ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI (terza parte)

IL PARADOSSO DEL COCCODRILLO

Nella sua “Vita e opinioni dei filosofi illustri”, che abbiamo più volte citato, Diogene Laerzio narra la seguente storia, che egli attribuisce agli stoici (1).

Un giorno un coccodrillo ghermì con le sue robuste mascelle un bambino che stava giocando sulle rive del Nilo. La madre del bimbo, che si trovava nei pressi e aveva assistito al triste evento, implorò il rettile di restituirle il figlio. Il coccodrillo, per non avere rimorsi e piangere dopo il pasto, come sembra sia costume dei coccodrilli, propose alla donna un accordo: se avesse indovinato che cosa avesse fatto del bambino glielo avrebbe restituito; se invece non avesse indovinato, l’avrebbe divorato per pranzo.

“Oh, -disse la madre piangendo disperata- tu divorerai il mio bambino, ecco quello che vuoi fare!”. L’astuto coccodrillo ribattè: “Non posso ridarti tua figlio, perché, se te lo renderò, farò sì che tu abbia detto il falso, e in tal caso ti avevo promesso che l’avrei mangiato”. “E’ esattamente il contrario! -replicò la madre- non puoi mangiare il mio bambino, perché, se lo divori, io avrò detto la verità e mi avevi promesso che se avessi indovinato quel che avresti fatto mi avresti restituito mio figlio. So che sei un coccodrillo d’onore e che manterrai la parola data”.2mpfz8o

In altre parole, se la donna avesse indovinato e il coccodrillo avesse mangiato il bambino, è evidente che non avrebbe potuto restituirlo. Per fare questo deve risparmiarlo, ma in tal caso non si sarà avverata la previsione della madre; per cui non potrà realizzarsi alcuna delle alternative, poiché sia in un caso che nell’altro la promessa non potrà essere mantenuta.

Nella seconda parte della sua “Symbolic Logic”, L. D. Carroll propone una soluzione pratica al dilemma del coccodrillo:

“Qualunque cosa decida di fare, il coccodrillo non potrà mantenere la parola data: se divora il bimbo, la madre avrà detto la verità, ma così è evidente che non potrà tenere fede alla promessa; se lo restituisce, ne deriva che quanto detto dalla madre sia falso, e anche in questo caso la promessa non potrà essere mantenuta. Non avendo speranza di salvare il suo onore, è probabile che si comporterà seguendo la sua seconda passione: l’amore per i bambini!”

Carroll propose ai suoi lettori di tentare di risolvere il dilemma, nel caso che la prima risposta della madre fosse stata. “Mi ridarai il bambino”. In questa eventualità, se il coccodrillo restituirà il bambino, avrà mantenuto la sua parola; se lo divora, allora la madre avrà detto il falso e anche così il coccodrillo avrà rispettato l’accordo. Peraltro molti logici contemporanei di Carroll ritennero che il dilemma del coccodrillo fosse insolubile.

IL PARADOSSO DI PROTAGORA (o dell’avvocato)

Aulo Gellio, -in “Noctes Atticae”, V, 10-, narra il seguente aneddoto, -al quale si fa peraltro cenno anche in un passo di Diogene Laerzio-, a proposito “degli argomenti che i Greci chiamano “antistrèphonta” e che da noi furono detti “reciproca”.

“Questo errore si verifica allorché un argomento proposto può essere ritorto e usato contro colui che intendeva avvalersene e mostra di avere valore sia in un senso che nell’altro.

Tale è quello, assai noto, di cui dicono si sia servito Protàgora, il più acuto dei sofisti, contro Evatlo, suo discepolo. Tra di essi infatti nacque una controversia sul compenso pattuito.

