L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -sesta parte- (anima, intelletto, logos)

Il misterioso straniero proveniente dall’altrettanto misteriosa “terra incognita” che si trova al di là dell’Oceano, e che appare quindi in una dimensione extra-umana, ai limiti del mondo ultra-terreno, espone allora a Silla una teoria psicologica ed escatologica che riprende in parte quella che Plutarco aveva enunciato nel “De genio Socratis” e che abbiamo visto in precedenza.

Egli asserisce che l’uomo consta di tre parti, -corpo (soma), anima (psiche) e intelletto (nous)-, la prima delle quali deriva dalla Terra, la seconda dalla Luna e la terza dal Sole; come la Luna riflette lo splendore irradiato dal Sole, così l’anima è illuminata dalla luce dell’intelletto. E poiché Luna e Sole sono rispettivamente dimora dei demoni (intesi sia quali entità spirituali intermedie sia quali parti superiori delle anime umane) e delle divinità, così anima e intelletto hanno relazione e sono dipendenti dagli esseri superni che li abitano; dopo la morte ciascuna parte torna alla sua sede e all’elemento cosmico dal quale deriva e di cui condivide la natura: il corpo alla Terra, l’anima alla Luna, l’intelletto al Sole.

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Con il processo definito “morte” le tre parti si separano: nella regione di Demetra, ossia sulla Terra, avviene la separazione tra il corpo e l’anima, che è spesso dolorosa e traumatica; nella regione di Persefone, ovvero la Luna, avviene invece la scissione tra l’anima e l’intelletto, che è un processo assai più graduale, che si compie in modo quasi insensibile.

Tutte le anime disincarnate per decreto del fato sono tenute a errare per un certo lasso di tempo nella regione situata tra la Terra e la Luna; ma questo periodo di esilio ha ineguali caratteristiche per le diverse anime: le anime ingiuste e viziose vi scontano la pena per i loro peccati, mentre quelle dei virtuosi permangono nella regione più pura e luminosa di questo spazio celeste, -detta “il giardino di Ade”-, fino a che non  si siano completamente purificate dalle macchie provocate dal contatto con il corpo terrestre. Allorché abbiano terminato il tempo dell’espiazione, esse, come richiamate da un lungo e penoso esilio, tornano alla loro patria celeste e vi assaporano una letizia mista a un sentimento di turbamento, simile a quella di coloro che si accostano ai misteri religiosi.

Tuttavia molte, nonostante la loro impazienza, non riescono a raggiungere immediatamente la loro dimora definitiva e vengono respinte dalla Luna. Ma quando giungono alla loro meta, come i vincitori dei giochi atletici, esse ricevono delle corone, per significare che durante la loro esistenza terrena sono riuscite a sottomettere al freno della ragione gli impulsi oscuri e irrazionali; poi si uniscono a un raggio di Sole e infine, dopo essere state rinfrancate dall’atmosfera che circonda la Luna, acquistano sempre più vigore, come il ferro che viene temprato. Là le anime contemplano la grandezza e la bellezza della Luna e ne comprendono la natura che partecipa insieme di quella del Cielo e quella della Terra.

L’enigmatico sapiente di cui Silla riferisce le rivelazioni sottolinea che le dimensioni della Luna sono assai più considerevoli di quanto non risulti agli astronomi; se ella solo poche volta viene intercettata nell’ombra della Terra, questo è dovuto al fatto che affretta il suo moto, onde attraversare il più velocemente possibile lo spazio tenebroso che atterrisce le anime virtuose che trasporta su di sé, poiché in esso non percepiscono l’armonia celeste. Ma pure le anime dei malvagi dimoranti nell’emisfero inferiore, ove subiscono il giusto castigo, gridano e si lamentano nell’attraversare la zona d’ombra.

