ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI (prima parte)

L’ENIGMA DELLA SFINGE

A questo famoso enigma che la Sfinge poneva ai viandanti e che fu risolto da Edipo abbiamo già dedicato un’ampia trattazione in un lungo articolo pubblicato in quattro parti nel mese di agosto 2013 e dunque ad essa si rimanda il lettore.

L’ENIGMA DI OMERO

Con questo nome è noto un indovinello di antichissima origine e che fu citato da diversi autori quali Eraclito, Aristotele e Plotino. Secondo una diffusa tradizione l’insigne vate, cantore di Achille e di Ulisse, si sarebbe addirittura suicidato per il dolore di non essere riuscito a risolverlo.

Brogi,_Giacomo_(1822-1881)_-_5113_-_Napoli,_Museo_nazionale__Omero__il_miglior_busto_di_questo_poeta_(Ercolano)
Busto di Omero proveniente da Ercolano.

Si narra che Omero avesse chiesto a un gruppo di pescatori dell’isola di Ios, reduci da una poco fortunata battuta di pesca, che cosa avessero pigliato. Essi allora così risposero: “Abbiamo lasciato quello che abbiamo preso; / quello che non abbiamo preso, ce lo portiamo appresso”.

L’enigmatica risposta dei pescatori lasciò assai perplesso il poeta, il quale, nonostante si sia a lungo scervellato per comprenderne il senso, non riuscì a venirne a capo.

In seguito all’enigma fu data questa soluzione: i pescatori si erano accorti di aver preso soltanto dei parassiti, pulci o pidocchi, o per meglio dire che portavano seco non i pesci che speravano di catturare durante la pesca, ma qualcosa che avevano addosso già da prima. Tuttavia codesta interpretazione appare poco convincente, poiché non spiega che cosa avessero lasciato nel mare quegli uomini

La probabile spiegazione esatta dell’enigma si incentra sulla possibilità che gli φθερες, i pidocchi (1), siano tanto gli insetti parassiti della cute e del cuoio capelluto umano (“Pediculus humani capitis”  e “P. humani vestimenti”), quanto i “Pesci pidocchio”. Aristotele nella “Historia Animalium” (IV, 10, 4; V, 31, 8) ci fa sapere che i “Pidocchi di mare” sono pesci simili alle Remore, i quali, come queste ultime, si attaccavano con forza alla chiglia delle navi aderendovi con la ventosa posta sul loro capo.

Questa interpretazione consente di risolvere in tal modo l’enigma: quei poveri pescatori avevano tra le vesti e le chiome i pidocchi, -cioè gli insetti parassiti ematofagi-, allorché erano salpati con le loro barche, e se li erano riportati a casa dopo la pesca: pertanto avevano detto: “quello che non abbiamo preso, ce lo portiamo appresso”:

Quando avevano gettato le reti, erano riusciti a pigliare solo dei “Pidocchi di mare”, che però avevano ributtato tra le onde, non essendo codesti pesci commestibili. e dunque “abbiamo lasciato quello che abbiamo preso” (2).

Il senso dell’enigma ruota quindi sul doppio significato del termine “φθειρες” (“pidocchi”), ovvero sull’omonimia: questa particolarità secondo Aristotele aiuterebbe gli autori a esercitare l’ingegno.

L’ENIGMA DEL PIDOCCHIO

Rimanendo sempre in  tema di pidocchi, in una collezione seicentesca di epigrammi e aforismi dedicate alla “studiosam iuventutem” quale onesto diporto, l'”Ars Nova Argutiarum”, troviamo questo curioso enigma, chiamato appunto “Aenigma de pediculo”:

“A pede quae parvo deduxit bestia nomen, / Non carmen, carnem sed tamen ingreditur” (“Bestia che il nome prese da un piccolo piede, / e non si immette in un carme, ma nella carne”).

