GARIBALDI SCRITTORE (quarta parte)

“Quando Paride scaraventò il fatal pomo nel consesso delle Dee, egli non si trovava certamente a Pietroburgo, ma in uno dei circoli di latitudine che passano per le tre penisole: la Greca, l’Italiana e l’Iberica, i cui popoli, con tradizioni illustri, con non comune svogliatezza di spirito potrebbero far chiamare le dette penisole teste dell’Europa. Ma che per lungo spazio d’intestine discordie, a cui sono propense queste meridionali nazioni, per le miserabili conseguenze politiche che ne risultano e che le posposero alla coda dei popoli civili, noi potremmo chiamarle invece calcagne della vecchia armata guerriera.

“Qui mi cade il paragone tra i popoli settentrionali e quelli del mezzogiorno; se questi fossero meno turbolenti, più concordi e costanti, ed inflessibili nei cimenti certo il vantaggio rimarrebbe ad essi, ma, succedendo il contrario, questi restano inferiori ai primi, non individualmente però, ma collettivamente […].

“Si millantino quanto si vuole le glorie passate, il fatto sta che alla coda delle nazioni civili dell’Europa, minime per potenza, per istruzione e prosperità, stanno i popoli delle meridionali penisole. Le tre nazioni sono propense alla discordia, ma certo nessuna supera l’Italiana […] E vedete quindi i discendenti del più robusto ed altiero degli antichi popoli della terra mingherlini, piccini, curvi della schiena […] E qui ripeterò forse per la decima volta che se gl’Italiani hanno la dabbenaggine di perdonare ai neri [gli ecclesiastici] le torture, gli auto-da-fè e d’essere stati venduti settanta e sette volte da loro agli stranieri, essi perdonar non potranno ai loro perversi precettori d’aver loro insegnato ad esser codardi”.

Questo brano di Giuseppe Garibaldi, -tratto da “Cantoni il Volontario”, cap. XXXVI, “La Discordia”-, nel quale l’autore riflette sui difetti e la decadenza delle popolazioni dell’Europa meridionale appare anche ai giorni nostri di straordinaria attualità; anzi, alla luce degli avvenimenti e degli sviluppi politici ed economici degli ultimi anni questa analisi, severa e disincantata, dei mali e delle carenze delle società “meridionali”, in primis l’italiana, si dimostra quanto mai valida.

Come di consueto l’eroe risorgimentale si scaglia con foga contro il clero e la chiesa cattolica, che, come abbiamo visto è sempre il suo principale bersaglio polemico, e a cui addebita tutti i problemi e le miserie dalle quali l’Italia e l’infelice suo popolo sono afflitti, attribuendole non solo la responsabilità, -storicamente incontestabile-, di aver impedito l’unificazione politica d’Italia per conservare i suoi domini temporali, e aver quindi favorito in modo diretto o indiretto le secolari dominazioni straniere che si sono succedute nella penisola, ma anche di aver fomentato la litigiosità, la discordia, l’indolenza, la mancanza di senso civico, la vigliaccheria che, al dire di Garibaldi, hanno caratterizzato e ostacolato lo sviluppo morale e civile degli italiani.

Egli prosegue rammaricandosi che in Italia i movimenti e le esperienze rivoluzionarie, nonché i fatti d’arme che li accompagnarono, del 1848-49, abbiano avuto un esito misero e deludente, che lo slancio allora manifestatosi si sia rivelato un fuoco di paglia, esauritosi il quale l’Italia sia tornata nelle medesime condizioni ad essi antecedenti.

Come si diceva, le affermazioni di Garibaldi a proposito delle “meridionali penisole” risultano tuttora di sorprendente attualità, soprattutto quando si ponga mente agli atteggiamenti e ai pregiudizi negli ultimi tempi largamente diffusi nei confronti dell’Unione Europea che pur con tutti i suoi gravi limiti e carenze, ha rappresentato comunque un progresso civile ed economico del nostro continente, ed ha assicurato, dopo secoli di guerre, un miglioramento innegabile nelle condizioni di vita dei suoi cittadini.

