I PIU’ ANTICHI CODICI MINIATI (Dioscoride di Vienna, Iliade Ambrosiana, Virgilio Vaticano, Virgilio Romano)

I Greci e i Romani non conobbero la ricca ornamentazione dei codici, quale si ebbe nel Medio Evo: la bellezza e la preziosità del manoscritto consistevano piuttosto nelle forme accurate e solenni della scrittura (capitale o onciale), e nell’ampiezza ben proporzionata dei margini. All’inizio del testo una o più righe erano scritte in rosso e con lettere più grandi; spesso, -in particolare nei codici dei secoli IV-VI.- la prima lettera di ciascuna pagina (o di ogni colonna, nei testi a più colonne) era di dimensioni maggiori delle seguenti:; alla fine di ciascuna partizione del testo, o degli eventuali libri dei quali esso era costituito, l'”explicit”, così come l'”incipit” della partizione o libro successivo, erano scritti con speciale risalto, con lettere di carattere decorativo, speso preceduti e seguiti da un fregio, o inquadrati in una tabella.

Tuttavia qualche volta gli antichi usarono inserire nei codici delle illustrazioni, che si possono definire dei piccoli quadri, più che vere e proprie miniature, e presentano nello stile i caratteri dell’arte ellenistica tardiva.

Un esempio mirabile di quest’arte, che fioriva presso la corte dell’Impero Romano d’Oriente è il cosiddetto “Dioscoride di Vienna”, conosciuto anche come “Codex Vindobonensis” -da Vindòbona, il nome latino di Vienna-, risalente alla fine del secolo V o agli inizi del VI e appartenuto ad una matrona dal nome romano, Giuliana Anicia, su commissione della quale venne eseguito,- presumibilmente intorno al 512-; questo affascinante trattato, che è forse il più importante codice antico dedicato alla farmacia e alla materia medica, è conservato nella Biblioteca Nazionale di Vienna, ed il più antico esempio di testo con illustrazioni naturalistiche, – se si escludono due frammenti papiracei, il “Papiro Tèbtunis 679” e il “Papiro Johnson”, risalenti rispettvamente al II e al IV secolo-.

 Ritratto di Giuliana Anicia.alla quale il codice è dedicato, tra figure femminili allegoriche.
Ritratto di Giuliana Anicia, alla quale il codice è dedicato, tra figure femminili allegoriche.

Le miniature di questo prezioso codice si possono distinguere in due categorie: i quadri che precedono il testo, -sei in tutto,- ciascuno dei quali occupa una pagina intera; e le figure delle piante e degli animali inserite nel testo. Nei quadri e più ancora nelle figure, si nota un’accuratezza d’esecuzione degna dell’età classica e una delicata mescolanza dei colori, ancora memore del naturalismo idealizzato dell’arte greco-romana antica. Il soggetto dei quadri è in relazione col contenuto, ma non costituisce l’illustrazione del testo. Questa finalità decorativa, più che didascalica, delle rappresentazioni figurate è propria dei tempi più antichi e i soggetti si ripetono secondo uno schema uniforme:

I) Circolo di medici, con a capo il centauro Chirone;

II) Circolo di medici, con a capo Galeno;

III) Figura dell’autore con in mano un rotolo;

IV) Altra figura dell’autore in atto di scrivere;

V) Dedica del libro a Giuliana Anicia;

VI) Titolo.

Nelle figure delle piante, e in quelle, più rare, degli animali, si osserva una maggior vivacità e spontaneità, perchè è probabile che i disegni siano opere originali, a differenza dei quadri a pagina intera che riproducono soggetti tramandati da una consolidata tradizione.

Sebbene sontuosamente decorato, il “Dioscoride” viennese non fu solo un oggetto destinato al godimento estetico, ma fu soprattutto usato come manuale di consultazione da medici, farmacisti e appassionati di scienze naturali, poichè le sue pagine mostrano inequivocabili segni di essere state spesso sfogliate. L’opera contempla composti medicinali provenienti da tutti i tre regni della Natura, ma sono soprattutto i vegetali a prevalere nella trattazione, dove vengono descritte le proprietà di ben 813 piante medicinali, mentre i prodotti di origine animale sono 101 e quelli minerali 102: in tutto dunque ben 1016 sostanze diverse, previste per essere utilizzate in ben 4740 applicazioni terapeutiche.