Come sulla Terra, anche sulla Luna vi sono mari, valli e cavità (1), delle quali ultime la più grande e profonda è detta “voragine di Ecate”: è qui che le anime sono punite per i loro peccati. Altre due, più ristrette, servono per il transito delle anime: una conduce dalla Luna al Cielo e l’altra si dirige verso la Terra. La faccia della Luna rivolta verso il Cielo si chiama “campi Elisi”, mentre quella che guarda la Terra prende il nome di “pianura di Persefone”.luna_faccia

I demoni non risiedono sempre sulla Luna: talora scendono sulla Terra  per prendersi cura degli oracoli e assistere alle cerimonie religiose; sorvegliano i cattivi e si sforzano di preservare gli onesti dai pericoli delle guerre e dalle disgrazie naturali. Ma pure essi non sono immuni da colpe e possono commettere degli errori, -a causa della collera, dell’invidia o per aver concesso alcun ingiustificato favore-: in tal caso anch’essi devono espiare le azioni riprovevoli con l’esilio sulla Terra, dove si incarnano in corpi umani. Al novero dei più elevati di questi demoni appartenevano quelli che costituivano la corte di Crono, i Dattili Idei in Creta, i Coribanti di Cibele in Frigia e molti altri sparsi in diverse regioni del nostro pianeta.

Ma i poteri soprannaturali che alcuni di essi avevano sulla Terra sono venuti meno ed essi sono stati trasportati in altri luoghi, quando il loro intelletto si è separato dall’anima (evento che prima o poi arriva per tutti); tale separazione è dovuta all’intenso anelare verso lo splendore del Sole, riflesso della bellezza divina, sorgente di qualunque vera felicità, e alla quale tutti gli esseri che compongono la natura si volgono, sebbene con modalità differenti. La Luna stessa gira in continuazione mossa dal desiderio di unirsi al Sole per ricevere la sua potenza fecondatrice.

Ma l’intima natura (phisis) dell’anima rimane sull’astro argenteo, dove peraltro ella conserva alcune immagini e impronte delle sensazioni che provò nella vita trascorsa; ella s’invola a poco a poco nel Cielo, e, per così dire, svanisce come sogno. Pertanto ella comincia a rendersi conto della sua nuova condizione non subito dopo il distacco dal corpo fisico, ma in seguito, allorchè comincia a sentirsi sola e abbandonata, e come privata di una parte di sé. Ed in effetti la nostra essenza, il nostro vero “Io” non sono le emozioni, i sentimenti, non l’avidità, né tanto meno la carne o i fluidi corporali; ma tutto quello che pensiamo e comprendiamo.

Selene in una scultura romana del II secolo.
Selene in una scultura romana del II secolo.

L’anima è formata dall’intelletto e a suo volta plasma il corpo fisico che ella circonda completamente; ma nel medesimo tempo riceve da esso l’impressione e l’impronta, che conserva a lungo anche dopo che si è separata dal corpo e dall’intelletto.

La Luna è la dimora delle anime, con le quali è consustanziale, poiché esse si dissolvono in tale astro, così come dopo la morte i corpi tornano alla Terra. Le anime virtuose, le quali, aliene dai desideri materiali e dagli affanni terreni, hanno condotto un’esistenza dedita alla filosofia e volta alla realizzazione di ideali spirituali, si dissolvono con rapidità nell’atmosfera lunare una volta che si siano separate dall’intelletto. Ma le anime degli ambiziosi e di coloro che vissero intenti solo alle cose materiali; dei voluttuosi, schiavi dei piaceri sensuali, e dei collerici, conservano, come in un sogno, un vago ricordo delle azioni compiute e dei loro pensieri, trovandosi in una condizione simile a quella del mitico Endimione (2). L’incostanza e l’assoggettamento alle passioni le attirano fuori dalla sfera della Luna, per cominciare una nuova incarnazione.

Trascorso un certo periodo di tempo tuttavia la Luna le accoglie nel suo grembo e dona loro un’altra forma; il Sole infonde poi l’intelletto al principio della loro nuova vita; e infine la Terra le riveste di un  corpo fisico. Ma in effetti sia l’una sia l’altro non fanno che restituire quanto si erano ripresi dopo la morte del soggetto.