Troppo spesso italiani, greci, iberici, nonchè i francesi, -ma pure popolazioni europee più “settentrionali”- tendono a fare delle istituzioni comunitarie un capro espiatorio delle loro incapacità, debolezze, carenze, del prevalere degli interessi particolari ed egoistici sul bene comune; i comuni cittadini si indignano delle manchevolezze, dell’inaffidabilità e della disonestà delle proprie classi dirigenti, le quali però, come appare del tutto evidente a chi possieda un minimo di obiettività e di buon senso, non fanno altro che rispecchiare i difetti delle società che le esprimono, dimenticando che nei regimi democratici (come bene o male sono quelli delle nazioni sopraddette) il popolo è corresponsabile delle scelte dei governi; così come dimenticano, o ignorano del tutto, gli enormi benefici economici e sociali che hanno ricevuto, pur con tutti i suoi indubbi difetti, dall’Unione Europea, la lunga pace che essa ha assicurato nel continente, le opportunità e gli stimoli che ha offerto ai suoi cittadini.

Troppo spesso il principio ispiratore che doveva animare l’associazione dei popoli europei in una entità politica unitaria, a causa della mediocrità dei suoi rappresentanti, è scaduto nell’egoistica volontà di scaricare sugli altri i propri problemi e le proprie difficoltà, senza peraltro voler condividere i propri successi; gli stati membri non hanno unito i loro sforzi per promuovere una integrazione economica, che a sua volta preludesse a un’unione politica, per superare e trascendere i propri interessi nazionali, ma al contrario nella speranza di meglio affermarli. In tal modo è successo che l’Unione Europea si è ridotta solo ad un incontro di miopi egoismi, che talora però è divenuto uno scontro: questo è la causa della crisi che essa sta ora attraversando.

L’idea di un’unità politica dell’Europa fu lanciata con profondo intuito e singolare lungimiranza già dal Mazzini; fu poi ripresa in quel documento di grandissimo valore storico, morale, civile e culturale che è il “Manifesto di Ventotene”, ingiustamente negletto e del quale purtroppo la maggior parte dei cittadini italiani ed europei neppure conosce l’esistenza. In questo testo, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli (1907-1986) ed Ernesto Rossi (1897-1967) nel 1941 nella piccola isola tirrenica, -dove erano stato confinati dal regime fascista,-  e pubblicato nel 1943 e poi nel 1944 in una seconda versione alla quale era accluso un saggio dello Spinelli intitolato “Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche”, si afferma in modo esplicito, e seguendo una visione lucidamente profetica: “La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari” è quella che separa coloro che “concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Su queste parole che esprimono un elevato messaggio civile e morale dovrebbero riflettere, -se potessero leggerle, e avessero le capacità di riflettere-, tutti coloro che negli ultimi anni si sono lasciati incantare dalle chiacchiere inutili e reboanti di saltimbanchi da due soldi, scadenti imbonitori di piazza, demagoghi squallidi, i quali hanno approfittato dell’incommensurabile stoltezza del popolo per imporre pseudo-ideologie intimamente reazionarie e oscurantiste!

Ricordiamo peraltro che, negli intenti di Spinelli e Rossi, il conseguimento di un’entità politica europea sovranazionale (gli “Stati Uniti d’Europa”) non avrebbe dovuto rappresentare una sorta di impero, a sua volta in competizione con altri stati, ma la premessa e l’inizio della creazione di una grande unità politica mondiale, entro la quale conciliare e armonizzare le storie, le culture, le esigenze di tutte le popolazioni del pianeta e in cui inverare l’antico principio: “e pluribus unum”.

