L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -nona parte-

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Ritratto di fanciulla proveniente dalla regione egiziana del Fayyum. L’oasi del Fayyum, -detta nell’età faraonica “Me-Uer”, e in età ellenistico-romana Meride-, si sviluppò intorno ad un lago, in parte permanente, ma che si estendeva notevolmente dopo le inondazioni del Nilo, -che scorre poco più a oriente di essa-. In quest’oasi furono fondate diverse città, specie nell’epoca tarda e greco-romana (Crocodilopolis, -nota per il culto di Sobek, il dio coccodrillo-, Arsinoe, Philadelphia, Teadelphia, ecc.). In questa zona tra l’800 e il 900 furono scoperte numerose mummie, risalenti per la maggior parte ai secoli II-IV, che, a differenza di quelle più antiche, non erano collocate entro un sarcofago di legno o metallo, ma ricoperte con un involucro di tessuto più pesante delle bende, cartone, papiro, ecc., mentre sul volto era posta una tavola di legno con il ritratto del defunto, -eseguito ad encausto o a tempera-. Queste immagini, che rientrano nei canoni dell’arte tardo-ellenistica, sono tra le più belle e significative espressioni della pittura greca e romana (la quale, anche a causa della deperibilità dei supporti, ha lasciato un numero assai minore di testimonianze rispetto alla scultura e al mosaico).

L’altro romanzo ellenistico cristiano è “Gli atti di Santippe e Polìssena”, -in 42 capitoli, quindi di estensione piuttosto modesta-, la cui epoca di composizione è attribuita come per il precedente al secolo III, mentre la storia è ambientata ai tempi di Nerone ed è narrata da un certo Onèsimo, come si dice nel capitolo 38, quando quest’ultimo interviene direttamente nella vicenda. Il libro prende il nome dalle due protagoniste, di cui non è possibile stabilire se siano una creazione di fantasia, o abbiano un fondamento storico, sia pure trasfigurato dalla leggenda; le loro storie peraltro sono in pratica distinte e narrate separatamente: nella prima parte (capp. 1-21) è esposta la vicenda di Santippe, una matrona iberica un cui servo a Roma aveva ascoltato le prediche di S. Paolo e ne aveva riferito il contenuto alla sua signora, la quale ne rimane così colpita che comincia a dedicarsi alla vita ascetica e desidera ricevere il battesimo.

S. Paolo per divina ispirazione si reca allora alla dimora di Santippe e vi si trattiene, ma dopo un po’ di tempo Probo, il marito di Santippe, infastidito dai suoi discorsi, lo scaccia di casa e rinchiude la moglie. Costei però, grazie all’opportuno assopimento del consorte, riesce a fuggire e cerca di raggiungere il santo, che si era trasferito presso un suo discepolo l’ex-prefetto Filoteo; ma durante il tragitto viene aggredita da una torma di demoni che la minacciano con fulmini e fiamme, ma che sono messi in fuga per intervento di Cristo, apparso in forma di splendido giovane. Tornata a casa, scopre che il marito ha avuto un sogno profetico, in seguito al quale anch’egli decide di abbracciare la fede professata da Santippe.

Nella seconda parte (capp. 22-42), assai più movimentata e avvincente, entra in scena la sorella minore di Santippe, il cui nome è Polissena, anch’ella ha sogno di contenuto mistico, nel quale è inghiottita da un terribile drago, ma viene poi salvata da un baldo e prestante giovane (che ovviamente altri non è che il Cristo stesso). Santippe interpreta il drago sognato dalla sorella come le potenze sataniche alle quali Polissena potrà sfuggire solo con il battesimo. Ma questo non può esserle amministrato al più presto come vorrebbe perchè viene rapita da un rivale del suo fidanzato, che intende condurla a Babilonia e a tal fine la conduce su una nave pronta a salpare.