Rilievo con raffigurazioni di Endimione dormiente custodito nel Museo Capitolino di Roma.
Rilievo con raffigurazioni di Endimione dormiente custodito nel Museo Capitolino di Roma.

Quanto alla Luna, ella dona e prende, unisce e divide, seguendo ora l’una ora l’altra delle sue potenze. Quando unisce è detta Ilizia, e Artemide quando separa. Delle tre Moire Atropo, dimorante sul Sole, segna il principio della nascita; Cloto, che segue la Luna nella sua rivoluzione, congiunge e coordina; Lachesi, l’ultima, risiede sulla Terra e divide il suo potere con la Fortuna.

La materia priva di anima è un elemento inerte, esposto a subire passivamente l’azione di quanto lo circonda; l’intelletto (il nous) non sottostà ad alcuna influenza esterna, ma esercita un potere assoluto e incondizionato, -è per così dire un “comandante supremo” (“autokrator”)-. Come Dio ha creato la Luna mescolando sostanze superiori e inferiori, e l’ha collocata ad uguale distanza dalla Terra e dal Sole, così  l’anima è un composto dei due (materia e intelletto).Con questa articolata esposizione metafisica si conclude il discorso di Silla e tutto il dialogo.

Ma chi è questo enigmatico “straniero” (xenos) che rivela a Silla le straordinarie conoscenze sulle regioni celesti, in particolare sulla sfera della Luna, e sulla sorte ultraterrena delle anime? Di lui si dice che era uno di coloro che, come era costume per gli abitanti del lontano arcipelago a cui appartiene l’isola di Ogigia, erano tenuti a recarsi nella terra Cronia, dove, come abbiamo visto nella parte precedente era stato confinato l’ex-signore dell’Universo per offrirgli i propri servigi durante un periodo di trenta anni. In questo luogo egli aveva appreso e approfondito l’astronomia, la geometria e la filosofia, specie quella naturale. Terminato il trentennio che aveva dovuto trascorrere sull’isola, sentì il desiderio di visitare il continente che si estendeva ad occidente dell’isola Cronia e vi si recò. Da quel momento ebbero inizio per lui una serie di avventure strabilianti durante le quali venne a conoscenza dei misteri più occulti e delle meraviglie più indescrivibili.

Approdato alfine a Cartagine, vi scoprì delle pergamene venerabili che erano state nascoste quando la città era stata distrutta (3) e che fino a quel momento erano state sepolte sotto terra. Egli esortò Silla a venerare le divinità che sfavillano nel Cielo e soprattutto la Luna, colei che esercita la più figlia Core, detta anche Persefone, rappresenta la Luna; Core, -che significa “fanciulla”- è il nome della pupilla dell’occhio, in cui si specchiano gli oggetti che si guardano, poichè riflette il chiarore del Sole. I due astri si cercano in continuazione (così come espresso nel mito della ricerca affannosa di Demetra della figlia rapita da Plutone): durante la Luna nuova Core si nasconde nell’ombra della madre e torna quindi a riunirsi a lei.

Data la sua provenienza dal continente incognito che si estende oltre i confini del mondo conosciuto, si potrebbe inferire che egli sia un discendente della razza atlantidea. Addirittura si potrebbe identificare nell’enigmatico Thoth l’Atlantideo, autore  o scopritore delle leggendarie tavole di smeraldo ritrovate nella “Sala di Amenti”, e contenenti rivelazioni sull’uomo, sul cosmo e su Dio. In effetti questo ambiente sotterraneo segreto doveva trovarsi nei pressi della città egizia di Hermopolis parva, o addirittura, secondo un’interpretazione del “papiro Westcar”, al di sotto delle piramidi di Ghizah, e non a Cartagine; inoltre nel testo di Plutarco si parla di “pergamene” (διφθερας) e non di tavole di smeraldo o altro materiale cristallino, ma pur tuttavia le analogie tra queste figure di profeti rivelatori di segrete verità sono innegabili. A sua volta questo personaggio richiama, sia nel nome, sia nella “rivelazione” che gli è stata attribuita il più famoso Ermete Trismegisto, essere semidivino, nella cui tomba fu rinvenuta la celebre “Tabula Smaragdina”, e autore o ispiratore (o meglio rivelatore, dato che la fonte degli insegnamenti è Pimandro, personificazione dell'”Intelligenza Universale”) di un insieme di testi -il “Corpus Hermeticum”- nei quali è sintetizzata la dottrina definita in epoca moderna “Gnosi ermetica”, -ma che appare decisamente più simile al platonismo pitagorizzante, oltre che al simbolismo egizio, che allo gnosticismo di Basilide e di Valentino. (In merito a tale argomenti da noi già trattati, invito i lettori a rivedere le parti IX, X e soprattutto XI della ricerca su “IL BUE L’ASINO NEL PRESEPE”, pubblicate rispettivamente il 16 e 27 aprile e 23 maggio 2016).