Questo progetto si potrà considerare solo una generosa utopia, ma senza dubbio dovrebbe essere il principio ispiratore sul quale sperare di costruire la pace nel mondo, ammesso che possa mai esistere. E sempre Spinelli, in “Gli Stati Uniti d’Europa”, sostiene che “la mitologia democratica propende a credere che le guerre sieno [sic] dovute solo a loschi interessi di piccole minoranze, che le grandi masse sieno fondamentalmente pacifiche: perciò, si pensa, quando i governi poggeranno su di esse, il pericolo delle guerre sarà praticamente eliminato […]. Si è invece visto che le democrazie, anche le più rispettose all’interno dei diritti dei loro cittadini, non trasportavano affatto queste loro virtù nei rapporti con l’estero, nei quali rimanevano egoiste, disposte all’esclusione e alla sopraffazione dei rivali. Anche in esse infatti, potevano benissimo farsi valere interessi particolaristici […]. La rapidità con cui i nuovi stati sorti dalla rivoluzione francese e russa hanno ripreso in pieno la politica estera difensiva e offensiva dei rispettivi “anciens régimes”, appena mascherandole con le nuove parole, può essere istruttiva”.

"Picciotto" garibaldino agli ordini di Giuseppe La Masa.
“Picciotto” garibaldino agli ordini di Giuseppe La Masa.

Ma torniamo ora alle opere letterarie di Garibaldi, in particolare a “I Mille”. Questo romanzo nel quale nella narrazione dell’epica impresa per liberare l’Italia meridionale dalla tirannide borbonica e congiungerla al nascente stato unitario, si mescolano le vicende personali di coloro che accompagnarono Garibaldi, -alcuni famosi, altri meno, altri ancora quasi del tutto ignoti-, fu pubblicato solo nel 1874, grazie ad una sottoscrizione popolare (1), aumentando la sua amara disillusione, che cinque anni dopo lo condurrà a dimettersi dalla carica di deputato per non essere tra i legislatori di un paese “dove la libertà è calpestata e la legge non serve nella sua applicazione che a garantire la libertà dei gesuiti ed ai nemici dell’unità d’Italia (2)”.

Tra gli episodi più notevoli del romanzo si segnala in particolare quello di cui sono protagoniste due fanciulle, Lina e Marzia, le quali, -così come Ida in “Cantoni il Volontario”- si erano travestite da uomini per poter combattere al fianco dei garibaldini. Il generale scrive come “quei due giovinetti che nel gruppo dei più arditi degli Argonauti (3) volevan precederli verso il nemico, gareggiando a chi doveva affrontarlo per primo” avessero attirato la sua attenzione e la sua curiosità; e del suo stupore allorché seppe che i due audaci combattenti appartenevano in realtà al sesso gentile. Sebbene, come aveva precisato in precedenza, “i contorni dei loro fianchi” denunciassero, più che non “alcune svolazzanti treccie [sic]”, la loro femminilità.

Apprendiamo in seguito che delle due ragazze una, Lina, è “figlia delle belle valli lombarde” ed è sorella di un volontario, mentre l’altra, Marzia, è romana, e la loro indomita fierezza è esaltata con un tocco di mitologia: “Il loro volto, […], di colore diverso, colpiva lo sguardo colla nobile beltà della robusta Cinzia [cioè di Diana], indomabile cacciatrice”. Indi descrive con commosso trasporto l’inestinguibile ardore di quei due membri della spedizione che aveva scoperto essere in realtà due guerriere, degne epigone delle Amazzoni e della vergine Camilla: “Nel turbinio dell’assalto, della fuga, e della persecuzione, io vidi avvolgersi sempre fra i primi le due incantevoli creature. E per un momento trasportato dal calore della pugna, e dal fascino della bellezza, mi sembrò d’esser lanciato in quei tempi eroici ove i genii e le dee presiedevano agli eventi delle battaglie.

“Le due eroine, giacchè le conosciamo donne, avevano perduto nella mischia i loro fez e turbanti; di modo che una capigliatura d’oro ed una d’ebano avean per un momento svolazzato sull’altopiano del Pianto dei Romani. Esse, indispettite d’essere state svelate, misero le ali ai piedi, e perseguirono disperatamente il nemico”; e di certo, aggiunge Garibaldi, sarebbero giunte fino a Calatafimi se il ferito Francesco Nullo, zoppicando su un piede solo, non le avesse rincorse per farle tornare indietro.