Evatlo, giovane abbiente, desiderando essere istruito nell’eloquenza e nell’arte di discutere le cause, si rivolse a Protagora e gli promise quale mercede la cospicua somma di denaro, che maestro aveva richiesto; gliene diede la metà prima che le lezioni avessero inizio e si impegnò a versargli il rimanente nel giorno che avesse discusso e vinto la sua prima causa davanti ai giudici

Ma pur avendo seguito a lungo gli insegnamenti di Protàgora e avendo fatto ammirevoli progressi nell’arte oratoria, non si gli si presentava mai alcuna causa; e poiché era trascorso ormai alquanto tempo, sembrava che questo a bella posta facesse, per non saldare il suo debito.

Allora Protagora escogitò una trovata che gli parve astuta: si risolve a chiedere il versamento del compenso secondo il patto stabilito ed intentò una causa ad Evatlo.

Ritratto di Protagora.
Ritratto di Protagora.

Quando si recarono davanti ai giudici per discutere la causa, Protegora esordì in tal  modo: -Sappi, o stoltissimo giovane, che dovrai versarmi quanto chiedo, sia il tribunale si pronunci contro di te, sia in tuo favore.

Infatti, se il giudice ti darà torto, tu dovrai darmi la mercede che mi spetta per effetto della sentenza; se invece ti verrà data ragione, mi dovrai ugualmente pagare, stanti i termini del nostro patto, avendo vinto la tua prima causa-.

A queste parole così rispose Evatlo: -Potrei facilmente salvarmi dalla tua trappola facendomi patrocinare da un avvocato. Ma proverò maggior soddisfazione nel vincerti non soltanto nella causa, ma anche nel tuo stesso argomento.

Impara dunque anche tu, sapientissimo maestro, che in nessun modo otterrai da me quanto chiedi, sia la sentenza me contraria, ovvero sia a mio favore. Infatti se i giudici avranno deciso in modo a me favorevole, nulla ti sarà dovuto per la loro sentenza; se al contrario, questa sarà contro di me, niente ti dovrò secondo il nostro patto, non avendo vinto la mia prima causa-.

Allora i giudici, considerando che entrambe le possibili sentenze del caso fossero incerte e di difficile determinazione, poiché qualunque fosse la decisione presa poteva annullarsi da sé stessa, rinviarono la causa ad un lontano futuro.

Così un famoso maestro di eloquenza fu sconfitto da un giovane discepolo con il suo stesso argomento e rimase invischiato nella trappola che aveva scaltramente ideato” (2).

IL PARADOSSO DEL BARBIERE (o di Russell)

Il paradosso del barbiere fu inventato dal celebre filosofo e matematico Bertrand Russell (1872-1970) nel 1918 per rendere attraverso una situazione concreta un’antinomia sugli insiemi da lui scoperta nel 1901.

In una cittadina vi è un solo barbiere, sempre ben sbarbato, il quale rade tutti e unicamente gli uomini che non si radono da soli. Considerando che egli è sempre ben sbarbato, se è lui a radere sé stesso, allora deve appartenere alla categoria degli uomini che radono sé stessi; ma se non rade mai una persona che rientri in questo insieme, -di coloro che radono sé stessi-, non potrà radere sé stesso.

Se si fa radere da qualcun altro, allora il barbiere non rade sé stesso; ma questi rade tutti gli uomini che non radono sé stessi, quindi nessun altro può radere il barbiere…

Fumetto che illustra il paradosso di Russell.
Fumetto che illustra il paradosso di Russell.

Se il paradosso viene ridotto in termini più semplici e schematici, risulta evidente che nella cittadina esistono due insiemi di persone: coloro che si radono da soli e coloro che non si radono da soli e dunque si fanno radere dal barbiere. A quale gruppo appartiene il barbiere? Di fatto quest’ultimo non sembra rientrare in alcuno dei due insiemi, poiché dalla sua presenza e attività deriverebbe la conclusione contraddittoria per la quale egli rade sé stesso, ma solo se non si rade… In effetti come ebbe a osservare il filosofo americano Willard van Orman Quine (1908-2000), il paradosso del barbiere dovrebbe condurre alla conseguenza che questo fantomatico barbiere non può esistere ed appare dunque un caso di “reductio ad absurdum”.