L’ipotesi è suffragata dal fatto che nel decimo dei trattati che costituiscono il “Corpus Hermeticum”, -detto “La Chiave”-, viene esposta una dottrina psicologica e soteriologica che, pur senza far cenno alla permanenza delle anime sulla Luna o negli spazi intersiderali, riprende nelle grandi linee quella di Plutarco (e ancor più di Platone). Secondo quanto Ermete spiega a suo figlio Tat, dall’unica anima dell’Universo escono tutte le anime che espandono in tutti i luoghi del mondo, iniziando così un lungo cammino che comporta numerosi mutamenti, propizi o avversi. Le anime del Rettili si reincarnano negli animali acquatici, quelli di questi ultimi negli animali terrestri; in seguito passano nei volatili e infine negli umani (4). Le anime umane pervengono all’immortalità divenendo demoni; quindi esse entrano nel novero degli dei immobili, e questo è l’ultimo grado dell’iniziazione gloriosa dell’anima.

Ma quando l’anima, dopo essere entrata in un corpo umano non si monda di ogni perversa inclinazione e non si purifica del tutto, non consegue l’immortalità, né partecipa del bene, ma torna indietro e ridiscende verso i Rettili. Un’anima cieca, non conoscendo nulla degli esseri, della loro natura e del bene, è travolta dalle passioni inferiori e asservita ai corpi stranieri ed abietti.

L’Universo è un composto di materia e di intelligenza; il mondo è il primo animale vivente, l’uomo il secondo. Il mondo non è buono, essendo mobile; ma essendo immortale non è cattivo. L’uomo, mobile e mortale, è cattivo (5). Nella concezione formulata da Ermete Trismegisto l’intelligenza (nous) è nella ragione (logos), la ragione è nell’anima (psiche), l’anima è nello spirito (pneuma), lo spirito è nel corpo (soma). Lo spirito scorrendo nelle arterie e nelle vene fa muovere l’animale e gli conferisce la vita (in tal modo qui l’autore si riconnette al primitivo significato di “spirito”-pneuma, come abbiamo visto in precedenza, designa il “soffio vitale”): pertanto alcuni credettero che il sangue fosse la sede dell’anima e della vita; ma in realtà lo spirito trae forza dall’anima, e dopo la morte torna a congiungersi ad essa, mentre il sangue si coagula, smette di scorrere nei vasi sanguigni e così l’animale perisce.