La maggior parte del codice consiste nella compilazione in ordine alfabetico dell’opera di Pedanio Dioscoride, uno dei farmacognosti più celebri dell’antichità classica, nativo di Anazarba di Cilicia, che svolse la professione di medico e fu al servizio anche dell’imperatore Nerone dal 54 al 58. Ben poco si conosce della sua vita, ma si sa con certezza che fu medico militare e, sia per la sua funzione, sia per ampliare le sue conoscenze, compì numerosi viaggi; avvalendosi di studi sulle opere di autori precedenti (quali Cràteva, Sestio Nigro, Giulio Basso, Iolla di Bitinia, Petronio, Diodoto, Nicerato, Eracleide di Taranto e Andrea di Karystos) e della sua lunga esperienza professionale, giunse alla stesura del “De materia medica” (o, più esattamente, “Perì hyles yatrichès”, ma è prevalso l’uso comune del titolo in latino) , testo che assurse ben presto al valore di opera fondamentale nell’ambito della medicina e della farmacopea.

Oltre al “De Materia Medica” di Pedanio Dioscoride, che ne occupa la maggior parte, il manoscritto comprende pure altre opere minori, che seguono il testo principale. Questa serie si apre con una poesia anonima sulle virtù delle piante sacre agli dei, intitolata “Carmen de viribus herbarum”; seguono la parafrasi dei due poemetti didascalici “Theriaca” e “Alexipharmaka” di Nicandro di Colofone, vissuto alla corte del re di Pergamo Attalo III, che tratta dei rimedi contro i veleni di origine minerale, vegetale ed animale; una parafrasi degli “Halieutica” di Oppiano di Còrico, che datano presumibilmente al 177-180 d.C. e descrivono diverse specie di animali marini; infine una parafrasi degli “Ornithiaca” di Dionisio di Filadelfia, -mutila di una decina di pagine-, che tratta di alcune specie di uccelli e della loro cattura.

Dopo la conquista di Costantinopoli durante la quarta crociata nel 1204 (1), il codice di Giuliana Anicia passò in mano dei Latini, -che avevano fondato l’effimero Impero Latino d’Oriente-, come bottino di guerra. Con la riconquista della città da parte dei Bizantini nel 1261 il codice tornò in loro possesso. Alla metà del XIII secolo, il monaco Neòfito, del monastero di S. Giovanni Pròdromos a Petra Antica, fece trascrivere e ricopiare il manoscritto; mentre il codice originale, ormai deteriorato in molte sue parti, fu fatto restaurare dal notaio Johannes Chortasmènos nel 1406. A questo intervento si devono le aggiunte in lettere minuscole di alcune didascalie, nomi botanici e descrizioni di piante.

Allorchè Costantinopoli fu conquistata dai Turchi Ottomani guidati da Maometto II, del prezioso codice si appropriò il sultano, e negli anni seguenti si ebbero numerose trascrizioni e traduzioni in arabo, persiano e turco; sembra che pure Hamon, il medico ebreo del sultano Solimano II abbia studiato questo testo e se ne sia servito nei suoi studi. Il codice rimase quindi alla corte ottomana fino a che, come abbiamo detto in precedenza, non fu acquistato dall’inviato dell’imperatore austriaco che lo portò a Vienna dove tuttora si trova. Nel corso del XX secolo le cattive condizioni dei fogli di pergamena resero indispensabile un delicato intervento di restauro che fu compiuto tra il 1960 e il 1965 e in seguito al quale il codice riacquistò il suo splendore.

Nella sua forma originaria, l’erbario di Dioscoride era articolato in cinque libri, dei quali il primo trattava di spezie, balsami e piante officinali; il secondo di animali e sostanze di origine animale, nonchè di cereali e piante da giardino; nel terzo e nel quarto erano descritte e raffigurate numerose erbe e radici, mentre il quinto era dedicato alle proprietà di bevande e minerali. Accanto a questa stesura sistematica della materia, si diffuse poi un’altra versione dell’opera che esponeva gli argomenti trattati in ordine alfabetico (probabilmente per pratica comodità di consultazione): questa seconda versione alfabetica è rappresentata dal trattato conservato a Vienna.