Tuttavia, come abbiamo accennato sopra, il paradosso del barbiere riformula in modo più comprensibile e in termini concreti un altro paradosso sugli insiemi ideato da Russell alcuni prima , quello dell’insieme di tutti gli insiemi che contengono sé stessi come propri elementi: l’insieme di tutte le cose che non sono mele, per esempio, non può essere a sua vota una mela, che sarebbe un elemento di sé stesso.

Russell per la formulazione del suo paradosso partì dall’idea corrente che per ciascuna proprietà specifica ipotizzabile in un ente esista un insieme corrispondente; ovvero che un insieme venga costruito precisando una qualità o una condizione necessaria e sufficiente per appartenere a tale insieme. Se considerassimo ad esempio i requisiti che dovrebbe avere un corpo per essere un satellite naturale della Terra nel 1000 a. C., dovremmo constatare che un solo elemento possiede tali caratteristiche e può dunque essere classificato come appartenente all’insieme “satelliti naturali della Terra nel 1000 a. C.”; se poi volessimo definire l’insieme dei “satelliti artificiali della Terra nel 1000 a. C.”, troveremmo un insieme vuoto, un insieme privo di elementi, ma che è pur sempre un insieme: un insieme vuoto (così che per qualunque caratteristica che si possa concepire, anche impossibile o irreale si può costruire un insieme).

L’antinomia di Russell prende in considerazione la possibilità dell’appartenenza di un insieme a sé stesso; ma un insieme nel suo complesso non si può ritenere un elemento facente parte dell’insieme stesso; ad esempio l’insieme dei satelliti artificiali che ruotano intorno al nostro pianeta non è un elemento di sé stesso, perché, considerato in quanto tale, ovvero come insieme, non ruota anch’esso intorno alla Terra: in altri termini un insieme che comprende un gruppo di enti non può di per sé, in quanto insieme, rientrare nel novero degli elementi che comprende ed essere assimilato ad essi; al limite si potrebbe affermare che un insieme fa parte dell’insieme degli insiemi.

Neppure l’insieme di tutti i libri di logica è membro di sé stesso: non ha pagine, non ha testo, non ha rilegatura né prezzo. Il fatto che gli insiemi di oggetti non contengano sé stessi come elementi non significa però che non possano esistere degli insiemi membri di sé stessi. Si ponga mente ad esempio all’insieme di tutti gli insiemi di cui fanno parte più di dieci elementi: esso contiene indubbiamente un elevatissimo numero di insiemi (e di sottoinsiemi): l’insieme di tutti i satelliti artificiali, di tutti i libri di logica, di tutti i Felidi, di tutti i Fatti, di tutti i Cani, di tutte le specie di Uccelli, di tutti gli Uccelli come singoli individui, di tutte le Cicogne, di tutti i Fiori, e via dicendo. Dunque è pacifico che l’insieme di tutti gli insiemi contenenti più di dieci elementi comprende esso stesso ben più di dieci elementi ed è pertanto membro di sé stesso: ed in effetti se l’insieme di tutti gli insiemi che hanno un’estensione maggiore di dieci elementi non comprendesse pure sé stesso, non sarebbe completo perché non sarebbe l’insieme di TUTTI gli insiemi con più di dieci elementi.fumetto-paradosso-del-barbiere-2

Torniamo ora a considerare gli insiemi che NON sono membri di sé stessi (l’insieme dei satelliti artificiali, l’i. dei libri di logica, l’i. dei libri di storia dell’arte, ecc.): l’insieme degli insiemi che non sono elementi di sé stessi comprende a sua volta sé stesso? Poniamo che sia X = INSIEME DEGLI INSIEMI CHE NON SONO MEMBRI DI SE’ STESSI. Se affermiamo che X è membro di X (cioè di sé stesso), l’asserzione risulta contraddittoria poiché per definizione X è l’insieme degli insiemi che NON  contengono sé stessi; se supponiamo al contrario che X non sia elemento di X, allora, sempre per definizione, diventa membro di sé stesso, poiché l’insieme X comprende TUTTI gli insiemi che non sono elementi si sé stessi. Procedendo con questo ragionamento, si giunge così a una contraddizione insolubile.