Il maestro continua poi la sua spiegazione procedendo secondo un ricorrente schema trinitario: egli afferma infatti che Dio, sommo bene, racchiude il mondo e il mondo a sua volta contiene l’uomo. Dio vuole essere conosciuto dall’uomo, poiché la conoscenza di Dio è l’unica salvezza per l’uomo, attraverso la quale l’anima si eleva e si reintegra nel suo sommo fattore. Per Ermete Trismegisto, nell’infanzia l’anima è ancora legata e partecipa dell’anima del mondo, -quasi fosse ad essa legata da un cordone ombelicale-; ma poi quando il corpo completa il suo sviluppo e l’individuo diventa adulto, si compie la separazione e l’anima individuale dimentica il bello e il bene. Ma alla fine della vita l’intelligenza, -che è dunque la parte propriamente divina dell’uomo-, purificata e liberata dai vincoli terreni, percorre lo spazio siderale, mentre l’anima deve subire le pene che l’oblio del bene e i conseguenti peccati le hanno procurato. Si afferma altresì che dopo aver lasciato il corpo materiale l’intelligenza si riveste di una tunica di fuoco, che è il più sottile degli elementi, così come prima aveva come veste l’anima -e quest’ultima a sua volta il corpo-. L’autore prosegue enunciando una dottrina che in qualche modo potrebbe ricordare la “comunione dei santi” della teologia cattolica: esiste una profonda comunione tra le anime: quelle degli dei comunicano con quelle degli uomini e queste ultime con quelle degli animali; le più forti si prendono cura delle più deboli: gli dei degli uomini, gli uomini degli animali e Dio di tutte le cose, poichè egli tutte le trascende, abbraccia tutto e qualunque altro ente gli è inferiore.

In sostanza in questo testo si delinea una sorta di dicotomia tra intelligenza e anima: la prima è sempre e per sua natura luminosa e divina, la seconda può e deve lasciarsi guidare dall’intelligenza, e in tal caso volerà verso l’alto si assimilerà a Dio; se invece si lascia traviare dalle passioni mondane e dagli impulsi viziosi, viene severamente punita dalle sue stesse colpe (in precedenza aveva detto che l’intelligenza diventa demone e flagella l’anima con la sferza dei suoi stessi peccati: il che sembra significare che la punizione dell’anima è la coscienza delle sue cattive azioni).

Il dialogo si conclude proclamando che l’uomo “vero”, cha abbia realizzato la sua divinità è superiore agli stessi dei, poiché nessuno di essi lascia la sua sfera celeste per scendere sulla terra, mentre l’uomo che riesce a ritrovare la sua natura divina sale al Cielo.

Osserviamo che Plutarco, a differenza di Platone, colloca la dimora delle anime disincarnate, anche di quelle dei reprobi, ovvero l’Ade, non nelle viscere della Terra, ma nello spazio tra la Terra e la Luna, o sulla Luna stessa; non solo ma pure i fiumi infernali, -come abbiamo visto nel racconto di Timarco-, sono posti in questo spazio aereo, in particolare lo Stige, che segna il confine tra mondo terrestre e mondo celeste (6).

Porfirio e Proclo, pur rifacendosi in generale alla teoria platonica sulla trasmigrazione delle anime, non sembrano ammettere che un’anima già presente in un corpo umano possa reincarnarsi in un animale di altra specie.

Il primo, riprendendo e sviluppando le argomentazioni esposte da Plutarco, riconosce che anche gli animali partecipano del “logos” e che essi, oltre che sensibilità e sentimenti, possiedono pure la razionalità. Il trattato “De abstinentia ab esu animalium”, in quattro libri, è una delle più acute e appassionate difese dei diritti degli animali mai formulate, oltre che una sorta di “manifesto” del vegetarianismo, di cui si afferma essere una delle condizioni imprescindibili per una vita volta alla ricerca spirituale. Soprattutto nel III libro Porfirio, attraverso una serie di osservazioni di carattere zoologico ed etologico e di riflessioni da queste ultime ispirate, sostiene la sua tesi della dignità dell’animale, che differisce dall’uomo non nella sostanza, -che è analoga, anzi identica nell’uno e nell’altro-, ma nel modo in cui essa si esprime e che dunque tra essi v’è differenza di grado, ma non di qualità.

Egli cita la distinzione introdotta dagli Stoici tra “logos prophorikòs” e “logos endiàthetos”, ma afferma che il primo non possa esistere senza l’altro e che dunque la voce e i comportamenti intelligenti con i quali gli animali manifestano le loro emozioni e intenzioni presuppongono un contenuto interiore. Paragona inoltre le voci degli animali alle diverse lingue parlate dagli uomini, che per coloro che non le capiscono riescono estranee e incomprensibili, ma che risultano del tutto logiche una volta che si sappia decifrarne i segni fonetici. Si dovrebbe quindi trovare qualcuno che intenda il linguaggio degli animali e possa tradurlo, cosa difficile, ma non impossibile, e che si è verificata nel passato remoto e recente: l’autore cita a tale proposito l’esempio dei mitici indovini Melampo e Tiresia e del filosofo e mistico Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo (7).