In apertura del codice, due quadri a piena pagina raffigurano alcuni dei più famosi medici dell’antichità, ai cui precetti l’opera è ispirata. nel primo quadro vediamo al centro di un campo quasi quadrato, circondato da una cornice a festoni di lauro. un gruppo di sette medici, il “gruppo di Chirone”; quest’ultimo è ritratto in posizione di rilievo per essere il mitico padre dell’arte del guarire.

Il gruppo di Chirone.
Il gruppo di Chirone.

Ai lati del centauro stanno seduti altri sei medici antichi, -3 a sinistra e 3 a destra-, dai quali si conosce il nome grazie alle didascalie a margine del foglio. Accanto a Chirone a sinistra vediamo Macaone, il medico operante nell’accampamento dei Greci durante l’assedio di Troia; sotto di lui è seduto Panfilo di Alessandria, medico e grammatico; e più in basso Senòcrate di Afrodisia farmacologo e dietologo vissuto ai tempi di Ottaviano Augusto. Nella serie di destra vediamo invece Sestio Nigro, autore di un celebre trattato di farmacologia, sotto il quale appare Eracleide di Taranto, altro studioso di sostanze medicinali; e infine Mantia, ideatore di numerosi rimedi medici.

Nel quadro successivo sono rappresentati altri sette medici, nel “gruppo di Galeno”: al centro appare ovviamente la figura del più famoso e celebrato medico della tarda antichità, Claudio Galeno (129-199), che completò e perfezionò il sistema ippocratico, autore di oltre 150 scritti di fisiognomica, anatomia, igiene, terapeutica, diagnostica e farmacologia. In alto alla sua sinistra troviamo Cràteva, medico di Mitridate VI Eupàtore, re del Ponto (120-66 a. C.), autore del “Rhizotomicon”, che trattava soprattutto di radici medicinali; sotto di lui spicca Alessandro Mus -il “topo”- (I sec. a.C- I sec. d. C.), farmacologo. Per ultimo Andrea di Caristo, farmacologo e tossicologo, medico di re Tolomeo IV Filopàtore (regnante in Egitto dal 222 al 204 a. C.).

Il gruppo di Galeno.
Il gruppo di Galeno.

Nella fila di destra siede in alto Pedanio Dioscoride, l’autore del trattato; più in basso Nicandro di Colofone, poeta didascalico ellenistico, che, come abbiamo detto sopra, scrise un’opera sul morso egli animali velenosi -e a quest’opera allude il serpente che egli ha davanti (2)-; e infine Rufo di Efeso, medico, dietologo, storico della medicina e  commentatore di Ippocrate, che operò ad Alessandria e a Roma durante l’impero di Traiano, ed è il probabile autore del “Carmen de viribus herbarum”, opera riportata anch’essa nel codice del Dioscoride di Vienna.

Nel terzo quadro su pagina intera appare lo stesso Dioscoride seduto in cattedra, di fronte al quale si erge la figura di HEURESIS, la personificazione del “felice ritrovamento”, la quale porge al medico una radice antropomorfa di mandragora, la pianta magica e guaritrice per eccellenza, dotata di infinite virtù, sia propriamente mediche, sia apotropaiche e talismaniche (3);

Epìnoia mostra la mandragora al pittore.
Epìnoia mostra la mandragora al pittore.

tra i due un piccolo cane morente: questo particolare allude ad una diffusa credenza, e al crudele uso che ne derivava: poichè la mandragora era considerata un essere a metà tra regno vegetale e regno animale, la sua estrazione dal terreno avrebbe comportato per chi l’avesse eseguita un pericolo gravissimo (4); per tale ragione si demandava ad un altro vivente, giudicato “inferiore”, -di solito a un cane-, questo ingrato compito (5).

Nell’illustrazione seguente troviamo raffigurata l’utilizzazione della pianta: nello studio di Dioscoride, nella nicchia posta al centro vediamo EPI’NOIA, -“l’inventiva”, che mostra la mandragora ad un pittore seduto davanti ad un cavalletto che la ritrae; sulla destra appare Dioscoride intento ad annotare le sue osservazioni. Tuttavia si suppone che le numerose piante raffigurate nel manoscritto non siano state copiate dal vero, bensì da altre immagini (inoltre non è presente nel libro una miniatura della mandragora).