I venti, per intervento provvidenziale, deviano la nave dalla rotta prestabilita e la fanno approdare in Grecia. Qui i rapitori incontrano l’apostolo Filippo, accorso per divina ispirazione, in aiuto della fanciulla, il quale con trenta compagni combatte contro gli ottomila membri della banda del rapitore, di cui cinquemila vengono uccisi, mentre gli altri riescono a dileguarsi. Nel frattempo però Polissena riesce a fuggire dal luogo dove veniva tenuta prigioniera, si inoltra in una foresta e si ricovera nella tana, -in quel momento vuota- di una leonessa. Quando l’animale torna al covile, la fanciulla lo prega di risparmiarla fino a che non abbia ricevuto il battesimo; la leonessa non mostra alcuna ostilità verso di lei ed anzi la aiuta guidandola al di fuori della selva, fino ad una strada, dove incontra l’apostolo Andrea, al quale chiede di essere battezzata. Per compiere questa operazione i due si recano a un pozzo, presso il quale trovano una schiava giudea, Rebecca, ivi recatasi ad attingere acqua. Qui giunge anche la leonessa, la quale prende la parola ed esorta il santo a compire la sua opera salvifica, dopo di che egli se ne va, lasciando sole le due donne.

Dopo alterne vicende, Rebecca scompare di scena, mentre Polissena è catturata da un prefetto romano, che la rinchiude in una stanza della sua casa sotto la sorveglianza di un servo. Ella implora costui, animato da impure intenzioni, di rispettare la sua virtù. Allora il figlio dell’ufficiale si reca da lei e le rivela di essere anch’egli cristiano, la traveste con i suoi abiti e la manda sulle rive del mare per imbarcarsi su una nave che l’aspettava.viviaria-6 Ma un malvagio servo la scopre e la riporta al prefetto. La fanciulla viene condannata ad essere esposta alle fiere nell’arena; qui però ritrova la sua amica leonessa che vedendola le dimostra il suo affetto leccandole le mani e accovacciandosi ai suoi piedi (1) (2). L’evento desta grande meraviglia e provoca la conversione in massa di tutta la popolazione della città (3)(4).

A questo punto entra in scena in prima persona il narratore, Onesimo, un marinaio che dopo aver avuto una visione divina naviga verso un porto della Grecia dove trova Polissena e il figlio del prefetto, a cui si aggrega pure un discepolo di S. Paolo, di nome Lucio. Dopo aver dovuto rimandare la partenza a causa di una violenta tempesta, finalmente la nave da lui comandata, che il prefetto romano ha dotato di adeguate provviste, può salpare per la Spagna, terra d’origine di Polissena. Prima di giungere a destinazione però devono ancora affrontare altri pericoli su un’isola dove fanno sosta, contro i cui feroci abitatori si devono difendere. Alla fine però, dopo dodici giorni, arrivano felicemente alla loro meta in Spagna dove Polissena si riunisce alfine alla sorella Santippe e il gruppetto si incontra con S. Paolo. Questi a sua volta converte anche colui che con il rapimento di Polissena aveva dato inizio a tutta la storia (o meglio la seconda parte della storia).

Dopo questo lungo “excursus”, torniamo al tema principale della nostra trattazione, ovvero l’importanza dei bovini e degli asini nella storia, nei culti e nelle tradizioni religiose antiche, che ci aiuta a comprendere il significato della presenza del Bue e dell’Asino nella natività cristiana; rimaniamo però nell’ambito degli scritti biblici apocrifi, questa volta non quelli del NT, ma quelli dell’AT, poiché pure in questi ultimi i miti animali a cui abbiamo dedicato la presente ricerca rivestono una parte significativa. In particolare in una delle sezioni che costituiscono il cosiddetto “Libro di Henoch etiopico”, -il “libro dei Sogni”, gli asini e soprattutto i bovini, -tori, giovenche e vitelli- sono protagonisti di una delle visioni avute dal patriarca antidiluviano e che questi espone al figlio Matusalemme.