L’indovinello si incentra sul doppio significato del latino “pes”, che, -come il greco “πους”-. significa “piede” sia nel senso di parte del corpo umano, sia nel senso di unità metrica della poesia classica. Ma il diminutivo di “pes”, “pediculus”, è anche omofono di “pediculus”, “pidocchio”: da qui il gioco di parole del “pediculus” -piccolo piede metrico (come potrebbe essere un giambo, costituito da una sillaba breve e una lunga, o un trocheo, lunga + breve)-, che non si inserisce nel verso di una poesia, ma, come “pidocchio” penetra nella carne.

L’ENIGMA BABILONESE

Sembra che il più antico enigma di cui si abbia testimonianza, risalente al secondo millennio a. C., ci venga dalla terra dei due fiumi. Esso così recita: “E’ gravida senza concepire, si impingua senza nutrirsi”. La soluzione è: LA NUVOLA.

L’ENIGMA DEL “SATOR”

Di questo celebre palindromo latino inscritto in un quadrato magico riprodotto sia su innumerevoli pareti, pavimenti e altri supporti architettonici, sia su amuleti e talismani, si tratta ampiamente nell’articolo in due parti (pubblicate l’8 e il 15 febbraio 2018) dedicato alle frasi palindrome in greco e in latino e si rimanda quindi ad essa il lettore.

L’ENIGMA DI SANSONE

Un altro famoso enigma che si trova nella Bibbia (Libro dei Giudici, XIV, 15-19) è quello che il possente Sansone propose ai suoi invitati durante un banchetto.

Secondo la narrazione biblica, Sansone (il cui nome “Shimshun” è un diminutivo di “Shemesh” = Sole in ebraico, e quindi significa “piccolo Sole”) recatosi nella cittadina di Timnah vede una giovane donna filistea e viene conquistato da un incontenibile amore per lei (3). Tornato a casa, chiede ai genitori di poter sposare l’affascinante fanciulla che ha rapito il suo cuore. Suo padre, Manoach, si mostra alquanto perplesso per la richiesta di Sansone, poiché la futura nuora appartiene al popolo dei Filistei, nemico degli Israeliti; ma di fronte alle insistenze del figlio, accetta che egli si unisca in matrimonio con la straniera. Mentre Sansone con i genitori si recano a chiedere al mano della fanciulla, vengono assaliti da un feroce leone, che Sansone con la sua forza immane abbatte a mane nude.

In seguito, mentre percorre di nuovo quella strada per andare a celebrare le nozze, l’eroe israelita vede uscire uno sciame di api dal cadavere del leone da lui ucciso in precedenza; in esso si trova anche un favo ripieno di miele squisito del quale Sansone si delizia, offrendone anche ai suoi parenti.

Da questo episodio il guerriero prende lo spunto per proporre durante il convito nuziale un indovinello ai trenta inviati della sposa:

“Dal divoratore è uscito del cibo, e dal forte è uscito il dolce”.

Il novello sposo promette loro che se fossero riusciti a risolvere l’enigma entro sette giorni, essi avrebbero ricevuto trenta tuniche e trenta vesti; se invece non fossero riusciti a giungere alla soluzione, sarebbero stati loro ad offrire a lui questi doni.

"Sansone e il Leone". Altorilievo rinascimentale nel duomo di Milano.
“Sansone e il Leone”. Altorilievo rinascimentale nel duomo di Milano.

Dopo tre giorni di vani sforzi per venire a capo dell’enigma, gli invitati, con la minaccia di ritorsioni contro la sua famiglia, costringono la sposa a chiedere al marito di rivelarle la soluzione dell’indovinello. Ella dunque con le sue pressanti insistenze riesce alfine ad ottenere la risposta, che comunica tosto ai Filistei. Questi ultimi riescono così a risolvere l’enigma: “Che cos’è più dolce del miele? Chi è più forte del leone?”.

Ma per onorare la sua promessa, il forte guerriero, che ha compreso di essere stato raggirato, non trova di meglio che uccidere trenta uomini ai quali toglie le vesti per darle agli invitati, i quali, sebbene con un inganno, erano riusciti a vincere la scommessa.