Infine nell’ultimo foglio dell’inroduzione vediamo il ritratto di Giuliana Anicia, racchiuso da un serto di lauro, con il titolo ornamentale del trattato in caratteri onciali: “Qui è contenuta l’opera di Pedanio Dioscoride di Anazarba su piante, radici, succhi, semi, foglie e sostanze curative”. La figura della principessa è attorniata da due altre figure femminili, personificazioni della Magnanimità e della Saggezza, mentre un cupido alato le porge in dono il codice e un’altra figura allegorica, quella della Gratitudine, le si inginocchia dinnanzi.102_asphodelus_ramosus_dioscoride_vienna_materia_medica

Seguono le pagine nelle quali viene esposto l’erbario figurato che costituisce la parte più importante dell’opera; la trattazione delle piante, radici e sostanze medicinali è articolata secondo un ordine preciso: nome della pianta in greco, sinonimi in altre lingue, descrizione delle sue caratteristiche botaniche e organolettiche, provenienza, indicazioni terapeutiche, tempo e modalità di raccolta, conservazione, preparazioni magistrali che si possono effettuare con essa, effetti medicamentosi.

Per quel che riguarda l’aspetto iconografico, si presume che il nucleo più importante dell’opera provenga da un’edizione illustrata dell'”Erbario di Cràteva”, risalente all’inizio del I secolo a. C., nel quale a sua volta erano stati inseriti dei brani sulle virtù dei medicamenti tratti dai libri di Galeno. Questa parte venne in seguito accresciuta e arricchita con illustrazioni provenienti da altri erbari di difficile identificazione. Si ritiene che questa miscellanea di opere erboristiche e botaniche sia stata compilata intorno al 200. Poi nel corso dei secoli III e IV vennero apportate ulteriori aggiunte, tra cui le liste di sinonimi di Panfilo, lessicografo alessandrino, e descrizioni di altre piante, o anche delle stesse piante già considerate, ma secondo le indicazioni e i giudizi di altri ragguardevoli autori.

Le immagini naturalistiche che illustrano il codice si presentano non omogenee sotto il profilo stilistico, con sensibili differenze nel disegno, nella resa del modellato plastico e della coloritura dei soggetti rappresentati. E’ presumibile che esse siano state eseguite da diversi illustratori e che le figure alle quali si ispirarono appartengano a più erbari illustrati antichi e che riflettano i modelli iconografici introdotti nel II e I secolo a. C. da Cràteva, Dionisio e Metrodoro, i tre autori considerati da Plinio il Vecchio gli iniziatori dell’illustrazione botanica.

Nel testo di Dioscoride si notano delle interpolazioni tratte da altri autori e il testo esplicativo di undici figure sembra essere derivato dal “Rhizotomicon” di Cràteva, trattato conosciuto soltanto dai frammenti di esso che si riscontrano in altre opere.

Wilfrid Blunt ha osservato che il naturalismo proprio delle illustrazioni di questo codice rivela profonde affinità stilistiche con la produzione figurativa greco-romana dei primi secoli dopo Cristo, mentre risulta nel complesso estraneo all’arte bizantina contemporanea, -peraltro ai suoi inizi-. In molti casi le figure delle piante riempiono quasi per intero la pagina, mentre il testo esplicativo occupa lo spazio lasciato libero dall’immagine,corallo

L’unica miniatura che illustra il “Carmen de viribus herbarum”, è quella del corallo, allora ritenuto una pianta e chiamato “albero marino” (6); in essa è stata inserita, in basso a destra, una figura femminile seminuda, indicata come “Thalassa”, personificazione del mare, seduta accanto a un mostro marino.

Seguono le parafrasi, scritte da un certo Eutecnio, dei due poemetti didascalici “Theriaca” (7) e “Alexipharmaka” di Nicandro di Colofone. Il primo di questi poemetti, composto di 958 esametri, tratta dei rimedi efficaci contro il morso di animali velenosi. Nel testo sono inserite numerose figure, in genere di dimensioni assai più ridotte rispetto a quelle precedenti. In tutto si contano 25 illustrazioni di serpenti, 19 di insetti, 14 di piante, 4 di altri rettili, 3 di pesci; inoltre una testa di cervo e un minerale, chiamato “gagates”, che dovrebbe essere una varietà di lignite, conosciuta attualmente con il nome di “giaietto”, e della quale si dice che stando a contatto col fuoco rimane incorruttibile (8). Corno di cervo e “gagates”, erano i principali ingredienti per preparare una fumigazione atta ad allontanare i serpenti e altri rettili velenosi.