Ma, oltre a singoli individui che ebbero tale dono per le loro virtù profetiche (“telepatiche”, si potrebbe dire in termini moderni) o per la loro elevatezza spirituale, Porfirio nomina alcune popolazioni che avevano fama di poter intendere il linguaggio di specifiche specie animali: gli Arabi capiscono quello che dicono i Corvi; gli Etruschi comprendono il verso delle Aquile. Il filosofo rileva ancora come ciascuna specie animale si esprima con modalità e suoni assai differenti secondo il contenuto psichico, il sentimento o il comando che vogliono comunicare: avvisare di un pericolo i loro simili, radunare o attirare l’attenzione dei piccoli, segnalare la presenza di cibo, ecc. ; ben diverse sono le inflessioni dei loro richiami quando manifestano tenerezza o affetto o allorché si sfidano in combattimento. Gli àuguri, – che studiano i versi, oltre che il volo degli Uccelli per darne un’interpretazione divinatoria-, hanno riconosciuto un gran numero di tipi di emissioni vocali nei volatili.

Porfirio sottolinea le grandi capacità di apprendimento degli animali e porta ad esempio i molti uccelli che riescono ad imitare la voce umana e mostrano di capire il significato di quanto viene loro insegnato. Ma il fatto che molti animali non sappiano imitare il suono della voce umana, -perché non possiedono gli organi vocali adatti, o non sono istruiti in modo adeguato-, o non siano dotati di una voce particolarmente melodiosa o attraente, o siano pressoché muti, non significa che non possiedano la ragione. Si affermerà che gli uomini muti, o non eloquenti, sono privi di qualità razionali? e d’altra parte quanti umani riescono ad imitare in modo verosimile i versi degli animali? Forse che gli umani che parlano una certa lingua dovrebbero concludere che coloro i quali ne usano una diversa, che essi non comprendono, siano privi di ragione?rimas-infantiles-sobre-animales-2

Si potrebbe allora argomentare che pure l’Essere Supremo e gli dei che non parlano le lingue umane non siano partecipi della ragione. Eppure anche tacendo essi ci indicano quello che pensano. Gli Uccelli li capiscono più che gli uomini, e dopo averne inteso il consiglio ne riportano la volontà, che i sacerdoti e gli indovini cercano di interpretare. Anche coloro i quali a cagione dei compiti da essi svolti o per scelta spontanea vivono a contatto con gli animali sanno comprendere i segni che essi inviano: il cacciatore dal modo in cui abbaia capisce se il suo cane ha trovato la preda, se dopo averla trovata la insegue; se l’ha catturata o gli è sfuggita. I bovari ben intendono dai muggiti delle Mucche quando hanno fame, quando hanno sete, se sono infastidite o se stanno cercando il loro vitello; il Leone con il ruggito minaccia; il Lupo con l’ululato fa capire che non sta bene e il pastore riconosce dal belato quello che la Pecora chiede.

E a loro volta gli animali capiscono dal tono di voce e dalle parole lo stato d’animo e le intenzioni buone o cattive degli umani. Dimostrano anche di saper elaborare dei ragionamenti quando si tratta di compiere delle scelte, come ad es. quale strada imboccare davanti a un trivio o come superare un ostacolo. Alcuni obietteranno che fanno questo spinti da un istinto naturale: ma non riceviamo pure noi la ragione dalla natura? e l’istinto non è forse una forma di ragione?

D’altro canto, come attesta Aristotele, non pochi animali insegnano ai loro piccoli come si debbano comportare, come esprimere al meglio loro naturali qualità e come utilizzare le loro doti, come l’Usignolo, -e molti altri uccelli-, che insegnano il canto ai loro pulcini. Lo Stagirita aggiunge che essi apprendono molte cose sia dagli animali di altre specie sia dalle azioni umane.