Per la soluzione che propose del paradosso che aveva escogitato, Russell confutò il principio di astrazione che sta a fondamento dell’insiemistica. Egli giunse alla conclusione che l’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di sé stessi NON è un insieme. l’insigne filosofo e matematico ritenne inaccettabile il presupposto che esista un insieme corrispondente ad ogni predicato, ovvero che enunciando una proprietà o una caratteristica debba necessariamente esistere un insieme i cui membri le possiedono (tanto più che considerando e analizzando anche le più piccole e sfumate qualità si giungerebbe a un numero pressoché infinito di insiemi). Russell giudicò privi di significato i predicati da cui derivino conseguenze contraddittorie. Come ebbe già a osservare van Quine, il semplice tentativo di definire un insieme non autorizza di per sé ad ammettere l’esistenza dell’insieme stesso, ma solo a presupporre la possibilità, o l’eventualità, della sua esistenza. Tuttavia le condizioni e le caratteristiche che definiscono un insieme non possono essere contraddittorie.

Sono stati peraltro ipotizzate altre vie per risolvere la contraddizione insita nel paradosso di Russell, una delle quali comporta la costruzione teorica di insiemi non sulla base della logica classica, -e in particolare sul principio del “terzo escluso” (o vero o falso)- di una logica a più valori, o più livelli (come la “logica sfumata” di Zadeh di cui riparleremo più avanti), nella quale la negazione assume un significato diverso da quello tradizionale, ed è quindi possibile per un insieme sia essere un elemento di sé stesso, sia non esserlo.

E’ evidente che le contraddizioni insite nei paradossi che abbiamo illustrato (ed in altri anche più complessi di cui facciamo cenno) non sono “in re”, ma “in verbis” e mettono in luce la difficoltà, se non l’impossibilità, non solo del linguaggio umano, i cui limiti, sia mentali-strutturali sia psicologici, sono evidenti, ma pure della logica di stabilire relazioni chiare, univoche e universalmente valide tra gli enti, e di poter descrivere o cogliere una realtà che non si lascia catturare dalle strutture logiche, siano esse linguistiche, sia formali-matematiche.

Dobbiamo osservare che secondo alcuni indirizzi della logica moderna, e in particolare, la “Logica sfumata” o “L. sfocata”, ipotizzata dal matematico statunitense di origine iraniana Lofti Asker Zadeh (1921), esistono diversi gradi di “verità” (e di “falsità”), per cui un’affermazione il più delle volte non è del tutto vera o del tutto falsa, ma contemporaneamente in parte vera e in parta falsa, ovvero presenta diversi gradi di verità (e di falsità), -che secondo questa corrente si può valutare entro una scala da 0 (completamente falso) a 10 (assolutamente vero), che esprime il “grado di verità” o “valore di appartenenza”-.

Se ad esempio affermiamo: “Gli antichi Egizi furono grandi costruttori di monumenti”, questa proposizione si può considerare vera o falsa? E’ ovvio che se intendessimo sostenere che TUTTI gli Egizi indistintamente fossero grandi costruttori, la proposizione è falsa; se invece vogliamo significare che lo furono alcuni di essi è vera; in particolare poi con una affermazione di tale genere si vuole affermare che l’antica civiltà egizia espresse dei mirabili edificatori di grandiosi monumenti, e non dare un giudizio categorico sui singoli individui.