Stampa riproducente Tonina Masanello, presunta ispiratrice del personaggio di Lina.
Stampa riproducente Tonina Masanello, presunta ispiratrice del personaggio di Lina.

Indi, sul far della sera, le due fanciulle vengono condotte al cospetto del generale, ed esse gli chiedono perdono di aver trasgredito all’ordine di “non potersi imbarcare donne nella spedizione”. Ma Garibaldi, colpito dalla loro generosa dedizione, anziché redarguirle, loda il valore delle combattenti, le quali, dopo avergli donato un mantello incerato sottratto a un nemico, si dileguano nelle tenebre senza dargli il tempo di ringraziarle.

Nei capitolo successivi del romanzo le due fanciulle però acquistano un rilievo notevole poiché le loro vicende personali si intrecciano agli eventi storici dei quali esse stesse divengono protagoniste insieme ai garibaldini. In particolare Marzia, -che scopriremo essere figlia di un’aristocratica romana, la quale era stata costretta ad affidare la propria figlia neonata ad una famiglia ebraica- è vittima della persecuzione di un potente gesuita, monsignor Corvo, il quale già a Roma si era invaghito di lei, e dopo averla chiusa in un convento, da cui era fuggita, cerca in ogni modo di riacciuffarla per sottometterla alle sua brame.

Monsignor Corvo incarica pertanto un brigante calabrese, Talarico (il quale peraltro si convertirà poi alla causa nazionale) di rapirla. Quest’ultimo compie il rapimento approfittando della curiosità di Lina e Marzia, le quali giunte insieme all’esercito di liberazione sullo stretto di Messina, desiderano assistere da vicino alla pesca del Pesce spada (4). Il brigante insieme ad alcuni suoi compagni si offrono di accompagnarle a vedere da vicino il pesce su un “palischermo” (una imbarcazione usata nella pesca del tonno); una volta a bordo egli consegna la giovane donna a una misteriosa contessa -descritta come donna affascinante ma che si era lasciata traviare dalle morbose attenzioni del prete e ne era divenuta fedele collaboratrice- (della quale viene detto più oltre il nome, Virginia), che la condurrà a Roma. Si scoprirà in seguito che la gentildonna era la madre naturale di Marzia; ella alla fine del romanzo si redimerà e si ricongiungerà con la figlia.

Quanto a Lina, venne trattenuta da Talarico, il quale conversando con lei, viene impressionato dalla nobiltà d’animo e dall’ardore patriottico di lei, tanto che i suoi sentimenti più elevati che si celavano in un’indole in fondo generosa, vengono ridestati dalle parole e dallo spirito della fanciulla ed egli decide di aderire alla missione garibaldina: “Quel brigante che in causa di un’educazione pervertita era stato prima d’ora capace d’ogni atroce delitto, trovavasi in oggi trasformato in altro, capace d’innalzarsi all’eroismo sotto il magnetismo di una semplice donzella”. Pertanto la figura di Talarico potrebbe in qualche modo paragonarsi a quella dell’Innominato dei “Promessi Sposi”, così come il rapimento di Marzia, sia pure nella sostanziale diversità della storia e delle circostanze in cui avviene rimembra l’analoga sorte della Lucia manzoniana. L’ex-brigante accetta di aiutare Lina insieme al fratello di lei e a Francesco Nullo a liberare Marzia dalle grinfie di monsignor Corvo; a tal fine essi, imbarcatisi su un piroscafo inglese, si recano a Civitavecchia e di lì a Roma.