In questo enigma, che, come tutti gli enigmi si fonda sull’ambiguità e sulla possibilità di varie interpretazioni che si intersecano e si sovrappongono, si celano però dei significati reconditi e metaforici. Infatti il miele presso molte popolazioni antiche è considerato un cibo divino venuto in dono dal cielo (si veda Virgilio, Georgiche, IV, 67-68), dotato di mistiche virtù, strettamente imparentato con il nettare e l’ambrosia nutrimento degli dei. Esso non solo nutre il corpo, ma anche la mente e lo spirito; Inoltre è agente di purificazione e di illuminazione, simbolo della vera sapienza, tramite con la divinità. Questo simbolismo presso gli Ebrei lo si ritrova ad esempio in Isaia, VII, 14-15, e nel “Cantico dei Cantici” (IV, 1; V, 1), dove sta a indicare la dolcezza ineffabile dell’unione mistica; inoltre il nome ebraico della ape “dburah” (da cui Debora), è derivato dalla radice trilittera “dbr”, che designa la parola, il discorso, l’intelligenza (un po’ come il “logos” ellenico), e quindi il miele è il prodotto della sapienza e dell’intelligenza.

Nei “Rig Veda” indù è assimilato al “soma” -il liquore usato nei sacrifici degli antichi Arii, dotato di virtù guaritrici e rigeneratrici-, e all'”amrita”, la bevanda sacra che dona l’immortalità, della quale abbiamo parlato nell’articolo su Garuda.. Nella tradizione greca è associato all’ispirazione divina, alla dolcezza della poesia, al magico potere dell’eloquenza, tanto che di numerosi poeti e filosofi (Omero, Saffo, Pitagora, Pindaro, Platone, ecc.) si disse che alla nascita sarebbero stati nutriti da sciami di api venute miracolosamente a posarsi sulle loro boccucce).

Il miele serviva non solo come nutrimento, ma pur per le sua proprietà di purificare e di conservare: Come ricorda Porfirio di Tiro nell'”Antro delle Ninfe”-15- (4), grazie ad esso molte sostanze si mantengono immuni da putrefazione e si detergono e si disinfettano ferite. Ed anche le api, che lo producono, sia per questa loro capacità di raccogliere gli umori caduti dal cielo per trasformarli in miele, sia per il loro modo di vivere, che è esempio per gli umani di ordine e di armoniosa convivenza, Esse sono simbolo o addirittura incarnazione delle anime elette e giuste, non conoscono l’amore carnale e i piaceri sensuali: Plutarco (Quaest. nat. 36) afferma che se una fanciulla si imbatte in uno sciame d’api qualora non sia pura viene attaccata e così gli uomini che abbiano da poco consumato atti sensuali; per tanto un apicultore deve essere persona di assoluta rettitudine e fedeltà coniugale. “Μελισσαι” venivano pure chiamate talvolta le Ninfe e le sacerdotesse i alcune divinità femminili legate alla Terra e alla vegetazione, quali Rea, Artemide Persèfone  soprattutto Demetra.

Tuttavia questi utili insetti secondo l’antica credenza nascevano dalle spoglie di animali defunti, in particolare di bovini. L’esempio letterario più famoso di “bougonìa” (nascita da un bue) delle api è l’episodio di Aristeo narrato da Virgilio nel IV libro delle Georgiche (vv. 317-559) -che abbiamo descritto nell’articolo sul vate latino, “quel savio gentil che tutto seppe”-. Ovidio, -in “Fasti”, 379 e seguenti-, sottolinea che dall’animale escono gli sciami, da una sola anima mille anime, le quali lasciano il corpo, ormai esanime e che si sta decomponendo, in veste di api: la vita del bue, ormai terminata, è fonte di quella degli industriosi insetti, nei quali si rinnova e si perpetua.

E la genesi delle api diviene a sua volta simbolo e metafora della resurrezione dell’anima umana, la quale dopo la morte del corpo, che per essa era una tomba, rinasce a nuova vita.