La parafrasi degli “Alexipharmaka” e quella, -anonima- degli “Halieutica” di Oppiano, che tratta della fauna marina, sono invece privi di apparato iconografico; sebbene si presuma, dagli spazi lasciati vuoti, che avrebbero dovuto essere anch’essi arricchiti da illustrazioni, che poi, a causa di ignoti motivi, non vennero eseguite.

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Un’otarda, una starna, una folaga e una volpoca rappresentate nel codice.

Un altro esempio di pregevole caratterizzazione delle specie animali, oltre che di persistenza di archetipi figurativi risalenti all’antichità classica, lo troviamo nell’ultimo dei trattati che compongono il “Codex Vindobonensis”, gli “Ornithiaca” di Dionisio di Filadelfia, poeta vissuto nel II secolo a. C., opera sugli uccelli. Per quanto mutilo di alcune pagine, il trattato conserva ancora 47 figure di uccelli, -alle quali si deve aggiungere il Pavone che apre il manoscritto e che in origine era collocato in questa sezione-, delle quali 23 sparse tra le righe del testo e 24 collocate in una sorta di griglia a riquadri che occupa quasi per intero una delle grandi pagine del codice (che misurano circa 36,5 per 30 cm). In questo caso l’illustrazione tende a sostituire il testo stesso, poiché le figure, dotate con una mirabile resa naturalistica, consentono a un conoscitore di questi animali di identificare con facilità un buon numero di specie -tra le quali uno Struzzo, un’Otarda, un Rigogolo, una Folaga, una Volpoca, ecc.-.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

1) è bene precisare che delle otto crociate che si susseguirono tra l’XI e il XIII secolo, solo nella prima (1095-1096) le motivazioni ideali e lo slancio religioso, -ovvero il recupero dei luoghi santi del cristianesimo, dopo l’occupazione della Palestina da parte dei Turchi Selgiuchidi, i quali, a differenza degli Arabi, impedivano l’accesso ad essi ai pellegrini provenienti dall’Europa- furono davvero importanti. Nelle altre gli intenti di carattere politico ed economico furono nettamente prevalenti su quelli “ideali” e religiosi, che erano la motivazione ufficiale di tali guerre, tant’è che gli Occidentali non facevano molta differenza tra Cristiani Ortodossi e Musulmani: la deviazione della quarta crociata dalla rotta verso la Palestina per conquistare Costantinopoli ne è l’esempio più lampante.

2) chi ha letto l’articolo su Virgilio e Orfeo ricorderà forse che abbiamo già citato Nicandro di Colofone quale una delle possibili fonti delle “Georgiche” di Virgilio.

3) il nome della mandragora deriva quasi certamente dal persiano, -tramite il greco-, e deriva proprio dall’aspetto antropomorfo della sua radice (“mard” significa “uomo” in persiano). Le virtù mediche e magiche ad essa attribuite derivano in primo luogo proprio dalla forma della radice; e inoltre per i diversi alcaloidi dalle proprietà allucinogene e psicocinetiche in essa presenti (così come in molte altre piante della famiglia delle Solanacee, alle quali essa apppartiene -quali la belladonna, lo stramonio, il giusquiamo, nonchè il tabacco, e varie piante usate nell’alimentazione umana: patata, pomodoro, melanzana, ecc.-)

4) tra l’altro si credeva che, nel  momento in cui fosse stata strappata dalla terra, la radice di mandragora lanciasse un urlo lacerante e tale da fare impazzire chi l’avesse udito (credenza tra l’altro ricordata da scrittori di varie epoche, quali Machiavelli, Shakespeare, ecc.). Dato l’interesse dell’argomento, conto di inserire una trattazione specifica sulla mandragora in un altro articolo quanto prima.

