GARIBALDI SCRITTORE (sesta parte)

Il piccolo Edgardo Mortara fu condotto a Roma nella cosiddetta “Casa dei catecumeni”, ove venivano collocati gli ebrei che, in modo più o meno spontaneo, decidevano di convertirsi al cattolicesimo, dove rimase anche dopo che con la fine del dominio papale su Roma nel 1870 avrebbe potuto uscirne per ricongiungersi ai suoi genitori. Egli anzi entrò come novizio nell’ordine religioso dei “Canonici regolari lateranensi” con il nome di Pio Maria (nome che doveva serbare la memoria del suo “benefattore” e padre spirituale) e pur mantenendo qualche contatto con la famiglia di origine, considerò sempre la sua sottrazione ad essa un intervento “provvidenziale”. Morì nel 1940.23-giugno1

In questa sede non ci dilungheremo ad approfondire le molteplici questioni di natura etica e dottrinale che il caso Mortara, ed altri consimili, sollevano, ma non ci possiamo esimere dal proporre alcune riflessioni.

Innanzi tutto, il considerare, come è stato fatto da parte cattolica (e viene fatto tuttora dalla parte più retriva dei cattolici attuali) il rapimento del Mortara un “disegno della provvidenza” per metterlo sulla strada della “vera fede” appare assurdo sotto il profilo logico, poiché se si vuol vedere in questo, o in altri fatti, un “disegno provvidenziale”, si dovrebbe pensare lo stesso di altri eventi di segno del tutto opposto, -quando ad esempio una persona venga rapita da “infedeli” la quale viene educata in una fede diversa dalla cattolica-  a meno di non concepire la “divina provvidenza” come qualcosa che funziona a singhiozzo (1).

Per quanto riguarda il battesimo amministrato ad un infante, o comunque a persona  incosciente, “in articulo mortis”, sembrerebbe abbastanza incoerente che un “Dio d’amore”, -come dichiarano fino allo sfinimento i cristiani- condanni alla dannazione, -o comunque all’esclusione dall’eterna felicità, se si ammette il “limbo” (2)- solo perché qualcuno non ha versato un po’ d’acqua su di lui recitando una formula; e che la salvezza possa dipendere dalle scelte di un terzo, e non della persona stessa.

Tuttavia la posizione della chiesa cattolica in materia è quanto mai chiara: per la salvezza eterna è necessario il battesimo sacramentale, secondo il principio “nulla salus extra ecclesiam” (3). Sono considerate equipollenti al battesimo sacramentale solo altre due ipotesi, che pur non potendosi considerare “sacramento” in senso stretto hanno la proprietà e l’effetto di cancellare il “peccato originale”: il “battesimo di sangue”, ovvero quello che si consegue con il martirio, subendo la morte o gravi lesioni -e in questo secondo caso la teologia cattolica lo definisce più propriamente “confessio” (4)- a causa delle fede cristiana, accettata nella propria interiorità pure se non “formalizzata” con un sacramento; e il “battesimo di desiderio”, ovvero la ferma intenzione di ricevere appena possibile il sacramento. Il battesimo di desiderio, come risulta evidente, può applicarsi soltanto a un adulto o un fanciullo “nell’età della ragione” (5), ed in particolare al catecumeno, -cioè colui o colei che sta ricevendo la basilare istruzione religiosa in vista del battesimo sacramentale- che venga a morire prima che gli venga amministrato il sacramento (in tal senso si esprime S. Tommaso d’Aquino nella “Summa Theologiae”, III, 68), e non all’infante -che ovviamente non può desiderare di essere battezzato-.