Dunque questa vicenda di morte e resurrezione sarebbe adombrata anche nella storia di Sansone: egli, nutrendosi del miele prodotto dalle api generatesi dal corpo del leone da lui sacrificato, ha acquisito una nuova vita. In questo senso l’enigma sembra alludere pure a lui, forte come un leone, ma che era dotato anche di acume e di intelligenza; e chi avesse tentato di “divorarlo”, avrebbe finito invece per essere “divorato” a sua volta, non solo dalla sua forza fisica, ma pure dalla sua astuzia e dal suo potere spirituale.

Peraltro non si può fare a meno di osservare come la figura di Sansone, sia per le qualità e il comportamento che gli sono attribuiti (smisurata forza fisica, irascibilità, voracità, irresistibile attrazione per le donne, che risulta essergli fatale), sia per le imprese che lo vedono protagonista, sia assai più simile a un eroe del tipo Eracle o Gilgamesh, che a un austero giudice di Israele. Ed in effetti è molto probabile che in origine fosse un semidio solare (come dimostra il suo stesso nome), o quanto meno la sua figura sia stata fortemente influenzata da quella di altri eroi mitici.

ALCUNI INDOVINELLI PRESENTI NELL'”ANTOLOGIA PALATINA”

Com’è noto, il termine “antologia” (dal greco ανθoς =”fiore” e λεγω =”colgo”) designa una raccolta di testi in poesia e/o in prosa, scelti sulla base di criteri soggettivi (valutazione del valore letterario, rappresentatività di una letteratura o di un periodo di essa) od oggettivi (per argomenti, epoca, ecc.), quasi fossero metaforici mazzi di fiori da offrire per ammaestramento o diletto. Dalle antologie poco si distinguono le “crestomazie”, raccolte di passi “utili” d’autori classici, con la differenza che queste ultime hanno un fine più propriamente pratico e pedagogico.

Questo nome, divenuto comune specie in ambito scolastico, deriva infatti da quello dell’Antologia Palatina, una raccolta comprendente 3700 carmi in lingua greca, quasi tutti epigrammi, di ben 340 autori diversi e che spaziano dal VII secolo a. C all’XI d. C., così chiamata perché scoperta dall’umanista francese Calude Saumaise (1588-1653), detto Salmasius, nella Biblioteca Palatina di Heidelberg in Germania agli inizi del XVII secolo.

Fin dall’età classica vi fu chi pensò di raccogliere in un “corpus” antichi componimenti poetici, soprattutto epigrammi, ma fu soprattutto nel periodo ellenistico, nel clima di erudizione e di ricerca filologica che contraddistinse questa fase della civiltà ellenica, che si cominciarono a compilare collezioni organiche di componimenti considerati le migliori espressioni della poesia greca tra le quali spicca quella che il poeta e filosofo cinico Meleagro di Gàdara redasse nel 100 a. C: circa, intitolata Στεφανoς  (“Corona” o “Ghirlanda” di fronde e di fiori) e che costituisce il primo nucleo di quella che, arricchita di molteplici apporti, diverrà in età bizantina l'”Antologia Palatina”.

In questa raccolta, oltre a molte delle sue composizioni, riunì quelli di oltre 40 poeti, dai primordi della letteratura greca ai suoi tempi, mostrando peraltro la sua preferenza per gli autori di epigrammi della scuola alessandrina. Quale introduzione all’antologia, egli pose una lunga epistola in distici elegiaci rivolta al suo amico Diocle, dove descrive le caratteristiche dei singoli poeti della “Corona” paragonando ciascuno di essi con un diverso fiore.

Come si è detto sopra, nei secoli seguenti alla raccolta di Meleagro furono aggiunte altre poesie per la maggior parte di autori successivi, e sempre in prevalenza epigrammi ad opera di eruditi e poeti, tra i quali possiamo annoverare Filippo di Tessalonica, vissuto nel I secolo, e il grammatico Diogeniano d’Eraclea, contemporaneo dell’imperatore Adriano, il quale significativamente chiamò la sua silloge “Anthològhion epigràmmaton” (Antologia di epigrammi).