Marzia, allevata in una famiglia cristiana, ma di origine ebraica, viene costretta alla forzata conversione al cristianesimo, insieme al suo padre adottivo, Elia, che, per non doversi separare dalla figlia, accetta anch’egli di subire questo sopruso. Lina e suoi amici giungono proprio allorché si sta per consumare tale atto di sopraffazione. Una pomposa processione accompagna Marzia e il suo anziano genitore, -affiancati dal perfido monsignore e dalla contessa Virginia-, snodandosi lungo le vie di Roma per dirigersi alfine nella basilica di S. Pietro, dove lo stesso pontefice riceverà la formula dell’estorta conversione. L’autore non descrive la cerimonia; si limita a dire che dopo di essa Marzia viene fatta condurre da monsignor Corvo al convento di S. Francesco,- il medesimo donde era in passato riuscita a fuggire-, sotto la stretta sorveglianza delle monache.

Nella tessitura del romanzo si alternano, e talora si intrecciano, due linee parallele, mescolate alle considerazioni storiche e filosofiche dello scrittore e alle appassionate filippiche contro la malizia del clero: da un lato la narrazione della vittoriosa avanzata dell’esercito meridionale dalla Sicilia verso Napoli, che, -dopo la conquista della capitale dell’ex-regno-, si conclude con la battaglia del Volturno; dall’altro il concitato susseguirsi delle avventure di Lina, Marzia e dei loro amici e dei pericoli e delle insidie nei quali incappano e da cui riescono a salvarsi.

A questo punto l’attenzione di Garibaldi si sposta sulla contessa Virginia, -la madre di Marzia-, la quale, dopo essere stata sedotta dal monsignore, aveva dovuto subire le sue prevaricazioni: “Bella, spiritosa, piena di nobili sensi; da giovinetta essa era una delle più splendide e preziose fra le bellissime figlie di Roma, e perciò condannata nella corrottissima metropoli alle brame disoneste dei porporati. Da quel giorno la venustà della contessa appassiva come il fiore sullo stelo al soffio malefico dello scirocco. Era ancora bella nei tempi da noi descritti, ma le sue guance eran pallide, le una volta folgoranti sue luci eran languide, ed ogni atto della vezzosa persona portava l’impronta del tedio, e segnava le tempeste della travagliata anima sua. […]. Povera giovine! inaridita nell’alba della sua vita ogni fonte della poesia, dell’ideale umano, l’essere avea perduto ogni dolcezza per lei, e le diventava ognor più insopportabile!”

Nell’afoso pomeriggio di un dì della fine d’agosto del 1860 Virginia “per distrarsi e sfuggire ai rimorsi della solitudine” decide di fare una gita in barca sul Tevere, mentre minaccia di levarsi un furioso temporale estivo; nonostante il barcaiolo la avverta della procella che sta per approssimarsi, ella insiste nella sua risoluzione, -forse nell’inconfessato intento di andare incontro alla morte-. Come previsto, si scatena un vento impetuoso che rovescia la barca, così che la contessa cade tra le onde del fiume. Manlio, il nocchiero, si lancia in suo soccorso, ma Lisa, la cameriera, aggrappatasi a lui, gli impedisce di muoversi liberamente di salvarla. Ormai sembrava giunta l’ora estrema per Virginia “ed il suo spirito forse già rivolgevasi a quell’Infinito che tutto racchiude, e che probabilmente tutto regge” quando una mano d’acciaio”  la sollevò dai flutti ribollenti del fiume e la depose “sul marciapiede d’una scala di granito alla sponda destra del Tevere”: colui che l’aveva salvata era Muzio, il prode romano che aveva aiutato anche Lina e Marzia.

Da quel momento la vita della contessa mutò e da succube strumento delle gesuitiche malizie divenne, anche grazie all’amore in lei suscitato dal suo salvatore, un’ardente patriota. Muzio, insieme a 300 prodi Romani, degni discendenti dell’antica stirpe degli avi, -paragonati ai 300 Lacedèmoni guidati da Leonida alle Termopili e ai 300 Fabi che caddero nella battaglia presso il fiume Crèmera (5)-, elabora un piano per liberare Marzia dal convento dove era stata rinchiusa. Alla liberazione partecipa anche la contessa Virginia, che si incarica di far aprire la porta dell’edificio, simile a una fortezza, sfruttando il suo fascino nei confronti del galante capitano francese che comandava i mercenari di guardia al convento.