Il “Libro di Henoch etiopico” è uno dei più importanti testi apocrifi, il cui codice completo più antico ancora esistente è in lingua “ghe’ez”, -la lingua etiopica parlata nel regno di Axum, e tuttora lingua liturgica della chiesa copta etiopica (5)-, ma di cui esistono frammenti in aramaico e in greco; esso si compone a sua volta di cinque libri, -più una “conclusione”- per complessivi 108 capitoli, che si presume fossero in origine opere distinte ma che in un secondo tempo sarebbero state rielaborate ed armonizzate per farne un unico testo, il cui autore sarebbe, secondo la tradizione ebraica, il patriarca Henoch (o Enoch), settimo discendente di Adamo, figlio di Iared e padre di Matusalemme (vedasi Genesi, V, 18-24).  In realtà la composizione di tali libri è molto più recente ed è stata attribuita ad un periodo tra la fine del III e la fine del I secolo a. C., in ambienti ebraici in cui si stavano sviluppando e dottrine mistiche che avrebbero avuto poi rigoglioso sviluppo nella tarda antichità e nel ME; ma questi testi, che, come vedremo, hanno titoli altisonanti e suggestivi, congloberebbero al loro interno parti risalenti ad epoche assai anteriori, per alcuni addirittura provenienti dell’antico Impero Babilonese.

Oltre la versione in lingua ghe’ez, del libro attribuito ad Henoch esistono altre due versioni, una slava -e pertanto detta “Libro di Henoch slavo” o “Libro dei Segreti di Henoch”-, ed un’altra in ebraico -detta dunque “L. di Henoch ebraico”-, assai più corta e di epoca più recente, che non risale a prima del ME, che peraltro differiscono non poco tra di loro nel contenuto; per tale ragione questi scritti vengono complessivamente definiti come “Libri di Henoch”.

E’ interessante notare che mentre la durata dell’esistenza degli altri patriarchi antidiluviani ha una lunghezza che sfiora il millennio (Iared ad esempio sarebbe vissuto 962 anni e Matusalemme 969) la vita di Henoch si concluse a “soli” 365 anni, non però per aver lasciato sulla terra le sue spoglie mortali, ma per essere stato assunto in cielo: è assai probabile che questa età abbia un significato mistico-simbolico: infatti questo numero è quello dei giorni dell’anno.

E’ alquanto probabile che l’Henoch biblico, settimo dei patriarchi antidiluviani, sia da identificare con il settimo re nella lista dei mitici sovrani sumeri antidiluviani, -re di Sippar, una delle dodici città stato sumere-, chiamato En-men-dur-ana (o in altre versioni Emmeduranki), -nome che ha il significato di “colui che detiene i poteri del cielo e della terra (letteralmente del “luogo ove si incontrano l’alto e il basso”). Anche nel mito sumerico questo personaggio, il quale avrebbe regnato per 21.000 anni, venne condotto in Cielo dagli dei Shamash e Adad, dove gli furono comunicati i segreti dell’Universo (6).

Le parti in cui si suddivide il “Libro di Henoch etiopico” sono le seguenti:

1) Libro dei Vigilanti (capp. 1-36) -i “Vigilanti” sono gli Angeli protagonisti del libro e di cui si dice che alcuni decisero di sposarsi con le “figlie degli uomini” dalle quali procrearono una stirpe di giganti alti ben 300 cùbiti (nella Bibbia -Genesi, VI, 1-8- questi esseri sono chiamati “Nephilim”, termine che nella versione greca dei Settanta fu tradotto con “Γìγαντες”); gli Angeli inoltre insegnarono agli uomini le scienze, la metallurgia, l’astrologia e la magia, con le quali essi riuscirono a controllare le forze della Natura-;

2) Libro delle Parabole (capp. 37-71);

3) Libro dell’Astronomia (o dei Luminari Celesti), -nel quale si descrivono i luminari, i pianeti e tutto l’ordine del Cosmo- (capp. 72-82);

4) Libro dei Sogni (capp. 83-90);

5) lettera di Henoch (capp. 91-105);

ad essi si aggiunge una “Conclusione” che comprende gli ultimi tre capitoli dell’opera (106-108).

La parte che interessa la nostra ricerca è la quarta. il “Libro dei Sogni”, il cui tema sono le visioni profetiche che Henoch ebbe prima del matrimonio con Edna (che non è citata nello scarno racconto della Genesi) e della nascita del figlio Matusalemme (che gli nacque all’età di 65 anni) e che riferì poi a quest’ultimo, costituendo l’oggetto del libro.

Nella prima di queste visioni, Henoch afferma di aver visto il cielo precipitare sulla terra e la terra essere a sua volta inghiottita da un abisso senza fondo.