E’ bene precisare che, allorché invalse l’uso di battezzare i neonati, progressivamente diffusosi tra la fine del IV e il V secolo, fu introdotta la “cresima”, quale sacramento autonomo, attraverso la quale colui che era stato battezzato per volontà dei genitori, e per il quale le promesse battesimali erano state pronunciate dai “padrini”, confermava la sua fede: da qui il nome di “confermazione”, con i quale tale sacramento è designato, mentre “cresima” deriva dal “crisma” (greco χρισμα), l’unguento composto di olio d’oliva mescolato ad aromi, che è l’elemento materiale del rito (tuttavia nelle chiese orientali il sacro crisma viene di solito chiamato μυρoν -profumo-). In antico l’unzione veniva eseguita subito dopo l'”immersione” del catecumeno nell’acqua benedetta (ed in effetti “battesimo” significa propriamente “immersione”); in seguito invece le due fasi del rito di ingresso nella chiesa latina si sdoppiarono, -mentre nella chiesa orientale rimasero unite-.

Per questa ragione, unico tra tutti i sacramenti, essendo il primo e più necessario di essi, il battesimo, sia pure in via eccezionale, qualora non sia disponibile un sacerdote e vi sia pericolo di vita, può essere amministrato anche da un laico, – eventualmente pure di sesso femminile, ma solo in mancanza di un uomo-, e addirittura da un non cristiano (come precisa S. Tommaso), -purchè costui celebri il rito con intenzione seria: questo poiché l’agente del sacramento è ritenuto la Spirito Santo stesso e non la persona che compie materialmente l’atto: tale dottrina è espressa sul piano giuridico dal canone 747 del “Codex Iuris Canonici” del 1917, ripresa nel c. 862 del CIC del 1983 (6).

Non solo, ma il battesimo di un infante in caso di grave e imminente pericolo di vita può essere amministrato secondo la concorde dottrina teologica e giuridica della chiesa cattolica, anche “invitis parentibus”, contro la volontà dei genitori, poiché il bene tutelato -la salvezza eterna- è superiore ai diritti inerenti la potestà genitoriale, e in tal senso si esprimono sia la dottrina teologica, sia il diritto canonico: Decretali di Gregorio IX, libro III, titolo 42, confermato nel Codex Iuris Canonici del 1917 -canone 750- “infans infidelium, etiam invitis parentibus, licite baptizatur, cum in eo versatur vitae discrimine”.

Si tenga inoltre presente che, secondo la dottrina cattolica (ed ortodossa), un sacramento anche qualora sia amministrato illecitamente, -ovvero a persona adulta in stato di peccato mortale-, rimane valido; inoltre, essendo il suo effetto “ex opere operato” (e non “ex opere operantis”), è comunque valido quando il ricevente sia in buona fede, ovvero pure nell’ipotesi che vanga officiato da un ministro privo della capacità di conferirlo in modo lecito (come un sacerdote scomunicato, interdetto o sospeso “a divinis”, oppure da persona che si qualifichi falsamente come sacerdote).

Si potrebbe obiettare, a ragione, che un battesimo o una conversione forzati od estorti non abbiano alcuna validità; ma in realtà le cose non stanno proprio così poiché nella dottrina canonica prevalente, enunciata nel III libro delle Decretali di Gregorio IX, si configura una fondamentale distinzione tra violenza condizionata o relativa e violenza assoluta: la prima è quella che si attua con intimidazioni e minacce (anche di morte), la seconda si esplica nella coazione materiale, priva di qualunque forma di consenso, ancorché estorto: quindi in pratica non è valido solo il battesimo subito a forza (ad esempio perché il battezzando viene immobilizzato o stordito), mentre quello imposto con prevaricazione, è considerato pienamente valido.

S. Tommaso d’Aquino, peraltro, che affrontò la questione in numerosi passi delle sue opere, negò la legittimità del battesimo forzato agli infedeli, dichiarando che “tales nullo modo sunt ad fidem compellendi ut ipsi credant, quia credere voluntatis est” (“Secunda secundae, quaestio X”). Questa formulazione, in apparenza chiara, risultava tuttavia ambigua, poiché ometteva qualsiasi riferimento alla distinzione tra violenza relativa e violenza assoluta. Egli inoltre sostenne che i figli degli infedeli non dovessero essere battezzati “invitis parentibus”, almeno fino al conseguimento dell’età della ragione.