Dopo un periodo di oblio, nel VI secolo Agatia, detto “Scolastico”, avvocato e storiografo, vissuto alla corte di Giustiniano, pose mano a una nuova grande raccolta che continuava ed ampliava quelle precedenti. Ma fu soprattutto nel IX secolo quando la cultura bizantina conobbe un momento di splendore e per merito di grandi eruditi, quali Areta e il patriarca Fozio, rifiorivano gli studi letterari e filosofici che si ebbe una prima sistemazione organica per argomenti del vasto patrimonio poetico “minore” (cioè di composizioni brevi, in massima parte epigrammi) in sette libri, che furono poi compresi pressoché immutati nell’Antologia Palatina. L’autore di quest’opera fu Costantino Cèfala, divenuto protopapa (cioè arciprete) del palazzo imperiale nel 917, durante il regno di Costantino VII Porfirogenito (che fu imperatore del 913 al 959 e fu egli stesso poeta e letterato).

In epoca successiva, il monaco bizantino Massimo Planude compilò a sua volta nel 1299 una nuova antologia (detta “Anthologia Planudea”), pure in sette libri e divisa per argomenti, conservata nella Biblioteca Marciana di Venezia, che contiene 2400 epigrammi, -dei quali una parte si ritrova nell’Antologia Palatina-, e che ebbe immensa fortuna fino a che non si conobbe la raccolta, più ampia e completa, scoperta da Salmasius. Spesso gli editori moderni, dall’800 in poi, hanno aggiunto gli epigrammi della “Planudea” non presenti nella “Palatina” in appendice a quest’ultima, con il titolo di “Appendix Planudea”.

Come abbiamo detto sopra, la raccolta è divisa in 15 libri (più l'”Appendix Planudea”, che ne costituisce un sedicesimo libro), ciascuno dei quali contiene epigrammi concernenti una determinata materia (epigrammi descrittivi, sentenziosi, votivi, ecfrastici -che descrivono un’opera d’arte-, funebri, ecc.); il quindicesimo libro è quello che contiene gli indovinelli e i problemi aritmetici, -nonché responsi della Pizia di Delfi e di altri oracoli- in versi, in numero di 150.

Riportiamo dunque alcuni degli indovinelli contenuti nel XV libro dell’Antologia Palatina:

1) di anonimo (XV, 5): “Sono figlio nero di un padre bianco, uccello senz’ali che vola fino alle nuvole del cielo;

faccio piangere senza dolore le pupille;

appena nato mi dissolvo nell’aria”. (il fumo).

2) di anonimo (XV, 22):”Il mio nome dirai se non parli.

Ma devi parlare? Anche parlando,

il mio nome (mirabile cosa) dirai”. (il silenzio)

3) di anonimo (XV, 103): “Se mi coglievi ragazza, sorbivi il mio sangue versato,

ora che, vecchia, mi ha stremato il tempo, mangiami tutta rugosa,

senz’ombra di liquido in corpo, spezzandomi le ossa e la carne insieme”. (l’uva passa).

4) di anonimo (XV, 108): Dentro non ho niente, e tutto è dentro di me.

A tutti regalo la bellezza del mio prodigio”. (lo specchio).

Il seguente indovinello consiste nell’incastrare una lettera in un’altra parola:

(Ant. Pal., XV, 20): “Metti un 100 (ρ’) nel mezzo del fuoco bruciante (δiα πυρòς):

ne ottieni il figlio e l’uccisore di una fanciulla (Πυρρoς)”.

Il significato dell’epigramma  si spiega tenendo conto che nell’antica Grecia i numeri si indicavano con le lettere dell’alfabeto (tra le quali tre non più usate nella scrittura in età classica, -stigma, coppa e sampi), a cui veniva aggiunto un apice a destra (ad esempio : 1=α’; 2=β’; 3=γ’). Per indicare le unità venivano impiegate le lettere dalla alfa (α’) -1- alla theta (θ’) -9-; per le decine le lettere dalla iota (ι’)-10 alla coppa -90-; le centinaia venivano espresse dalle lettere dalla rho (ρ’) -100- alla sampi -900-. Dal 1000 si ricominciava con le lettere dell’alfabeto, ma con l’apice posto in basso a destra: ,α (1000); ,β (2000); ,θ (9000); ,ι (10.000) e così via. Quindi per indicare quindi, ad esempio il 339 si scriveva: τλθ’, il 666 χξς’ (l’ultima lettera dovrebbe essere una “stigma”, non avendo però tale segno, ho usato un sigma finale, che è molto simile)(5).