Risulta altrettanto evidente che la verità o meno di una tesi è spesso solo una questione di punti di vista, e dei criteri che si assumono per determinare la veridicità o la falsità di una affermazione. D’altro canto anche il criterio con il quale viene giudicata l’attendibilità e la corrispondenza reale di una proposizione è di solito, specie nel discorso comune, impreciso e approssimativo, non “scientifico”, del tutto soggettivo, per cui il fatto che un’asserzione sia verità o menzogna deriva dalla convinzione personale e dall’intenzione di chi la pronuncia. Un enunciato come “L’America è lontana”, può essere giudicata vera o falsa, poiché si deve considerare sia il luogo o il punto dal quale si predica sia lontana l’America, sia l’idea di “lontananza” di colui che pronuncia tale asserzione.

Se qualcuno asserisce una proposizione falsa, ma credendo che sia vera -sia perché gli è stata presentata come vera da una fonte per lui autorevole, sia perché ne ha dato un’interpretazione errata-, proferisce una menzogna o no? Senza contare il fatto che quando un’asserzione, positiva o negativa, è riferita al futuro non può essere ritenuta “vera” in senso assoluto, poiché un evento che deve ancora realizzarsi di per sé non può mai essere considerato certo, e quindi vero (a meno che non abbia carattere di necessità, caso che riguarda i principi fisico-chimici, come avremo modo di vedere meglio in seguito).

Secondo la metafisica classica per quanto riguarda il futuro possono aversi tre casi: necessità, possibilità ed eventualità -o contingenza-.

Un evento è ritenuto necessario se non può non accadere se si verifichino certe condizioni, o che deve avvenire, o essere provocato, affinché ne conseguano determinati effetti -nel campo della fisica-; ovvero, -nel campo della logica- se il suo contrario risulta inammissibile secondo il principio aristotelico di contraddizione. In pratica necessari sono gli eventi che si realizzano secondo la fisica e che pertanto vengono considerati certi prima cha accadano (come che l’acqua bolla a cento gradi o che un oggetto gettato dall’alto cada verso il basso).

Possibile è un evento che si accorda con le condizioni formali o ipotetiche che ne permettono l’esistenza, mentre è reale il fatto che si accorda e presuppone non soltanto le condizioni formali o ipotetiche, ma pure quelle effettive. E dunque una cosa o un fatto reale è sempre possibile, ma una cosa possibile non è sempre reale; un evento necessario è sempre anche possibile, ma un evento possibile non è sempre necessario, anzi il più delle volte non lo è. La “possibilità” si può considerare entro certi limiti coincidente con la “potenza” in senso aristotelico.

Contingente (o “eventuale”) è invece il fatto o la cosa che in nessun caso si possa considerare necessaria, ovvero quando le condizioni che ne presuppongono l’esistenza sono del tutto aleatorie, -come ad esempio il fatto che in un certo momento stia piovendo-.

In pratica potremmo definire possibile la cosa o l’evento che dipenda dalla scelta di un soggetto, il necessario e il contingente qualcosa che non dipende dall’azione di un soggetto, sebbene questi ne possa indirettamente influenzare il verificarsi (ad esempio potrei lanciare un oggetto dalla finestra e in tal modo l’evento, – la caduta-, necessario per sua natura, diviene possibile per la mia scelta di effettuare il lancio).

Potremmo affermare che la necessità è propria per eccellenza degli eventi fisici, sia in senso assoluto (“domani sorgerà il Sole”), sia in senso condizionato (“se si mette una pentola piena d’acqua sul fuoco, l’acqua comincerà a bollire”). In una concezione empiristica si potrebbe dire che la necessità dell’evento futuro e quindi la sua prevedibilità pressoché assoluta dipende dall’esperienza pratica: di fatto a eventi come quelli citati sopra come esempi non vi sono mai state eccezioni, per cui si può ragionevolmente supporre che anche nel futuro avverrà in tal modo; tuttavia non si può escludere con assoluta certezza che non vi saranno eccezioni.

Nella visione razionalistica invece gli eventi fisici sono causati da una relazione necessitante e deterministica espressa in termini matematici in quelle che sono definite “leggi della fisica”.