E pertanto qualunque persona savia (ευγνϖμων) e onesta non potrà convenire che tali fatti provano che gli animali sono intelligenti, mentre gli individui ignoranti (αγνϖμων -nel testo è singolare-) e grossolani non sapranno riconoscere questa verità, perché la ghiottoneria e la sensualità impediscono loro di usare la testa. Non ci si potrà dunque meravigliare di udire da gente di tal fatta discorsi rozzi e sprezzanti verso le creature viventi quando li si vede farle a pezzi con la medesima insensibilità che se fossero pietre. Ma Aristotele, Platone, Empedocle, Pitagora, Democrito e tutti coloro che hanno cercato la verità hanno riconosciuto che gli animali sono dotati di ragione.

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1) com’è noto, alle diverse aree della Luna, e che agli osservatori terrestri apparivano simili a quelle della Terra, -e dunque interpretati come mari, laghi, golfi, paludi, oltre che monti e pianure-, furono attribuiti nomi spesso fantasiosi e suggestivi, legati all’influenza che il satellite esercita, o eserciterebbe, sulla vita sulla Terra e la fisiologia e la psicologia umane. Queste denominazioni sembra siano state introdotte per la prima volta dall’astronomo belga Michael Florent van Langren (1598-1675), in una mappa lunare da lui pubblicata nel 1647. In seguito anche l’astronomo tedesco (o polacco) Johannes Hevel (Hevelius) (1611-1687) nella sua opera “Selenographia” diede un importante contributo alla topografia lunare e intitolò con nomi di mari, tuttora in uso, numerose aree della superficie del satellite. Ma fu soprattutto con la mappa elaborata nel 1651 dall’astronomo italiano G. B. Riccioli (1598-1671) e dal suo discepolo Francesco Grimaldi (1618-1663) che la toponomastica della Luna si fissò, nelle grandi linee, con le caratteristiche attuali: le parti più scure, vennero designate, a seconda dell’ampiezza, come “maria” (oceano il più grande l'”Oceanus Procellarum”), “lacus”, “sinus” -baie e golfi-, “paludes”, messi in relazione sia con fenomeni astronomico-meteorologici (Mare Frigoris, M. Nubium, M. Imbrium, Lacus Aestatis, Sinus Aestum, ecc.), sia con emozioni e qualità morali (Mare Serenitatis, M. Fecunditatis, Lacus Doloris, L. Lenitatis, L. Perseverantiae, L. Somniorum, Sinus Amoris, ecc.). Nella toponomastica adottata dal Riccioli apparivano anche denominazioni composte con “Terra” (T. Caloris, T. Grandinis, T. Vitae, T. Sterilitatis, ecc.), “Peninsula” (P. Fulminum, P. Deliriorum, ecc.), “Insula” (I. Ventorum), ma esse sono state successivamente abbandonate, anche per l’ambiguità del termine “terra” riferito alla Luna.

2) era Endimione un giovane pastore di inusitata bellezza, figlio di Aetlio (o dello stesso Zeus) e della ninfa Calice, del quale secondo il mito più noto si era invaghita Selene quando l’ebbe visto addormentato in una grotta del monte Latmo in Caria. Per poterlo meglio contemplare la dea gli avrebbe infuso con un bacio sugli occhi un eterno sonno che lo preservava dall’invecchiamento. In un altra versione del mito eterno avrebbe richiesto egli stesso a Zeus il dono di poter dormire per l’eternità rimanendo immortale e per sempre giovane; tuttavia benché fosse pressoché immobile immerso nel placido riposo il suo dito mignolo che si moveva incessantemente testimoniava che non era morto, ma dormiva.

3) Cartagine fu completamente rasa al suolo nel 146 a. C. al termine della III guerra punica, ma fu poi ricostruita, con il nome di “Colonia Iulia Carthago”, alla fine del I sec. a. C., divenendo poi un ragguardevole porto sulla costa africana del mar Mediterraneo.