E dunque inserendo una ρ (rho) nel mezzo della parola “πυρòς” (genitivo di πυρ) si ottiene Πυρρoς (Pirros), il nome del figlio di Achille e di Deidamia e uccisore di Polìssena, principessa troiana ultimogenita di Priamo e di Ecuba. Ricordiamo che la figura di Polissena non è menzionata nei poemi omerici; una prima redazione del mito del quale è protagonista appare nel poema ciclico “Le Ciprie” (6), risalente al VII a. C. La ritroviamo in seguito nelle tragedie “Le Troiane” ed “Ecuba” di Euripide. Questo mito è trattato poi da Ovidio in “Metamorfosi”, XIII, 429-571, e da altri autori più tardi, come il mitografo Igino (“Fabulae”, 110).

Achille si sarebbe invaghito di lei quando la scorse alla fonte sita alle porte di Troia (che era una sorta di zona franca dove si recavano ad approvvigionarsi sia i Troiani sia gli Achei) dove stava abbeverando i suoi cavalli, in attesa dell’arrivo di Tròilo, altro figlio di Priamo, al quale Polissena era assai affezionata, a cui meditava di tendere un agguato.

In altre fonti si narra invece che mentre Ecuba stava compiendo un sacrificio nel tempio di Apollo Timbreo, -che era anch’esso in territorio neutro-, sopraggiunse Achille, il quale alla vista della giovinetta se ne innamorò perdutamente. Per tanto inviò il suo auriga Automedonte da Ettore per sapere a quali condizioni avrebbe potuto impalmare Polissena, ricevendone in risposta che tale unione avrebbe potuto realizzarsi quando egli avesse consegnato l’accampamento acheo a Priamo. Achille però non accettò di tradire i suoi per coronare il suo sogno e così rinunciò al suo amore.

Secondo una tradizione, Polissena avrebbe ottenuto la restituzione del cadavere di Ettore, offrendosi come schiava di Achille; in un’altra versione del mito, Priamo aveva promesso la figlia in sposa all’eroe mirmidone a condizione che i Greci togliessero l’assedio a Troia. Polissena però non perdonava al suo futuro sposo di averle ucciso il fratello Tròilo, da lei teneramente amato; riuscì a strappare all’eroe il segreto della vulnerabilità del tallone e gli chiese di recarsi al tempio di Apollo Timbreo per formalizzare l’accordo con un solenne sacrificio. Allora, mentre Deifobo, -un altro dei figli di Priamo-, lo stringeva al petto con un finto abbraccio amichevole, Paride, che si era celato dietro il simulacro del dio, lo colpì al tallone con un dardo avvelenato.

Sopraggiunsero allora Ulisse, Aiace e Diomede, i quali, sospettando un possibile tradimento di Achille, l’avevano seguito al santuario. Achille morente supplicò i suoi compagni che, non appena Troia fosse stata conquistata, sacrificassero la fanciulla sulla sua tomba.

Dopo la sua morte, l’ombra di Achille apparve più volte in sogno a suo figlio Pirro (“il rosso”), -chiamato talora anche Neottolemo (“giovane guerriero” o forse più esattamente “combattente neofita”, -rispetto al padre-) -, minacciando di bloccare la flotta greca a Troia con venti contrari ove il suo desiderio non fosse stato esaudito. Si udì anche una voce gemente provenire dalla tomba dell’eroe, e uno spettro avvolto in una lucente armatura si parò sul promontorio Reteo, gridando: “Ve ne andate Achei, senza aver onorato il mio sepolcro?”. Fu così che l’infelice Polissena venne sacrificata ai mani dell’eroe mirmidone, di fronte all’esercito schierato, che si affrettò poi a darle onorevole sepoltura. Non appena fu compiuto questo mesto rito, subito si levò un vento favorevole che consentì alla flotta di salpare tosto.