Dopo uno scontro con i mercenari francesi e svizzeri e le guardie papali accorse loro in aiuto, i nostri eroi riescono a portare a compimento la loro missione. Essi, con Muzio sempre alla testa del manipolo che Garibaldi continua a designare con il nome evocativo di “Trecento”, si dirigono poi verso sud nell’intento di ricongiungersi alle schiere garibaldine che dopo essere entrate a Napoli, puntavano alla liberazione del Lazio e di Roma dalla tirannide papale, facendo sosta a Tivoli e a Subiaco. Da qui essi si addentrarono nella Ciociaria. Avanzando in questo territorio, oltre agli ostacoli naturali e alla scarsezza e al cattivo stato delle strade, la “legione romana” deve affrontare anche l’ostilità dei contadini, i quali, aizzati contro di essa dai preti, non solo allestiscono insidie e compiono opera di sabotaggio, ma tendono pure pericolose imboscate.

A Sora però la legione incontra una più seria resistenza; da lì i nostri eroi si dirigono nel Molise; giunti ad Isernia; trovano la città quasi del tutto deserta: in essa erano rimasti solo alcuni anziani ed infermi. Che era successo? Che il loro acerrimo nemico, monsignor Corvo, -il quale, dopo lo smacco subito a Roma, si era recato prima nel Napoletano e poi sul massiccio del Matese-, mostrando doti strategiche degne più di un militare che di un religioso, aveva ideato un piano ingegnoso, per quanto non particolarmente originale, essendo stato sperimentato più volte nella storia.

Dopo aver allontanato quasi tutta la popolazione dalla città, fatto portare via tutto quanto si poteva (derrate, ecc.) e distrutto quanto non si poteva, aveva radunato tutti gli uomini validi, unendoli ai cacciatori dell’esercito borbonico, nei pressi di un ponte sul Volturno, in quel tratto ancora torrente più che fiume.

Lina, salita su un’altura, riesce ad avvistare le forze nemiche, quantunque esse cercassero di rimanere celate nei folti boschi. Non appena l’avanguardia guidata da Nullo varcò il ponte sul Volturno, questo, che era stato in precedenza minato, venne fatto esplodere e vi fu così un gran numero di morti e di feriti; inoltre la retroguardia del convoglio restarono divisi dai loro compagni più avanti.

Dopo lo scoppio della mina “una valanga di forsennati” si precipitò dai monti circostanti sui garibaldini, guidati da monsignor Corvo a cavallo che li incitava a trucidare senza pietà “i maledetti nemici del re e della santa religione” (peraltro l’autore non manca di osservare come in realtà il monsignore trasformatosi in guerriero fosse in realtà del tutto privo di fede e di qualunque ideale, poiché per lui, così come, -secondo Garibaldi-, per la maggior parte dei religiosi e dei sovrani, la religione non è che un mero “istrumentum regni”, utile per tenere soggiogato il popolo, ma che non aveva nulla a che vedere con le loro eventuali convinzioni personali, posto che ne avessero).

Il momento è critico per l’eroica legione romana, che riesce però ad approfittare delle sopraggiunte tenebre per ritirarsi e organizzare poi la riscossa contro le colonne nemiche ormai fiaccate. Lo stesso Corvo viene rovesciato da cavallo e fatto prigioniero. Dopo la cattura questo personaggio finora del tutto negativo inizia un mutamento interiore ed appare in lui un barlume di coscienza. Egli cerca tuttavia di fuggire ma per ironia della sorte, viene colpito proprio da un proiettile dei borbonici che lo colpisce tra gli occhi, lasciandolo in vita ma gravemente ferito.

