in pubblico le intonazioni appropriate e le opportune pause nell’eloquio.

Elio Donato, -ripreso da Diomede-, e Servio, tutti vissuti nel IV secolo, come pure in seguito Cassiodoro, del VI sec., si riferiscono invece a tali notazioni con il termine “positurae” che si ritrova poi anche nelle “Etymologiae”, opera enciclopedica di Isidoro di Siviglia, il testo in latino nel quale le descrizione della punteggiatura è più accurata e precisa. L’autore attribuisce ad essa la funzione di facilitare la lettura e chiarire il senso del testo, suddividendolo in “cola”, “commi” e “periodi” e indicando il luogo ove la voce riposa. Le “positurae” citate nelle opere di questi autori coincidono con le “stigmai” elencate da Dionisio Trace: il punto in basso, chiamato ora “komma” (“pezzetto” in greco) o “subdisctintio”; il punto nel mezzo, chiamato “kolon” (“membro”) o “media distinctio”; il punto in alto, chiamato “periodos” (“circuito” e poi “periodo” in senso grammaticale) o “distinctio”. Questa classificazione viene a coincidere di fatto con quella già proposta nel III sec. a. C. da Aristofane di Bisanzio e poi codificata da Dionisio Trace. Si noti che ciascuno dei segni grafici, ( komma,-pezzetto- breve frustulo; kolon -frazione più cospicua- proposizione più lunga; periodos, periodo) assume per metonimia il nome della parte di testo da esso delimitata (“komma” -pezzetto- breve frustulo; “kolon” -frazione più cospicua- proposizione; “periodos”, periodo) e in pratica vengono a corrispondere all’incirca, nell’uso italiano, a virgola, punto e virgola e punto fermo. Nelle “Etymologiae” compare inoltre un accurato elenco di “figurae accentuum” (“accentus gravis”, “accentus brevis”, “accentus circumflexus”) e di “notae sententiarum” (“asteriscus”, “òbelus”, “paragraphus”, ecc.).

Nell’alto medioevo, in concomitanza dell’introduzione delle scritture minuscole (nelle quali cioè il corpo delle lettere è distribuito non tra due righe, ma tra quattro) appare per la prima volta il segno della “virgula” (piccola verga, bastoncino) sotto forma di apice sovrastante il punto in basso. La virgola viene codificata nel sistema interpuntivo elaborato da alcuni maestri di “ars dictandi” intorno alla fine del XIII secolo, dove i segni sono distinti in “sostanziali” (virgula, comma, colo, periodo) e “accidentali” (punto legittimo, ovvero doppio, semipunto e punto interrogativo). I medesimi segni, con l’aggiunta del punto esclamativo (detto “punto ammirativo” o “punto enfatico”) si ritrova nell'”Ars punctandi”, un tempo attribuita al Petrarca; mentre nella “Doctrina puntandi” di Gasparino Barzizza (1360-1431) è introdotto per la prima volta il segno delle parentesi (“virgula convexa”). Sia il “puntus admirativus” o “puntus exclamativus”, sia la parentesi (chiamata da ora “parenthesis”) compaiono infine nei “Rudimenta grammatices” (1473), opera dell’umanista Niccolò Perotti (1430-1480).

La prima isolata testimonianza di punto interrogativo greco (“erotematikò”), nella forma “;”, risale al secolo IX. Nell’occidente latino, alla metà del solo VIII, la pratica della copiatura dei testi liturgici, nei quali la punteggiatura era importante anche per determinare la corretta intonazione del canto, diede impulso a un nuovo sistema di simboli grafici, tra i quali comparve pure il “puntus interrogativus”. Il suo uso sembra essere iniziato alla corte di Carlo Magno, introdottovi dal famoso letterato ed erudito Alcuino di York, allo scopo di indicare il termine di una “sententia” contenente una domanda; esso era rappresentato da un punto sovrastato da una lineetta ondulata o zigzagata, paragonata a un “fulmine” che colpisca a destra e a sinistra, e si diffuse nei secoli seguenti anche al di fuori dei testi religiosi.

In seguito però apparve e finì per prevalere un’altra forma grafica del punto interrogativo, -che è quella tuttora in uso-: essa deriva dal termine latino QUAESTIO -domanda- che veniva abbreviato in QO, in modo però che le due lettere fossero poste una sopra l’altra (la O sotto la Q): questa disposizione si sarebbe poi evoluta nell’attuale “punto di domanda” per noi abituale, poiché la Q sarebbe diventata una sorta di ricciolo o voluta, e la O un punto. Questa forma fu poi codificata dai grammatici della seconda metà del 500, quali Ludovico Dolce e Iacopo Vittori da Spello.