Nella seconda, -che è quella che ci riguarda-, vede uscire dal grembo della terra una mucca bianca, seguita da una giovenca rossa e da un vitello nero. Quest’ultimo in un primo tempo scaccia la sorella, ma in seguito ella ritorna e con lei giungono in gran numero altri vitelli e giovenche, fino a che la mucca primigenia genera un bel bue dal candido manto e dopo di lui molti altri bovini neri. Da quel bue, -che potrebbe ricordare il toro che rapi Europa e quello di Creta da cui nacque il Minotauro-, deriva una numerosa progenie di bovini similmente bianchi.nefertari-vacche

Il veggente prosegue la sua narrazione -che peraltro appare piuttosto farraginosa e a tratti poco comprensibile- dicendo di aver visto delle stelle cadere dal cielo, che giunte sulla terra si trasformano a loro volta in bovini e si mescolano agli altri; questi bovini però si congiungono alle giovenche “terrestri” le quali, incredibilmente, generano da essi animali di diverse specie quali asini, cammelli ed elefanti. Essi suscitano timore nei vitelli e nelle giovenche che prima di essi popolavano le praterie, e pertanto li attaccano, e ne nasce una sorta di generale e sanguinoso conflitto che oppone gli uni agli altri; fino a che avviene un altro prodigio: in una luce sfolgorante scendono dal cielo delle strane figure umanoidi, le quali prendono Henoch per mano e lo conducono sopra un’altissima torre da cui egli può contemplare tutte le cose terrestri.

Una delle bianche figure immobilizza la stelle che per prima era caduta dal cielo e la getta in un abisso profondo e tenebroso, mentre gli altri si rivolgono con pietre e spade contro le stelle giunte dal cielo e gli animali da esse generati. Poi quello che sembrava essere il più autorevole dei quattro discesi dal cielo si avvicinò al grande toro bianco e ai suoi figli e confidò loro un grande segreto: anch’egli era nato in forma di bue, e così i suoi compagni, ma in seguito erano divenuti umani ed avevano costruito un’enorme arca.

Il racconto di Henoch continua con la visione di un diluvio che inonda la terra e fa perire gli animali figli delle stelle. Alla fine tutta l’acqua defluisce entro fenditure apertesi nel terreno, l’arca dei quattro uomini-buoi si posa su un’altura e quegli strani esseri ne escono, in forma di nuovo bovina -almeno così pare dal testo che è tutt’altro che chiaro-; essi generano a loro volta numerose stirpi di animali che ripopolano la terra, fra i quali appare un altro bue bianco. Da quest’ultimo derivano un asini selvatico e un bue, il quale ultimo procrea un cinghiale nero e una pecora bianca, che hanno molti discendenti. Quelli della pecora sono altre dodici pecore, che si trovano a vivere e pascolare tra le iene, fino a che, divenute assai numerose, cominciarono ad essere oppresse dalla iene.

La narrazione enochiana prosegue ancora con una serie di visioni incentrate su conflitti tra animali, che sono evidentemente metafora e simbolo di una storia dell’umanità, che tralasciamo perché, oltre ad essere nell’insieme alquanto confuse e monotone, la descrizione di esse esula dal nostro tema. E’ però più che evidente come quanto viene detto in questo racconto, in specie riguardo alle misteriose creature dalla natura insieme bovina ed umana che scendono dal cielo in un’arca e che trasportano il profeta in un luogo inaccessibile, possano essere stati interpretati come appartenenti ad una specie e una civiltà aliene che avrebbero colonizzato in varie ondate la terra, mescolandosi e contraendo connubi con gli autoctoni. In questo senso andrebbero interpretate le stirpi eterogenee di animali che succedono prima e dopo il diluvio.

Anche gli Angeli di cui si parla nelle parti precedenti del “Libro di Henoch”, e in particolare nel “Libro dei Vigilanti”, -nel quale anzi le loro opere costituiscono il tema principale-, sono stati ritenuti entità extra-terrestri, provenienti da lontani pianeti o galassie, dalla cui unione con gli ominidi terrestri avrebbero dato origine alle stirpi umane, o almeno alle più evolute tra di esse.