Singolare l’episodio che accade nell’antico borgo di Tora; qui i preti fanno credere che il castello feudale sia infestato dai fantasmi. Il colonnello Giovanni Chiassi volle farne l’esperimento e decise di trattenervisi. Nel cuore della notte egli viene destato da ululati, tramestio di catene e altri rumori con i quali gli spettri sogliono annunciarsi, dopo di che gli appare un grande “fantasma” contornato da altri più piccoli. Il colonnello insegue i pretesi fantasmi e, colpito il capo di essi con la sciabola, scopre essere costui il sagrestano. Così tutti i feriti possono essere ricoverati nel maniero onde essere curati, per quanto possibile in quelle precarie condizioni.

Girolamo Induno: "Sentinella garibaldina".
Girolamo Induno (1827-1890): “Sentinella garibaldina”. (G. Induno oltre che pittore, fu patriota e combattè tra i garibaldini).

Anche Virginia e Marzia erano state gravemente ferite, l’una la petto, l’altra alla spalla destra; quando la contessa vede un neo sulla spalla di Marzia, scoperta per essere medicata, ha la conferma di quanto ella già sentiva dentro di sé: che quella indomita fanciulla era sua figlia che aveva dovuto abbandonare tanti anni prima, e che il malvagio Corvo le aveva fatto credere morta! Ma per quest’ultima la gioia di aver ritrovato sua madre era in larga parte annullata dal dolore di vederla ormai prossima alla morte (poichè per forza di cose le cure che le venivano prestate dai medici non potevano in quel luogo e in quelle circostanze essere adeguate).

“Dio, conservatemi la madre mia”. Tale fervida preghiera essa innalzava in silenzio verso l’Infinito, mentre sentivasi bagnata dalle proprie e dalle lagrime della sua compagna [Lina], intenerita dalla situazione dell’amata sua Marzia”.

Allora nell’animo, fino ad allora insensibile, di Monsignor Corvo, -ormai distrutto nel fisico (dove la ferita al volto gli aveva provocato una deturpante e orribile tumefazione) e nel morale-, comincia ad insinuarsi una sorte di pentimento per il male che aveva inflitto a quelle due donne, tanto che giunge a implorarne il perdono. “La contessa Virginia fu elettrizzata da quel grido, drizzossi sul busto con una sveltezza straordinaria, e gettando il suo sguardo sul  miserabile prostrato, esclamò con voce straziante: “Marzia! Marzia! quello scellerato è tuo padre!” Dopo di che l’infelice Virginia spirò. Indescrivibile lo stato d’animo della poveretta allorché seppe che colui che l’aveva sedotta era anche il suo genitore naturale!

A questo punto, Elia, il vecchio padre adottivo di Marzia, narra a Lina e agli altri tutta la triste storia di Marzia: quando lui e sua moglie Rebecca ebbero la disgrazia di perdere la loro figlioletta alla tenera età di sei mesi, una altolocata signora, Silvia, che era una loro cliente (Elia gestiva una merceria) ed amica di famiglia, propose a Rebecca di fare da balia a una fanciulletta la cui madre non poteva allattarla. Sebbene nel romanzo non venga detto espressamente, da quel momento Marzia diventa a tutti gli effetti figlia adottiva della coppia ebraica; fino a che la sua grazia e la sua avvenenza (come avvenne per Clelia, la protagonista del primo romanzo di Garibaldi) non attirano le brame sensuali di monsignor Corvo, il quale arriva al punto di rapirla e rinchiuderla in un convento.

Le condizioni però si aggravano sempre più e alla fine pure ella si diparte da questo mondo, promettendo alla sua cara Lina che la sua anima immortale sarà sempre con lei quando combatterà per la libertà della patria.