Dal punto interrogativo sembra sia derivato il punto esclamativo. I due segni erano spesso confusi ancora nell’800: infatti Giuseppe Borghesio osserva che “talvolta si confonde il punto ammirativo con il punto interrogativo. Per questo il Manzoni, in più luoghi, mutò un punto interrogativo in punto ammirativo e viceversa”.

Il “punctus admirativus” o “puntus exclamativus” nasce nell’ambito proprio degli autori delle “artes dictandi” dei secoli XIII e XIV, e poi degli umanisti del 400. Jacopo Alpoleio da Urbisaglia nel suo trattato “De ratione punctandi” lo include tra gli otto segni di interpunzione da lui considerati e ne rivendica l’invenzione. Ma l’impiego pratico del segno si afferma con l’umanista Coluccio Salutati, che fu tra i primi a usarlo nei codici da lui trascritti, in virtù dell’attenzione che egli poneva alla punteggiatura, sia per separare le clausole, sia per rendere chiara la struttura retorica del discorso.

Per tutto il 500 tuttavia il punto esclamativo subisce la concorrenza del punto interrogativo e timidamente affiora alla fine del secolo nei manoscritti e nelle stampe, trovando posto in alcuni trattati. Tra essi si segnala per la sua importanza “L’arte del puntar gli scritti” di Orazio Lombardelli, pubblicato nel 1585, dove un paragrafo è dedicato al “punto affettuoso”, segnato mediante “un punterello con virgoletta sopra, non tòrta, ma distesa”, ovvero in una forma assai simile a quella per noi abituale.

Sebbene, come abbiamo detto più volte, fino al IX secolo l’uso scrittorio costante fosse quello di non separare le singole parole del testo, -la “scriptio continua”-, già in antiche opere greche è presente l’apostrofo (2), in alternanza con la diastole, segno di aspetto uguale all’apostrofo, ma collocato in basso, che presto assunse la forma di virgola. Di solito l’apostrofo era apposto al termine di parole di straniere, o come segno di fine paragrafo o capitolo.

Nei testi dei grammatici latini si trovano indicazioni sull’apostrofo, di norma collocato tra gli accenti. Diomede lo definisce  “circuli pars dextera… ad summam litteram consonantem adsposita cui vocalis subtracta est” (la parte destra di un cerchio… apposta all’ultima lettera consonante a cui è stata sottratta una vocale), adducendo quale esempio questa frase: “Tanton’ me crimine dignum?”(Mi [credi] meritevole di una così grave accusa?) -il “ne” apocopato in “n'” è la particella enclitica che denota la proposizione interrogativa-. Prisciano ne distingue due tipi aventi segni affini: la già citata “diastole” (“disiunctio” in latino), -l’apostrofo vero e proprio-, la “hyphen” (“coniunctio”), segnata da un semicerchio in basso che indicava la pronuncia di seguito di parole contigue.

Nel Medio Evo l’apostrofo sembra sparire; la prima comparsa dell’apostrofo in un testo stampato in Italia si ha nell’edizione del dialogo latino “De Aetna” di Pietro Bembo ad opera di Aldo Manuzio. Ma è soprattutto nell’edizione del “Canzoniere” del Petrarca del 1501, nella quale il complesso dei segni di interpunzione e il loro uso appare rinnovato e già simile a quello moderno, che l’apostrofo viene introdotto copiosamente per indicare elisioni (“Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”), aferesi (“e ‘l van dolore”) e apocopi (“i’ che l’esca amorosa al petto avea”).

Tuttavia la sua diffusione non fu tanto rapida e nel corso del XVI secolo il suo uso continuò ad essere episodico, specie nelle scritture manuali (in Guicciardini troviamo “luno”, “laltro”, “dhavere”, ecc.)..

Solo con Leonardo Salviati e Daniello Bartoli nella seconda metà del 600 vengono adottate le regole odierne sull’uso dell’apostrofo, e in particolare la distinzione tra l’elisione (che richiede l’apostrofo) e il troncamento (che lo rifiuta); ma l’impiego di questo segno grafico rimarrà ancora alquanto oscillante e talora arbitrario fino all’800 inoltrato.

Note

1) dapprima alleato e “collega” di Costantino, venne poi a conflitto con lui e fu sconfitto nella battaglia di Crisòpoli (in Asia Minore) nel 324.

2) apostrofo dal greco “apòstrophos” =rivolto indietro, a sua volta derivato dal verbo “apostrèpho, ein”= volgere indietro o in senso contrario.

 

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