Il “Libro di Henoch etiopico”, -come pure “Libro dei Segreti di Henoch-“, nonostante la differenza nel contenuto, mostra anche delle indubbie affinità con i “Libri di Thoth”; come ben sappiamo, Thoth era per gli antichi Egizi il dio della misurazione del tempo e dello spazio, della scrittura e della scienza, che fu poi identificato dai Greci con Hermes, e nel periodo tolemaico fu ritenuto anche l’inventore dell’alchimia e l’autore di una rivelazione salvifica contenuta nei libri che costituiscono il “Corpus Hermeticum”: in questa veste ebbe il nome, con cui rimase noto nel ME e nell’età moderna di “Ermete Trimegisto” (cioè “tre volte grandissimo”); nella tradizione della “Gnosi ermetica” egli sarebbe stato un leggendario re-sacerdote di Atlantide, la terra da cui derivarono le principali civiltà antiche, e in primis quella egizia, nella quale la sapienza e le conoscenze scientifiche e metafisiche di quel popolo, per quanto impoverite e deformate, si sarebbero tramandate nella forma più simile a quella originale.

Il dio Thoth, raffigurato con la testa di ibis, suo aninale sacro.
Il dio Thoth.

Secondo i “Testi delle Piramidi”, -che risalgono alle più antiche epoche accertate della civiltà egizia (alcuni passi addirittura all’età predinastica)), il dio Thoth, -similmente all’Henoch ebraico-, avrebbe trascritto i misteri dei cieli in alcuni libri da lui custoditi con scrupolosa diligenza e celati in luogo segreto affinché solo i più degni tra i mortali, i soli in grado di comprendere il loro sublime contenuto, potessero trovarli.

Alcuni hanno sostenuto che questi preziosi testi sarebbero stati nascosti in una camera segreta situata sotto la Sfinge, oppure sotto la piramide di Cheope (si veda al riguardo quanto abbiamo detto negli articoli su “L’ETA’ DELL’ACQUARIO E LA PROFEZIA DELLA PIRAMIDE” e “L’ENIGMA DELLA SFINGE” pubblicati nel 2013), ma ricerche compiute in anni recenti con le più moderne tecnologie non hanno finora rivelato la presenza di cripte sotto o nelle aree circostanti i predetti monumenti.

Ma, come abbiamo visto negli articoli sopra citati, per alcuni ricercatori l’intero complesso delle piramidi di Ghizah e della Sfinge -e soprattutto la grande piramide di Cheope- sarebbe esso stesso la rappresentazione plastica di recondite conoscenza e profezie relative al futuro dell’umanità.

Tuttavia esistono in effetti dei documenti, dei quali il più vetusto è il “Papiro Westcar”, custodito nel Museo di Berlino nei quali si parla di ambienti sotterranei segreti posti nella spianata di Ghizah: questo papiro, -che abbiamo già citato in altri articoli- contiene una raccolta di cinque novelle, delle quali alcune giunte incomplete, aventi per tema operazioni magiche e prodigi, narrate alla corte del faraone Cheope (7).

In una di esse, – l’ultima, a cui manca il finale-, il monarca chiede al mago Djedi se sappia quante siano le stanze  segrete di Thoth. Il mago risponde di non conoscerne il numero, ma di sapere il luogo dove si trovavano, sito nei pressi della città di On, -ovvero Eliopoli, la città santa di Osiride, ove ergevasi anche la celebre pietra Benben, sulla quale la Fenice appena risorta andava ad appollaiarsi (come avemmo modo di vedere nella accurata ricerca da noi condotta sull’argomento)-. Egli aggiunse però che avrebbe potuto condurlo in quel luogo misterioso solo il figlio maggiore di una donna chiamata Red-Djedet, che sarebbe dovuto nascere tra breve, e che sarebbe stato benedetto dalla stessa Iside e da altre divinità. Costui sarebbe divenuto grande sacerdote di Eliopoli ed i suoi fratelli faraoni, fondatori di una nuova dinastia destinata a succedere a quella di Cheope. Dunque se questa storia è veridica, si deve inferirne che le stanze dove furono custoditi i segreti di Thoth non si trovano a Ghizah, ma a Eliopoli.