Ma altri teologi, come ad esempio il francescano Giovanni Duns Scoto (1265 circa-1308)- l’iniziatore dell’altro principale ramo della seconda Scolastica, contrapposto a quello tomista-  affermarono che qualora genitori ebrei o infedeli siano sudditi di un principe cristiano, quest’ultimo avrebbe non solo il diritto, ma anche il dovere di togliere loro i figli affinché siano educati alla vera fede e poter così accedere alla vita eterna. Non soltanto, ma Scoto si spinge addirittura a sostenere che anche gli adulti potranno essere costretti a convertirsi e a conservare la nuova fede una volta ricevuta, anche nel caso in cui essi non siano veri fedeli nell’animo, perché è preferibile impedire loro di praticare una “falsa” religione, piuttosto che lasciarli liberi di osservarla (7).

Questo è il fondamento con il quale per lunghi secoli la chiesa cattolica cercò di “convertire” forzatamente gli ebrei, nonché i “pagani” -quali i Sassoni divenuti “cristiani” con la forza delle armi al tempo di Carlo Magno (e quando ne ebbe occasione anche i seguaci di altre religioni, come i musulmani nella penisola iberica).

Il ghetto di Roma in a fotografia dell'800.
Il ghetto di Roma in a fotografia dell’800.

Anche se, come abbiamo detto, nell’800 tali nefande pratiche non erano più usuali, in determinate circostanze, -come quelle, vere, nelle quali si ebbe il rapimento ai genitori di E. Mortara; o immaginate, come quelle descritte a Garibaldi a proposito della forzata conversione di Marzia e suo padre- l’intolleranza tipica della chiesa, e in fondo del tutto logica e legittima, secondo il punto di vista di chi pretenda di detenere una “verità assoluta” e di rappresentare, anzi per così dire di “possedere” Dio in terra, tornava a manifestarsi in tutta la sua pesante oppressione.

Dopo questa lunga parentesi, concludiamo la nostra sommaria, e oltre modo incompleta, esplorazione sull’attività letteraria di Giuseppe Garibaldi, uno dei Padri della nostra Patria, con alcuni cenni allo stile, alla grammatica e al lessico che contraddistinguono le sue opere.

I romanzi, -che sebbene non l’unica, sono senza dubbio la principale e più significativa (nonché più congeniale) branca nella quale si espresse come scrittore-, devono essere inquadrati  nell’ambito della letteratura italiana, ed europea, della seconda metà dell’800, tra tardo romanticismo, romanzo popolare commisto di denuncia sociale e moralismo sentimentale, e prodromi della narrativa verista. Gli esempi più illustri ai quali si possono accostare, -e che Garibaldi stesso cita nella prefazione del suo primo testo narrativo, “Clelia, o il governo dei preti”, sia pure per protestare umilmente la sua inferiorità a tali modelli, e ai quali fa esplicito riferimento-, sono  Francesco Domenico Guerrazzi e Victor Hugo; nelle intenzioni anche il Manzoni, anch’egli citato nella prefazione, ma che in effetti risulta più lontano dalla prosa garibaldina, non solo per livello artistico, ma pure nello spirito e negli ideali; ma è soprattutto con i romanzi storici del Guerrazzi che si possono ravvisare consonanze, sia nei contenuti sia nei toni oratori sia nella focosità polemica.

Nei romanzi garibaldini poi si possono vedere pure somiglianze e più ancora anticipazioni, più che altro nelle trame e nelle situazioni, nonché in certi toni vagamente melodrammatici (come ad esempio la rivelazione a Marzia della sua vera origine che abbiamo visto nei “Mille”), dei “romanzi d’appendice”, come quelli, ai loro tempi celeberrimi, di Francesco Mastriani e di Carolina Invernizio.