Un enunciato come SOCRATE E’ MORTALE non può a rigore essere considerato certo, poiché anche se il verbo è coniugato al presente, significa in sostanza SOCRATE PRIMA O POI CERTAMENTE MORIRA’, ed è quindi riferito al futuro: l’esperienza insegna che mai nessun essere vivente è vissuto oltre un determinato limite, la biologia afferma che qualunque organismo vivente è comunque destinato a degenerare e perire, -se la sua esistenza non viene bruscamente interrotta per cause traumatiche-… Tuttavia su un piano strettamente logico, non si dovrebbe avere la totale e assoluta certezza che un essere vivente è mortale, fino che a che non sia effettivamente morto.

Nella teoria della “logica sfumata”, che peraltro sviluppa la teoria classica degli insiemi formulata da Cantor, non valgono più i fondamentali principi della logica aristotelica, cioè quelli di non contraddizione e del terzo escluso, che, trasferiti nell’insiemistica postulano che un elemento appartenente ad un insieme A non può appartenere nel contempo pure all’insieme dei non-A. Al contrario, secondo Zadeh e i suoi discepoli un elemento può appartenere contemporaneamente a quello che esprime una qualità e a quello che esprime la qualità contraria od opposta, poiché l’elemento può possedere, sia pure in grado diverso, entrambe le caratteristiche (e bianco e nero; e piccolo e grande; e loquace e taciturno; ecc.), sia perché esse possono essere compresenti nell’elemento, -magari in momenti o in parti diverse-, sia per il valore relativo del termine che significa tali qualità, in base al “valore di appartenenza”. quindi non esistono un “vero” e un “falso” in assoluto, ma soltanto una gradazione tra di essi, come di qualsivoglia qualità, secondo il punto di vista e i criteri di giudizio dell’osservatore.

Da questo modo di intendere la logica deriva pure che non esistono le categorie nettamente differenziate e le dicotomie inconciliabili sulle quali si fonda la percezione del reale quale è comunemente intesa; o meglio queste categorie hanno una realtà puramente mentale e soggettiva; sono sì utili per non dire indispensabili per avere un punto di riferimento nel tentativo di comprendere il reale, ma si deve sempre essere consci del loro carattere relativo e convenzionale, altrimenti anziché essere di aiuto saranno di ostacolo alla comprensione del mondo, e soprattutto di sé stessi.

Ove ad esempio si dica: “Ada ama molto la musica lirica”, l’estensione di questa proposizione può andare dal completamente vero (Ada adora la musica lirica, non potrebbe farne a meno) al totalmente falso (Ada non sopporta la musica lirica), con un’ampia gamma di sfumature intermedie (ad esempio Ada potrebbe amare certe opere e poco o per nulla altre) per cui la proposizione può essere in parte vera e in parte falsa nel medesimo tempo.

Allo stesso modo se dico “Arianna vuole bene al suo cane” tra la completa dedizione e la freddezza, e quindi tra la verità assoluta e la totale falsità, vi saranno diversi gradi di affetto.

Se invece affermo “Caterina ama il suo gatto” e Caterina in realtà non ha un gatto, questa proposizione non sarebbe né vera né falsa. E così pure la proposizione “L’automobile di Paolo è rossa”, quando Paolo non possieda alcuna automobile, non è vera ma neppure falsa. In effetti una proposizione come questa ne presuppone un’altra, ovvero “Paolo ha un’automobile”, questa senza dubbio falsa; ma poiché, come proclama un aforisma della logica scolastica medioevale, “e falso quodlibet sequitur”, (dal falso si può dedurre qualsiasi cosa), -che non sarà ovviamente vera ma neppure falsa in sé stessa-, dell’automobile (inesistente) di Paolo si potrà predicare qualunque cosa: che è rossa, blu, vecchia, nuova, che è una Fiat, una Ferrari, e così via.