Ma alcuni affermano che i Greci avevano già raggiunto la Tracia, allorché apparve lo spettro di Achille, e che dunque Polissena fu sacrificata in quel paese. Altri ancora asseriscono la principessa troiana si recasse di sua spontanea volontà presso la tomba di Achille e si trafisse su una spada per espiare la sua azione sleale (ovvero avergli estorto il segreto del tallone e averlo rivelato ai Troiani).

Altri indovinelli sono caratterizzati dalla particolarità di avere come oggetto tre o quattro parole dalla prima delle quali vengono successivamente sottratte delle lettere (ovvero di essere una sequenza di quelli che nell’enigmistica moderna vengono definiti “scarti”); di essi diamo due esempi:

A.P. XV, 105: “Io sono un animale terrestre. Se tu togli dal mio nome una lettera divento una parte del capo; se sottrai la seconda sarò un altro animale; se tiri via anche la terza, non sarò più solo, ma rappresento… duecento!” (rispettivamente βoυς -bue-; oυς -orecchio-; υς -maiale-; σ -la lettera sigma che come segno aritmetico rappresenta la cifra duecento-);

A.P. XV, 106: “Con le mie quattro lettere avanzo sulla strada; se detrai la prima, odo. Togli la seguente: mi scoprirai del limo amico; e se l’ultima sottrai, diventerò un avverbio di luogo” (la cui soluzione sono le parole: πoυς -piede-; ους -orecchio-; υς -maiale-; πoυ -dove-: in questo indovinello l’ultima parola si ottiene sottraendo la lettera non da quella immediatamente precedente, ma dalla prima -πoυς-).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) dal termine greco φθειρ, -ρος deriva l’italiano “ftiriasi” che indica gli eritemi e le irritazioni cutanee dovute alla presenza di pidocchi (sinonimo di “ftiriasi” è “pediculosi”).

2) non sono riuscito a stabilire con esattezza quale sia il nome attuale e scientifico di questi pesci, ma di certo sono di una specie appartenente alla famiglia degli Echineidi, la famiglia dell’ordine dei Discocefali, a cui appartiene la Remora ed altre specie simili.

3) questa donna, della quale non viene fatto il nome, non deve essere confusa con la ben più nota Dalila, la cui storia viene narrata in un episodio successivo (Giudici, XVI).

4) opera nella quale l’illustre filosofo neoplatonico commenta un passo dell’Odissea (XIII, 102-112) nella quale Ulisse tornato ad Itaca, condottovi dai Feaci, prima di recarsi alla sua dimora, si trattiene in una grotta consacrata alle Ninfe. Egli, in conformità con la sua interpretazione allegorica delle vicende dei poemi omerici e dei miti in generale, propone una lettura mistica di questo passo nel quale vede il ritorno dell’anima alle sfere celesti dopo un percorso di purificazione.

5) com’è noto il 666 è il famoso “numero della bestia” o “dell’Anticristo” (Apocalisse, XIII, 16-18). Tuttavia, essendo l'”Apocalisse di Giovanni” (attribuita all’apostolo ed evangelista, ma la cui paternità è in effetti controversa, date le cospicue differenze linguistiche, stilistiche e dottrinali che la differenziano dal “Vangelo”) scritta in greco, questo numero è espresso nelle forma che abbiamo indicato, e non certo con le cifre arabe come si vede in certi film del genere “apocalittico-escatologico” (come “La maledizione di Damien” film del 1978 del regista Don Taylor) che si ispirano a testi neotestamentari canonici o apocrifi in modo ridicolmente superficiale e puerile. Con una certa fantasia, alcuni vedono nelle tre lettere greche che compongo il “666” (χξς) un simbolo dell’anticristo, poiché la χ e la ς sarebbero la lettera iniziale e finale di Χρισθoς, mentre la ξ centrale, la quale dovrebbe riprodurre le spire di un serpente, dovrebbe il ribaltamento del significato del nome e dunque “anti-cristo”.

6) i “poemi ciclici” sono quelli che trattano altri eventi ed episodi della guerra di Troia che non compaiono nell’Iliade.

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