Da questi esempi e suggestioni, nonché in generale dal fervore patriottico di molti dei protagonisti del Risorgimento, che si traduceva spesso in uno stile appassionato ed esuberante, egli derivò in gran parte il lessico e lo stile, incline spesso ad espressioni e toni declamatori -gli Italiani “figli dell’Ausonia”; Napoli “la superba capitale del focoso destriero” (8), Nizza “la bellissima Cimele (9) dei Romani”-, che però talora assumono un carattere di potente lirismo e di nobile passione ideale, specie quando egli si effonde nell’anelito panteistico che costituisce l’essenza della sua spiritualità: splendida a questo riguardo, e degna di un grande poeta e di un mistico, la sua definizione del Sole come “il figlio maggiore dell’Infinito” (10).

L’educazione letteraria, e la sua cultura umanistica in genere, sebbene egli dimostri sicure conoscenze della letteratura italiana, della storia e della classicità greco-romana, come si evince dalla numerose citazioni dotte, -nonché dai versi di opere poetiche più o meno note (tra le quali forse il maggior numero è tratto dai “Sepolcri” del Foscolo, senza dubbio il poeta preferito da Garibaldi), posti a mo’ di epigrafe all’inizio di ciascun capitolo dei romanzi-, non furono sistematiche.

La famiglia di Giuseppe Garibaldi in una foto del 1875: da sinistra nell'ordine. la figlia Clelia, la seconda moglie Francesca Armosino, il generale, il figlio minore Manlio in braccio a Ricciotti.
La famiglia di Giuseppe Garibaldi in una foto del 1875: da sinistra nell’ordine. la figlia Clelia, la seconda moglie Francesca Armosino, il generale, il figlio minore Manlio in braccio a Ricciotti.

La lingua italiana usata da Garibaldi pur rientrando nel solco della tradizione e nel panorama stilistico dell’ottocento, risente talvolta di una spiccata influenza delle altre lingue con le quali ebbe dimestichezza ed in particolare il francese e lo spagnolo. Tale influenza si osserva sia nelle forme grafiche, sia in alcune forme sintattiche: alla  prima categoria possiamo attribuire l’uso della del segno di dieresi sulla “i” che segue una vocale quando sia in iato (ï), per influenza del francese (ad esempio “egoïsta” ed “egoïsmo”, -segno inutile in italiano, ma indispensabile in francese, dove, senza di esso, “oi” si leggerebbe “uà”-); quello, sempre di derivazione transalpina, del trattino breve sia in calchi quali “franco-tiratore”, sia in parole quali “Stati-Uniti”; mentre allo spagnolo si riconnette l’accentazione della “i” tonica in termini quali “malinconìa”, “fantasìa”, sia pure con accento ora grave ora acuto.

Nel campo della sintassi si nota l’influenza iberica nella funzione attributiva del gerundio (che in spagnolo e portoghese equivale talvolta al participio presente o a una proposizione relativa in italiano): “sull’orlo d’un fosso […] trovavasi una povera donna lavando i panni”; l’interferenza francese è invece chiara nel superlativo con doppio articolo (“con tutti i mezzi i più subdoli”) e nelle espressioni con valore modale introdotte dalla preposizione “di” (“Una carica […] fu eseguita dai borbonici d’un modo brillante”).

Ma l’aspetto più interessante della pagina garibaldina è la varietà del lessico, una caratteristica che ne compensa le incertezze e le oscillazioni sintattiche e interpuntive. Accanto al frequente impiego di termini aulici (quali “oste” =nemico; “mefite” =esalazione sgradevole; “pugnare” =combattere, ecc.) o alla scelta di varianti rare e letterarie (“ruina”, “polve”, ecc.), -che attestano la confidenza dell’autore con la tradizione letteraria-, si nota una significativa presenza di forestierismi, tra i quali oltre a quelli già acclimatati nell’italiano, come “evacuare” e “fucile”, altri allora poco diffusi (“defezionare”, “nazionale”).