Diverso ancora è il caso di una proposizione come “Pegaso è un cavallo alato”: qui si prèdica di Pegaso una caratteristica (l’essere alato) che non è propria dei cavalli, e dunque a prima vista l’asserzione potrebbe sembrare falsa. Ma in effetti facendo una simile affermazione si sottintende che essa sia circoscritta a un determinato ambito (la mitologia greca), entro il quale essa è vera, come il dire che Artemide era figlia di Latona.

Una rivoluzione al carattere deterministico impresso alla scienza fisica dalla concezione galileiana e cartesiana è stata portata agli inizi del 900 dall’avvento della “meccanica quantistica”.

Secondo le teorie elaborate da scienziati quali Max Planck, Louis de Broglie ed altri, le particelle che compongono gli atomi -e che quindi sono il sostrato della materia-, sono costituite da minuscoli punti energetici, che sono stati chiamati “quanti”, i quali mostrano di avere nello stesso tempo natura ondulatoria e corpuscolare. L’aspetto più innovatore della meccanica quantistica è il fatto che gli elementi basilari della materia abbiano di norma il carattere di onda (come le onde luminose, sonore, ecc.), ma alla vista di un osservatore assumano il comportamento di corpuscoli: quindi vi è nei quanti non solo la compresenza di due nature prima concepite come diverse ed opposte, ma queste nature vengono influenzate da una eventuale osservazione.fisica_nuovi_mondi Allorché uno scienziato effettua un’osservazione dell’atomo per scoprire dove si trovi il quanto di energia, esso comparirà proprio nel punto dove sta guardando l’osservatore. gli scienziati affermano che allora la sua funzione è “collassata”, ossia che la sua localizzazione spaziale, anziché essere distribuita in tutta l’orbita intorno al nucleo dell’atomo, si è stabilizzata in quel punto specifico.

Un altro dei postulati della fisica quantistica asserisce che non si può conoscere la velocità e la collocazione di un quanto di energia, poiché quanto maggiore è l’accuratezza nel cercare di determinarne la posizione, tanto minore è la precisione con la quale è possibile accertarne la velocità; ovvero, detto in altri termini, non si può determinare con esattezza il moto e insieme la posizione di una particella poiché già il fatto di osservarla la modifica. Questa proprietà è nota come “principio di indeterminazione di Heisenberg”, -dal nome del fisico tedesco Werner Heisenberg (1901-1976) che lo formulò nel 1927-.

L'”indeterminazione di Heisenberg” non dipende dai limiti degli strumenti di misurazione, ma è una caratteristica intrinseca della materia. Da questo principio deriva non solo che non si può conoscere con esattezza la posizione della particella (poiché quella che può venire osservata è solo una tra le molte possibili), ma che essa potrebbe trovarsi contemporaneamente in diversi punti (secondo quanto è stato assodato da alcuni esperimenti addirittura più di 3.000).

Secondo l’ultimo dei principi fondamentali della meccanica quantistica, se si accostano due quanti per un certo periodo ed essi vengono poi separati (non saprei in qual modo, trattandosi di entità così piccole, inafferrabili e sfuggenti), quando uno dei due subisce una sollecitazione, pure nell’altro si manifestano gli effetti di tale sollecitazione.