4) questa gerarchia tra gli animali (nell’esposizione di Ermete non vengono prese in considerazione le piante, che pure sono esseri viventi) riprende quella adottata anche da Platone e Plotino (come abbiamo visto nelle parti precedenti della presente ricerca); in particolare notiamo che pure qui gli Uccelli sono visti come gli esseri più simili agli umani, soprattutto quelli canori e quelli che riescono ad imitare la voce umana, proprio a motivo di tali caratteristiche, come abbiamo avuto modo di vedere nella pare precedente, che li rendevano partecipi del “logos endiàthetos”.

5) il movimento e il cambiamento sono qui visti come limite e imperfezione. Questa visione riprende la linea di pensiero che da Parmenide attraverso Platone, -il quale nel dialogo intitolato con il nome dell’antico filosofo eleate, esamina in profondità i problemi inerenti l’uno, il moto e il divenire- giunge ai neoplatonici che del maestro ateniese apprezzarono e posero a fondamento del proprio sistema metafisico soprattutto quest’opera.

6) tale concezione era espressa anche dagli Stoici (si veda ad esempio Cornuto, Comp. Theologiae, 35; Cicerone, Tusculanae Disputationes, I, 42).

7) Melampo, figlio di Amitaone e di Idomene, cugino di Giasone, considerato uno dei primi profeti e guaritori, se non il primo in assoluto. Un giorno i suoi servi uccisero tutti i serpenti intorno alla sua casa, ma egli fece in tempo a salvare i loro piccoli che allevò fino a che non furono cresciuti; essi allora per riconoscenza gli concessero il dono di comprendere il linguaggio degli animali leccandogli le orecchie mentre dormiva. Una simile vicenda si narrava riguardo ai due gemelli Eleno e Cassandra, progenie di Priamo ed Ecuba, i quali per distrazione li avevano lasciati nel tempio di Apollo Timbreo dopo una cerimonia religiosa; tornati in quel luogo per recuperarli videro che alcuni serpenti leccavano loro le orecchie: dopo quel trattamento i due ebbero il dono della profezia e di poter intendere il linguaggio degli Uccelli. Quanto a Tiresia, secondo una tradizione attestata dal poeta Callimaco (“Per il bagno di Pàllade”), essendosi recato alla fonte Ippocrene, sul monte Elicona, -dimora delle Muse-, per ristorarsi dalla calura cin le acque della sorgente, vide senza volerlo la dea Atena che vi si bagnava. Per questa involontaria colpa la dea lo punì con la cecità; invano la madre di Tiresia, Caricolo, che era amica prediletta di Atena la implorò di restituire la vista al figlio; tuttavia, per compensare il castigo, ebbe anch’egli dalla dea, che gli lavò all’uopo le orecchie con l’acqua dell’Ippocrene ( che avevano la virtù di dare l’ispirazione poetica e profetica), il dono della profezia e di poter comprendere gli Uccelli. Di Apollonio di Tiana è noto che professava le idee pitagoriche e vedeva anch’egli in tutti gli esseri viventi delle espressioni dell’Anima e dell’Intelletto universali; nella famosa biografia scritta da Filostrato di Lemno agli inizi del III secolo vi sono molti episodi in cui risalta la sua pietà e considerazione per gli animali, -ad es. in II, 11-16 vi è una lunga digressione sull’intelligenza degli elefanti; in VI, 43 Apollonio guarisce un ragazzo che era stato morso da un cane con la rabbia, proprio rimettendolo in contatto con il cane stesso, il quale viene poi a sua volta guarito con l’immersione in un fiume; in VI, 36 si parla di un giovane addestratore di uccelli il quale però non riesce a sintonizzarsi “tramite il cuore” con le creature che voleva ammaestrare e che viene “convertito” dal filosofo-. Nella tradizione ebraica, cristiana e islamica, -soprattutto in quest’ultima-, è soprattutto Salomone, -la cui figura di sapiente si è trasfigurata nei secoli in quella di un grande mago e conoscitore di tutti i segreti della natura, in grado di soggiogare anche i demoni e gli elementi,- colui che per eccellenza è il depositario della capacità di intendere gli animali.

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