Alcuni sostengono però che il Thoth autore di questi scritti sapienziali fu un leggendario re-sacerdote atlantideo, che avrebbe tramesso agli antenati degli Egizi la sapienza di Atlantide dopo che essa fu distrutta. Egli avrebbe governato l’Egitto per un lunghissimo periodo durato ben 18.000 anni (dal 52.000 al 36.000 a. C.) e sarebbe stato, nella fase finale del suo regno, il vero edificatore, o quanto meno l’iniziatore, della piramide poi attribuita a Cheope, sotto la quale o comunque nelle sue adiacenza, avrebbe costruito la leggendaria “Sala di Amenti”, per custodirvi gli inestimabili segreti che egli aveva inciso su dodici (ma in altre versioni quindici) tavolette di smeraldo.

CONTINUA NELLA DECIMA PARTE

Note

1)il particolare dell’incontro con il leone -o, come in questo caso, leonessa-, che si ritrova peraltro anche in altri apocrifi e atti di martiri, è con tutta evidenza derivato dal celeberrimo episodio dello schiavo fuggitivo Androclo e del leone. Com’è noto, lo schiavo cura l’animale dalla ferita a una zampa; una volta ripreso e condannato ad essere esposto alle belve, ritrova il leone che gli mostra la sua riconoscenza e il suo affetto e lo salva anche dagli attacchi delle altre fiere. L’episodio commuove l’imperatore e il popolo che pertanto decidono di ridare la libertà ad Androclo e al leone. Questa bella storia la troviamo nelle “Noctes Atticae”, di Aulo Gellio (V, 14); peraltro l’autore afferma esplicitamente di averla letta negli scritti nel grammatico ed erudito alessandrino Apione, -che già abbiamo incontrato altre volte nelle nostre ricerche, in particolare in riferimento alla polemica anti-ebraica che condusse nelle sue opere, soprattutto quella sull’Egitto (ad esempio nella sesta parte di “Le Amazzoni guerriere della Luna”, pubblicata il 9 novembre 2015)-. Le opere di Apione (20 a. C. -45 d. C. circa) sono andate perdute, ma sono conosciute dalle citazioni presenti in altri autori e dalle confutazioni di Flavio Giuseppe e di Fozio, patriarca bizantino del IX secolo. Aulo Gellio riferisce che Apione nel quinto libro della sua opera “Aigyptiakà” (Storia e tradizioni dell’Egitto) sostiene di essere stato testimone oculare del fatto. La storia di Androclo e del leone è narrata pure da Claudio Eliano (De Natura Animalium, VII, 48).

2) sebbene nelle età più antiche sia attestata la presenza del Leone nella penisola balcanica, presumibilmente fino al IV secolo a. C., quanto meno in alcune aree isolate della Macedonia e della Tracia, nei primi secoli dell’era cristiana questo animale era estinto da lungo tempo in tutta l’Europa, per cui aver ambientato l’incontro con una leonessa in Grecia, sia pure in una delle regioni meno popolate (come la Tessaglia) denota scarsa conoscenza dei luoghi o trascuratezza della verosimiglianza del racconto (o entrambe).

3) la storia di Polissena mostra diversi punti di contatto con un altro testo apocrifo, gli “Atti di Paolo e di Tecla”, -che, per quanto assai breve, si può considerare anch’esso un racconto sul modello del romanzo greco- nel quale sono narrate le peripezie e le persecuzioni subite da Tecla, una giovane nobile di Iconio, città della Licaonia, in Asia Minore, divenuta discepola di S. Paolo. Pure costei, condannata “ad bestias” viene risparmiata da una feroce leonessa, che anzi la difende dalle altre fiere e mostra affetto verso di lei. E’ interessante notare che nel capitolo 36 degli atti di Polissena, il figlio del prefetto espressamente dichiara come un episodio similare fosse accaduto poco tempo prima ad Antiochia di Pisidia, ove una discepola di S. Paolo, chiamata appunto Tecla, fu risparmiata dalle fiere; da questo si deduce che la storia di quest’ultima, -alla quale il romanzo di Polissena è ispirato,- fu stesa in epoca anteriore rispetto a quella di Polissena. Secondo Tertulliano, -nel “De Baptismo”, XVII, 5-, che si esprime in modo critico verso tale testo, nel quale la protagonista rivendica il diritto di predicare e di amministrare il battesimo (che anzi ella si dà da sola), -e mostra quindi idee per così dire “femministe”-, questo testo sarebbe stato scritto intorno al 160 da un prete proveniente dalla provincia d’Asia.