In sintesi dunque: le particelle atomiche non sono solide e possono presentarsi sia come onde (quando non vengano osservate), sia come corpuscoli, se osservate -e in tal caso la meccanica quantistica afferma che la particella “collassa”-: pertanto sembra che esista una connessione intrinseca tra soggetto osservante e oggetto osservato, che non sarebbero dunque due entità separate e “neutrali”, come vuole la fisica classica, poichè in qualche modo l'”oggetto” è determinato o modificato dal soggetto che lo conosce per il fatto stesso di essere percepito; in natura non esiste lo spazio vuoto, quello che viene concepito come “vuoto” è in realtà un campo saturo di energia sottile; le particelle non si spostano da un luogo all’altro nello spazio, ma scompaiono e riappaiono in un altro luogo simultaneamente (o per meglio dire, il concetto di “spazio” come noi lo intendiamo è proprio solo del mondo macroscopico super atomico e non di quello subatomico, dove spazio e tempo non esistono nel senso che diamo di solito a tali termini). Viene così superato in via definitiva non solo il dualismo materia-energia, ma pure quello tra “onda” e “corpuscolo” ( “particella”), che in pratica vengono a identificarsi come forme transeunti, per non dire apparenti, di un’unica energia vibratoria che costituisce l’Universo. Da tali presupposti deriva che viene a ridursi enormemente, anzi a sparire, il carattere della “necessità” di un evento, e per converso ad ampliarsi quello del “possibile” (al limite si potrebbe dire che qualsiasi cosa diventa possibile). Per tale ragione la fisica quantistica viene definita “probabilistica”, a differenza della fisica classica che è deterministica (o meccanicistica).

Da questa nuova concezione dell’Universo e dell’energia, alcuni hanno dedotto che si potesse giustificare e dimostrare la possibilità di una influenza o azione diretta della mente sulla materia. In effetti però le teorie elaborate dai fisici quali Planck, Bohr, de Broglie, Heisemberg riguardano solo il modo subatomico e non le aggregazioni molecolari che costituiscono i fenomeni che ricadono sotto i nostri sensi e dei quali abbiamo diretta esperienza, per i quali valgono tuttora i principi della fisica classica. Attribuire le relazioni esistenti tra le particelle subatomiche agli enti fisici molecolari sarebbe un’inferenza arbitraria, poiché per dimostrare in modo scientifico, sia pure in determinate circostanze, l’esistenza di una interazione diretta tra la mente del soggetto pensante e il mondo materiale si deve percorrere ancora molta strada, e dunque fenomeni quali il teletrasporto e la bilocazione, resuscitare i morti, e simili meraviglie, sono ancora mete irraggiungibili (3). Se da un punto di vista di filosofico si può senza dubbio ammettere l’identità tra Io e non-Io (o meglio vedere quest’ultimo come una proiezione o un’espansione dell’IO), da un punto di vista fisico tale identità non è stata ancora dimostrata.

Tuttavia la meccanica quantistica sembrerebbe aver trovato l’anello di congiunzione tra “fisica” e “metafisica”, e riempito lo iato tra “materia” e “spirito”, introducendo un’idea di “materia” (o meglio “materia-energia”) che sembra avvicinarsi a quella di “materia sottile” (eterica, psichica, mentale) ipotizzata sinora solo dai filosofi esoteristi.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) l’esposizione di questo paradosso dovrebbe trovarsi nel libro VII, dove Diogene Laerzio tratta degli stoici, riassumendo anche le loro dottrine, ma nonostante le mie ricerche e i miei sforzi non sono riuscito a trovarlo. In alcune versioni dell’aneddoto da me trovate si parla di una bambina, anziché di un bambino.

2) precisiamo che in un caso del genere, secondo il vigente Codice Civile italiano, Evatlo avrebbe perso la causa e sarebbe stato condannato a saldare il suo debito nei confronti di Protagora. Questo ai sensi degli articoli 1353-1361, che disciplinano le condizioni dei contratti, in particolare l’art. 1355, che recita “è nulla … l’assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell’alienante o… del debitore”: pertanto la condizione che caratterizzava l’accordo tra Protagora ed Evatlo sarebbe stata annullata.

3) che peraltro molti indizi ed eventi lasciano supporre: basterebbe pensare al famoso “effetto placebo”, dovuto all’impiego di sostanze prive di effetto terapeutico, le quali però fanno guarire o comunque migliorare le condizioni di un malato ove questi sia convinto che gli arrechino giovamento. In effetti è innegabile la grande potenza del pensiero, e della suggestione che plasma il mondo materiale, che non è un’illusione, ma una realtà.

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