Va segnalato infine l’accoglimento di molti neologismi, sia in voci appartenenti all’ambito marinaresco e militare (come “antiposto”, “arenamento”, “pennone”), sia per le comodità di sintesi che essi offrivano; tra questi ultimi rientrano quelli coniati con l’aggiunta di suffissi quali “-ismo” (cavourismo, mutismo, cretinismo), “-ario” (spedizionario, stanziario, temporario), “-erìa” (mazzinerìa)., suffissi che avranno poi enorme diffusione nel XX secolo.

Con queste osservazioni, per quanto incomplete e frammentarie, spero di aver stimolato i lettori alla conoscenza più approfondita di un aspetto misconosciuto dell’opera del grande patriota italiano, che, per quanto minore rispetto alle sue gesta eroiche, risulta tuttavia assai importante per meglio comprendere i suoi ideali e la sua azione patriottica.

Vorrei infine sottolineare che la figura grandiosa di Garibaldi e degli altri padri del nostro Risorgimento e della nostra Patria, -in specie Mazzini e Cavour, i quali, sebbene quanto mai diversi, ne sono il fondamento-, continuerà ad ergersi come quella di un gigante, anche quando quella ignobile marmaglia di politicanti e di intellettualoidi da strapazzo, nanerottoli invidiosi e maligni, i quali da oltre due decenni non fanno altro che propalare lo loro squallide menzogne, e sputare il velenoso rancore di cui sono ripieni, saranno ormai dimenticati.

Note

1) questo vale in generale si dovrebbe dire che se la storia, sia dell’umanità, sia delle comunità umane, sia dei singoli individui, è guidata da un disegno provvidenziale, e pure eventi in sé deplorevoli e negativi possono preparare o condurre ad esiti benefici, ne deriva che i responsabili anche di atti gravemente immorali, visto che tali atti rientrano negli “imperscrutabili disegni divini”, non dovrebbero esserne considerati responsabili (altrimenti dovremmo concludere che Dio si serve, in modo alquanto cinico, del “male” e poi ne punisce gli autori che in realtà hanno eseguito la sua volontà).

2) l’esistenza del “limbo” (< “limbus” = lembo, orlo), inteso come “luogo” o meglio come stato, destinato a coloro che siano morti non avendo ricevuto il battesimo, -e dunque senza essere stati mondati dal “peccato originale”-, ma non in condizione di peccato “attuale”, e in particolare gli infanti, è una questione alquanto controversa e oscillante nella dottrina cattolica. S. Agostino nella sua polemica contro i pelagianesimo, -che negava il peccato originale-, tutti i non battezzati, e quindi “infedeli” sono irrevocabilmente destinati all’eterna dannazione, sebbene la pena infernale dovrebbe essere per i bambini mitissima; similmente la patristica greca e Gregorio Magno ipotizzano per gli infanti uno stato intermedio tra inferno e paradiso. Il termine “Limbus” per indicare lo stato post mortem di coloro che siano morti privi di peccato attuale appare per la prima volta nei commentatori delle “Sententiae” di Pier Lombardo (1100-1160 circa), -il più importante teologo della “prima Scolastica”-; nella scelta del termine usato per esprimere questa idea sembra che esso sia concepito come una sorta di “orlo” dell’inferno. Con S. Tommaso d’Aquino viene definita la formula fatta propria dalla chiesa cattolica (sebbene non sia un vero e proprio articolo di fede): nel limbo non si ha la visione beatifica di Dio, ma solo il godimento dei beni naturali; esso quindi si differenzia dal purgatorio, poiché non contempla pene accessorie “medicinali”, che servono a purificare completamente dai peccati attuali e a conseguire lo stato definitivo di grazia, ma a differenza di questo è eterno e non prelude alla beatitudine. Anche i giansenisti respinsero la credenza nel limbo, ritenuto da essi un residuo di dottrine pelagiane. Nel “Catechismo di S. Pio X” (1905) si afferma che: “I bambini morti senza battesimo vanno al limbo, dove non è premio soprannaturale né pena; perché avendo il peccato originale, e quello solo, non meritano il paradiso, ma neppure l’inferno e il purgatorio”.