4) come abbiamo già rilevato nella ricerca sul declino dell’Impero Romano (seconda parte, 13 giugno 2015), le narrazioni relative ai supplizi subiti dai martiri sia in testi apocrifi, sia negli “acta màrtyrum” e nelle “passiones” leggendarie che fiorirono nel ME, sono in gran parte fantasiose: infatti non bastava una semplice accusa di cristianesimo per incorrere in tali punizioni, ma ad essa doveva sempre aggiungersi un’accusa più precisa o circostanziata (cospirazione, sedizione, magia, veneficio, ecc.) o un comportamento fortemente sprezzante delle istituzioni e dei costumi romani (quali si ebbe in certe sette estremistiche come quella dei montanisti); inoltre le condanne a pene strazianti, quali l'”expositio ad bestias”, era riservata solo agli appartenenti agli strati inferiori della società (quelli che nel basso Impero vennero detti “humiliores” -contrapposti agli “honestiores”-), e pure tra questi raramente erano irrogate alle donne. Per tanto è assai improbabile che aristocratiche fanciulle -quali sono descritte le sante Agnese, Cecilia, Barbara, Caterina di Alessandria, ecc.-, pur se fossero state condannate a morte, avrebbero subito pene così dolorose. D’altro canto, come abbiamo visto nella parte precedente della presente ricerca, le storie dei martiri cristiani spesso ricalcano le vicende dei protagonisti dei romanzi greci, i quali non di rado sono condannati a crudeli supplizi, e a cui si sottraggono per il miracoloso intervento delle divinità che essi invocano (e, per quanto riguarda le eroine, spesso devono subire attentati alla loro verginità e al loro pudore, che anch’esse salvano per grazia divina).

5) questo e il fatto che la maggior parte dei codici provengano dall’Etiopia, si spiega con il fatto che presso la chiesa copta monofisita etiopica il “Libro di Henoch” è considerato un testo “ispirato”, a differenza delle altre chiese cristiane dove, nonostante la popolarità che ebbe presso i cristiani nei primo secoli dell’era volgare, -nelle cui opere viene spesso citato-, esso è ritenuto apocrifo e guardato con sospetto, anche per la fortuna e la considerazione che gli fu tributata da molte comunità e correnti esoteriche ed eterodosse.

6) per l’esattezza quella che viene indicata nelle liste reali non è propriamente la durata della vita, ma la lunghezza del regno, che tuttavia può a buon diritto essere indicativa anche di quella dell’esistenza terrena. Osserviamo dunque che la durata del regno attribuita ai mitici sovrani sumeri è assai più lunga della vita dei patriarchi biblici antidiluviani ai quali corrispondono, pur se diminuisce costantemente: dai 43.200 anni di En-men-lu-ana, ai 18.600 di Ubara-Tutu figlio di En-mne-ur-ana e padre di Utnapishtim (o Ziusudra nella versione originale sumerica), il patriarca del diluvio universale. Dopo il diluvio invece la durata della vita umana si riduce drasticamente, -pur rimanendo ben più lunga di quella dell’umanità più recente, dato che si attesta nell’ordine del migliaio di anni (ad esempio a Jushur di Kish, primo re postdiluviano sono attribuiti 1500 anni). Dobbiamo inoltre precisare che la misura adottata per i re più antichi nelle liste regali non è l’anno, ma il “sar” periodo di 3600 anni.

7) il papiro Westcar risale all’epoca della XVI o XVII dinastia -e quindi al periodo in cui l’Egitto fu dominato dagli Hyksos (1730-1530 a. C. circa)-, ma il suo contenuto è assai più antico, essendo probabilmente coevo agli immediati successori di Cheope (dunque intorno al 2600-2550 a. C.). Esso prese la denominazione con cui è noto da Henry Westcar, avventuriero britannico che lo comprò in Egitto nel 1824. Dopo alterne vicende, nel 1886 fu donato dall’egittologo tedesco Adolf Erman (1854-1937), che ne era venuto in possesso, al Museo di Berlino, dove si trova tuttora.

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