In effetti secondo l’elenco ufficiale dei partecipanti all’impresa garibaldina del 1860 (che peraltro sicuramente non è completo), tra i 1.089 volontari che sbarcarono a Marsala figurava una sola donna, la savoiarda Rose Montmasson, -chiamata poi Rosalia in Sicilia- (1823-1904), prima moglie di Francesco Crispi, che,- dopo averla conosciuta a Torino, dove egli si era rifugiato, e si serviva della sua opera di lavandaia e stiratrice-, l’aveva sposata durante il suo esilio a Malta (6). Ella per raggiungere il consorte, che già si trovava in Sicilia per preparare l’insurrezione antiborbonica, si era imbarcata travestita da uomo sul piroscafo “Piemonte” e si era aggregata alla gloriosa spedizione garibaldina, dove si era distinta soprattutto nel prestare le sue cure ai numerosi feriti nelle battaglie con le quali il manipolo dei volontari, sempre più ingrossato di “picciotti” siculi che si univano all’esercito garibaldino, avanzava strenuamente nell’isola.

Tuttavia è evidente che queste figure femminili hanno soprattutto una valenza simbolica (come vedremo meglio più avanti) e in esse l’autore intende incarnare, e rappresentare le condizioni dell’Italia, avvilita da secoli di oppressione clericale e di dominazione straniera, ma che ora è determinata a combattere i suoi nemici per riscattarsi dalla schiavitù.

Sono state pertanto avanzate alcune ipotesi sull’identità delle due fanciulle immortalate nella narrazione di Garibaldi o comunque delle donne reali dalle quali potrebbe aver tratto ispirazione: si ritiene che nella figura di Lina sia da identificare l’esule padovana Antonia (detta Tonina) Masanello in Marinelli (1833-1862), la quale, arruolatasi facendosi passare per il fratello del marito combattè insieme a questi e fu decorata al valor militare con il grado di caporale. Ella, ridotta ormai in miseria, morì di tisi a Firenze nel 1862; fu sepolta presso la chiesa di San Miniato, accanto alle spoglie mortali di Virginia Menotti, sorella del patriota modenese Ciro, ma nel 1958 a seguito di un cedimento del terreno la salma venne traslata nel cimitero di Trespiano.

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1) l’elenco dei sottoscrittori è riportato in appendice al romanzo stesso.

2) egli era quindi ben consapevole che la monarchia sabauda aveva realizzato un compromesso con il vecchio ordine sociale e religioso sul quale si fondavano gli stati fantoccio pre-unitari e che la chiesa e il Vaticano, i quali ufficialmente stigmatizzavano il nuovo stato unitario, in realtà avevano saputo fin dall’inizio inserirvisi benissimo e continuavano a godere di ampi privilegi, e altri ancora ne avrebbero ottenuto in futuro.

3) con l’epico e mitico nome dei conquistatori del “Vello d’oro” guidati da Giasone Garibaldi ovviamente indica il gruppo degli ardimentosi da lui guidati.

4) “Oh, povero Pesce Spada, guarda quanto sangue ha versato dalla ferita!” […] Quella voce di compassione, forse l’unica che uscisse dalla folla, era articolata da una bellissima fanciulla, diretta ad un’altra non men bella di lei. Era Marzia che in uno sfogo d’anima gentile, compativa la situazione atroce del povero pesce spada, dirigendosi a Lina.” (“I Mille”, cap. XXIX).

5) i 300 membri della famiglia Fabia che, guidati da Q. Fabio Vitulano, nel 479 a. C: caddero in una battaglia contro i Veienti.

6) il matrimonio era stato celebrato il 27 dicembre 1854 da un sacerdote -tale Luigi Marchetti-, che era stato sospeso “a divinis” (e dunque non avrebbe potuto celebrare i sacramenti). Pertanto quando Crispi, -che aveva ormai abbandonato sia la causa repubblicana, per aderire alla monarchia sabauda, sia la moglie-, volle impalmare la nobildonna pugliese Lina Barbagallo, sostenne che l’unione non era valida. La povera Rosalia si spense in miseria a Roma nel 1904 e si salvò da una anonima sepoltura solo per intervento del Comune capitolino che le donò un loculo.

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