3) l’espressione esatta, contenuta in una lettera di S. Cipriano di Cartagine (210-258) a papa Stefano I è in effetti “Salus extra ecclesiam non est”.

4) quando un santo è menzionato nel “Martirologio Romano” con la qualifica di “confessore” si intende appunto che egli subì patimenti o torture fisiche a causa della sua fede, pur senza che ne sia derivata la sua morte.

5) naturalmente per “ragione” si intende qui la capacità di discernimento, la “dianoia” aristotelica, criterio della coerenza interna dei processi mentali e strumento dell’intelletto (il “nous”); non la “ragione” nel senso dato a questo termine dal razionalismo cartesiano e leibniziano, che, sopprimendo l’intelletto, fa della facoltà raziocinante il principio e il fondamento del reale e conferisce ad essa un valore assoluto, oltre a considerarla unico criterio di conoscenza del mondo. Per un idealista, un neoplatonico o anche un empirista, “razionale” è il discorso che presenta una concatenazione logica, una coerenza interna e con i principi sui quali si fonda, indipendentemente dalla loro validità, -che deve essere verificata o assunta con altri mezzi (intelligenza, intelletto, intuizione, istinto, impressione, sensazione, esperienza, ecc.); per un razionalista, “razionale” è il discorso o l’argomentazione che discende da principi fisici e matematici, assunti come “verità” più meno evidente, attraverso i quali si può giungere a una conoscenza oggettiva del mondo, e che sia inquadrabile in una causalità di tipo fisico. Nel razionalismo quindi può aversi, e si ha, una conoscenza oggettiva del mondo esterno al soggetto (che è poi la “scienza”), ben distinta dalla conoscenza di sé stessi (che è l’unica forma di autentica conoscenza di chi concepisce il mondo come proiezione dell’Io), ed aversi una “verità scientifica”, mentre non può aversi né una “verità metafisica”, né una “verità interiore”. Pio X stabilì l'”età della ragione”, giunta la quale sarebbe opportuno amministrare sia la prima comunione, sia la cresima, a sette anni.

6) lo stesso S. Tommaso (Summa Theologica, III, 67, 3) afferma però che il battesimo conferito da un laico al di fuori di circostanze eccezionali e dello stato di necessità è illecito (ed il laico commette peccato mortale); tuttavia anche in tal caso il sacramento è valido -e non deve quindi essere ripetuto-. Tale posizione si fonda sulla netta distinzione teologico-giuridica tra “illiceità” e “invalidità” che non coincidono affatto: ben nota è tale distinzione nel caso degli impedimenti al matrimonio: gli “impedimenti impedienti” rendono il matrimonio illecito, ma non ne inficiano la validità (e pertanto esso non è suscettibile di annullamento); mentre qualora sussistano “impedimenti dirimenti” il matrimonio può essere formalmente lecito, ma è invalido, e dunque nullo.

7) peraltro nel canone 752 del CIC del 1917 si afferma espressamente che il battesimo può essere conferito ad un adulto solo se questi lo desideri in modo esplicito o implicito e sia in stato di grazia (tuttavia rimane sempre la questione che in mancanza di questi due requisiti il battesimo sarebbe bensì illecito, ma non invalido).

8) il simbolo araldico del Napoletano è un cavallo rosso in campo bianco.

9) Cimele era una cittadina romana che sorgeva a poca distanza da Nizza.

10) questa definizione poetica potrebbe peraltro essere derivata, o influenzata, da analoghe espressioni del Foscolo, -verso il quale, come abbiamo detto, Garibaldi nutriva profonda ammirazione-; si veda ad esempio. “il Sole! Sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il Creato” (“Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, 3 aprile).

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