5) sembra che il primo a descrivere questa pratica sia stato lo storico Flavio Giuseppe nel I secolo. Egli afferma che, una volta trovata la preziosa pianta, si scavava intorno ad essa fino a quando fosse lasciata scoperta una parte della radice. A quel punto, si legava l’attaccatura della radice alla coda di un cane, che veniva poi chiamato da lontano con cibo o con qualche altro artificio, di modo che correndo via per obbedire al richiamo l’animale strappava la mandragora, attirandosene le presunte “ire”. Talvolta, a complentamento dell’opera, -poichè è presumibile che il povero cane al quale veniva fatta compiere l’operazione non succedesse nulla,- egli riceveva una solenne mazzata sul capo da parte del padrone che lo lasciava stecchito; questo avveniva in particolare allorchè i lestofanti che si dedicavano alla ricerca di mandragore per venderle poi a prezzo elevatissimo, volevano giustificare i presunti rischi che avevano corso e confermare la leggenda (di questo però non si accenna in Flavio Giuseppe e nei testi più antichi). Inutile aggiungere che io disapprovo e condanno senza riserve questa crudele pratica,nella quale oltrettutto la fedeltà e l’amcizia del cane erano ricambiate con una forma di sfruttamento subdolo e traditore, oltre che vergognoso.

6) secondo il mito riportato da Ovidio nelle “Metamorfosi” (IV, 740-752) il corallo nacque allorché Perseo dopo aver vinto il mostro marino che avrebbe dovuto divorare Andromeda, depose la testa di Medusa su alcuni ramoscelli: essi, assorbendo il potere indurente del mostro, si pietrificarono rapidamente, tramutandosi in coralli. In precedenza (Met., IV, 615-629), Ovidio aveva detto che dalle gocce di sangue cadute dalla testa mozzata di Medusa mentre Perseo sorvolava il deserto della Libia erano nati molti serpenti.

7) con il termine “theriaca” (derivato dal greco “therion”, che significa animale velenoso, o comunque pericoloso) si designò anche un antidoto al veleno dei serpenti, e ai veleni in genere, che comprendeva moltissimi ingredienti, di origine vegetale e animale. Esso sarebbe derivato dai veleni che Mitridate VI Eupàtore (re del Ponto dal 120 al 63 a.C.) era uso assumere in dosi crescenti onde divenire immune ai veleni stessi. Andròmaco, medico dell’imperatore Nerone, ne perfezionò la ricetta, aggiungendovi carne di vipera ed altre sostanze, per cui essa fu chiamata “Theriaca di Andromaco”. In seguito la ricetta si accrebbe sempre più con l’aggiunta di sempre nuovi ingredienti e il significato del termine si allargò fino a indicare una sorta di rimedio o panacea universale, che poteva guarire moltissime malattie. Si ebbero molte versioni, diverse secondo i tempi e i luoghi, di questo celebre farmaco, che in varie città si preparava a cura dell’autorità pubblica, che intendeva così garantirne l’autenticità e l’efficacia. Tra gli svariati ingredienti che entravano nella “theriaca” possiamo citare, oltre a una grande varietà di erbe, semi e radici, quali centaurea, angelica, genziana, taràssaco, valeriana, cardamomo, ecc., numerosi succhi e resine, tra i quali incenso, mirra, benzoino, mastice di Chio, gomma arabica, opopònaco, trementina, ecc; ma soprattutto ingrediente fondamentale e presente in tutte le varianti era l’oppio, -meglio se di Tebe, che era considerato il migliore-; mentre la carne di vipera nelle versioni più recenti viene a mancare, così da evitare inutili stragi dei poveri animali (che, sebbene velenosi, non meritano certo di essere sterminati, tanto più che usano il loro morso solo se molestate). La “theriaca”, o più comunemente “teriaca” (talvolta anche “triaca”) rimase nella farmacopea ufficiale di molti paesi fino all’800.

8) questa pietra semipreziosa, di un bel colore nero lucente e vellutato, considerata sotto l’influenza di Saturno, è -o forse sarebbe meglio dire era- usata in particolare per decorare “gioielli da lutto”. Nel Medio Evo lo si chiamava “ambra nera” ed era considerato un ottimo amuleto contro i crampi e contro la stregoneria. Henry Huntington nella sua “Descrizione delle isole britanniche”, afferma che queste isole producevano una grande quantità di giaietti nerissimi e splendenti, e aggiunge che tale pietra “resa brillante dal fuoco scaccia i serpenti [il che conferma quanto detto da Nicandro di Colofone]; strofinandolo fino a riscaldarlo, vi restano attaccati degli oggetti, così come avviene con l’ambra”.

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